lunedì 25 novembre 2013

VIRAGO 535



Un pomeriggio d'inverno del 1988, uscendo dalla bottega di Mauro Ferraris in via Campana, a Torino, mi ero avviato per via Nizza verso Porta Nuova.
Poco prima dell'incrocio con corso Marconi c'era la concessionaria di scooter e ciclomotori dei F.lli Orsi.
Passando davanti alle vetrine illuminate mi era apparsa lei, un po' fuori posto tra motorette per quattordicenni. Somigliava in modo allarmante al motociclo che avevo in testa e che desideravo possedere.
Ero entrato, avevo chiesto il prezzo, me l'ero studiata da vicino e, palpitando, mi ero reso conto che corrispondeva alle mie aspettative.
All'uscita, in un edicola, avevo  acquistato un paio di riviste per mettermi ulteriormente sul gusto.




















Era lei.
Laura in quel periodo stava girando "Maicol" con Mario Brenta a Milano e io, come un bambino che si compra un giocattolo costoso all'insaputa dei familiari, ero andato dai F.lli Orsi avevo compilato un assegno e mi ero accaparrato un frammento di entusiasmo adolescenziale.
Qualche tempo dopo - si era ormai in primavera avanzata - in