lunedì 10 marzo 2014

I MORTI NON SANNO NULLA 3




                                            TRE



La pioggia s'era prima infittita per poi tornare alla consistenza di velo umido che appannava, più che bagnare, il parabrezza.
Il paesaggio attorno s'immalinconiva e Dino Fabbri osservava con languida distrazione i versanti coperti di boschi, i brevi villaggi attraversati, con le loro case ordinate, i davanzali fioriti, i giardinetti curati.
Ferruccio Testoni non aveva smesso neppure per un momento di parlare: era passato senza soluzione di continuità dal modellismo alla psicoanalisi - i suoi argomenti preferiti -  ed ora stava raccontando di sua moglie.
Si riferiva a Loretta con un'alternanza di  attrazione e repulsione, spingendosi a dettagli così intimi da far sospettare a Dino Fabbri d'esser stato investito d'un ruolo psicoanalitico vicario.
Il Testoni s'inebriava nella descrizione del suo più totale asservimento sessuale e immediatamente dopo si lanciava in una sequela di astiose e sarcastiche considerazioni sulla volgarità della moglie, sul peso insostenibile della sua gelosia, della sua scaltrezza animale.
Dino Fabbri aveva optato fin dall'inizio del viaggio per un silenzio tattico, annuendo ogni tanto a fronte delle affermazioni meno compromettenti del Testoni.
L'approdo a Vaulion era arrivato come la fine di un lungo dormiveglia.
Ferruccio aveva accostato al marciapiede che correva di fronte a una breve sequenza di edifici. Dietro questi s'intravedevano sagome nella foschia; colline o montagne. Sull'altro lato della strada correva l'argine erboso d'un corso d'acqua e al di là di questo c'erano alberi, campagna.
- E' la casa di Solange. Dovrebbero esserci.
Aveva detto il Testoni scendendo dall'auto e sgranchendosi.
Solange era l'amica di Carlotta, quella  che le aveva affittato l'appartamento per il periodo della "tranche".
La casa era una specie di piccolo condominio a tre piani, curiosa per quella struttura urbana tra monti e campagna. Doveva risalire ai primi decenni del secolo; una specie d'hotel particulier tra chalets di legno.
I muri erano d'un malinconico color tortora, ravvivati dallo smalto beige degli infissi.
Il Testoni aveva superato un cancelletto basso e adesso scampanellava al portoncino d'ingresso, protetto dalla sporgenza d'un balcone.
Dino Fabbri lo osservava da dietro il finestrino senza nessuna voglia di mettere piede a terra, improvvisamente senza nessuna voglia di rivedere sua moglie.
Ferruccio si spazientì e si sporse da sotto il balcone ad osservare le finestre del piano superiore, strizzando gli occhi per via della pioggetta insistente.
Dino Fabbri spostò lo sguardo di fronte a sé: in distanza avanzavano due figure, strette l'una all'altra sottobraccio al riparo esiguo d'un ombrellino a fiori.
Riconobbe Carlotta che sorrideva, pallida, un poco china in avanti per tenersi all'altezza della biondina minuscola che le camminava a fianco e che doveva essere Solange.
Dino scese dall'auto mentre Ferruccio varcava di nuovo il cancelletto. Si salutarono con abbracci goffi, ingombrati dall'ombrello e da uno strano imbarazzo.
Carlotta invitò Ferruccio a fermarsi per un thé ma lui insistette per ripartire e raggiungere Bas des Bioux, dove lo aspettava Loretta.
Scaricò il bagaglio di Dino Fabbri salutò con l'accordo frettoloso di incontrarsi per una cena nei giorni successivi e ripartì.
Solange fece strada. All'interno l'ingresso era rischiarato dalla luce debole d'un vecchio lampadario opalino. Regnava un odore confortevole e stantio di mele secche, canfora e caucciù.
Su un lato c'era la rampa di scale che saliva ai piani superiori. Sull'altro c'erano gli ingressi degli appartamenti, uno per piano. Quello di Solange era al pianterreno. La porta era verniciata di smalto blu, con un pomolo d'ottone al centro. Al primo piano c'era l'appartamento della madre, vuoto da quando lei s'era trasferita a Tourrette St.Loup, e che Carlotta aveva preso in affitto. All'ultimo piano viveva il fratello di Solange, sposato da poco.
La casa l'avevano avuta in eredità dal padre, morto molti anni prima.
Carlotta raccontava a Dino gli aneddoti della famiglia Lehrmann mentre lui disfaceva il bagaglio guardandosi attorno.
L'appartamento era arredato con un mobilio ponderoso che doveva risalire anch'esso all'inizio del secolo. La carta da parati raffigurava stinte geometrie floreali, i quadri erano di paesaggi agresti, in cornici di stucco dorato. I soprammobili, le riviste sui tavolini, un vago profumo di lillà, tutto faceva pensare ad una casa abitata. E infatti la madre di Solange se n'era andata pressoché da un giorno all'altro, trasferendosi in una località nell'entroterra tra Nizza e Cannes.
Da quasi quattro anni manteneva con i figli un saltuario rapporto telefonico ed epistolare, senza mai fare ritorno a Vaulion.  Solange e il fratello ad un certo punto le avevano chiesto che cosa intendesse fare dell'appartamento e lei aveva risposto "Affittatelo". Non aveva chiesto che i ricavi le venissero accreditati in alcun modo. Aveva fatto intendere ai figli che si dividessero i proventi.
Carlotta finì di raccontare, appoggiata allo stipite della porta. Osservava Dino con un sorriso d'incoraggiamento sulle labbra.
- Avete fatto buon viaggio ? Tu come stai ? Tutto bene a casa ?
Lui rispose con un cenno d'assenso, abbandonando la borsa sul letto. Le si avvicinò e le infilò le mani sotto il pullover, fissandola negli occhi e scendendo a frugarla sotto la gonna.
- E qui ? Tutto bene ?
Carlotta annuì a più riprese, guardandolo e abbassando ogni tanto le palpebre.
Lui aveva scavalcato gli ostacoli di collant, mutandine, camicetta, reggiseno e l'accarezzava. Per un istante si fermò, come a considerare l'eventualità di spostarsi sul letto ma Carlotta, con leggero affanno, lo trattenne.
- Continua, non ti fermare adesso.
Dino riuscì a farle sgusciare i seni fuori della stretta degli abiti e ci affondò la bocca. Carlotta, appoggiata allo stipite, a gambe divaricate e braccia penzoloni, socchiudeva gli occhi e respirava ansimando. Tese una mano a cercare l'inguine di lui, ciancicò un poco con la cerniera poi rinunciò. Disse:
- Più in fretta.
A Dino il polso della mano con la quale la stava masturbando si stava indolenzendo per la postura innaturale; l'avambraccio pulsava come per l'avvicinarsi di un crampo.
- Più in fretta ! - disse ancora lei, poi presero a tremarle le gambe, si aggrappò alle spalle di lui, gli affondò un morso non troppo leggero sul collo e venne scossa da un orgasmo piuttosto rumoroso.
Per Dino Fabbri erano tutte novità.
- Accidenti... - disse.
Carlotta sorrise, lasciandosi scivolare a terra ad occhi chiusi.
- Era da un po’ che aspettavo.
Gli fece cenno d'accostarsi.
- Tira fuori - sussurrò.
Lo masturbò senza troppa competenza ma con molta buona volontà, accostando ogni tanto le labbra al glande per certi bacetti superflui.
Per la serata erano invitati dal dottor Theroux.
Lui era solito riunire alla sua tavola i propri pazienti. La sera erano invitati anche gli accompagnatori.
Dino Fabbri, dopo aver coccolato Carlotta e aver finito di disfare il bagaglio, s'era aggirato per l'appartamento curiosando.
Il bagno era minuscolo, probabilmente ricavato da un vano che in origine doveva ospitare solo una toilette. Ci si muoveva con difficoltà, urtando ora nel bidet ora nello spigolo della doccia, riflessi da uno specchio di proporzioni minime appeso sopra un lavandino grande quanto un catino.
Carlotta ci si era infilata dopo il sesso. Un brano degli Eurythmics usciva a basso volume dalle casse di un registratore appoggiato su un tavolino in ingresso.
Dino Fabbri si alzò e prese ad aggirarsi per la casa. L'atrio era spoglio, la cucina essenziale, senza attrattive se non per i mobili e gli elettrodomestici risalenti agli anni '50, che avrebbero fatto la gioia di un collezionista di modernariato. Il bagno era occupato e la stanza da letto scarna, come svuotata. In compenso altri due ambienti erano stipati all'inverosimile: un grande soggiorno e una stanza, stretta come un corridoio.
Il soggiorno sfoggiava un'eleganza borghese austera. Sulla zona pranzo incombevano buffets massicci, nello stesso stile del tavolo dalle gambe tornite, circondato da sedie imbottite di cuoio. Il salotto cedeva a qualche vezzo in più: le poltrone e il divano dagli schienali trapuntati erano rivestite di velluto bordeaux, fedelmente accompagnate da tavolini su cui troneggiavano abat-jours dai paralumi damascati.
Dino Fabbri ci si era aggirato con la gradevole sensazione d'abbandono che si prova violando uno spazio d'intimità altrui. Aveva aperto dei cassetti, frugato distrattamente tra tovaglie e biancheria di casa, impregnate d'un odorino di stantìo che gli rammentava qualcosa di lontano, forse appartenuto alla sua infanzia. Poi aveva letteralmente scoperto l'ultima stanza.
In effetti vi si accedeva dal soggiorno attraverso una doppia porta che all'apparenza si sarebbe detta quella di un armadio a muro. Al di là di questa si apriva invece un vano molto luminoso che doveva essere stato ricavato dalla chiusura a vetri d'una veranda in origine aperta. Si affacciava su un giardino sul retro di casa.
La parete a ridosso dell'edificio era coperta da armadi e credenze di fogge e dimensioni diverse. Contro quella di fronte, sul margine di muro che dal pavimento si alzava per un metro e mezzo e su cui poggiava una sequenza di finestroni dai telai di ferro, stavano in fila un paio di letti, una scrivania, un tavolino, una macchina per cucire. Tra la parete a vetri e quella di fronte ci si muoveva quindi come lungo una specie di corridoio di mobili non più largo di un metro. Era sicuramente l'ambiente più luminoso della casa e nonostante quell'aspetto di ripostiglio era anche quello che meno suggeriva l'idea d'abbandono, che al contrario permeava il resto dell'appartamento.
Dino Fabbri si lasciò cadere su uno dei letti e ci si sdraiò, come a saggiarne la comodità. Il copriletto di raso era gelido e polveroso, ma impregnato d'un buon profumo di  vecchia lavanda.
Da quella posizione, drizzandosi sui gomiti, si arrivava con lo sguardo a filo dei vetri, spaziando sul giardino sottostante che era piuttosto grande, recintato da un muro coperto di muffa ed edera, e in stato di completo abbandono. L'erba nelle aiuole era alta, piegata dal peso dell'umidità e della pioggia. I vialetti di ghiaia erano invasi di erbacce. Gli alberi da frutto al centro delle aiuole erano fradici, nudi, bisognosi di vigorose potature. Oltre il muro di cinta i contorni di quelle che forse erano altre case si confondevano nella nebbia che stava crescendo.
Dino Fabbri si alzò e si avvicinò alla scrivania, coperta di vecchie riviste impilate. Prese a sfogliarne una e la voce di Carlotta lo raggiunse.
Lo stava chiamando. Il richiamo pareva lontanissimo.
Posò la rivista, che risaliva ad una decina d'anni prima, e ripromettendosi di setacciare la stanza in un altro momento, tornò in soggiorno, passò in ingresso e trovò Carlotta sulla porta della camera da letto.
- Dov'eri ? -gli chiese.
- Di là... c'é una specie di veranda piena di roba.
- Ah, sì. Solange la chiama il ripostiglio. Sua madre, prima di piantar tutto, ci aveva stipato mezza casa.
Carlotta aveva la testa avvolta nel turbante di un asciugamano annodato, l'accappatoio stretto in vita, con le mani affondate nelle tasche. A Dino parve carina come non la vedeva da un pezzo. Le si avvicinò e, con un gesto che a lei dovette apparire inatteso, le slacciò l'accappatoio.
Fece appena in tempo a cogliere la nudità di lei, i seni pieni, un poco divaricati, il ventre piatto, le lunghe gambe affusolate, che già Carlotta nell'accappatoio ci si richiudeva frettolosamente, ingiungendogli di sbrigarsi.
- Guarda che tra poco Solange suonerà e dovremo esser pronti.
Dino Fabbri aveva mimato un'obbedienza militaresca e si era affrettato verso il bagno, completamente appannato di vapore.

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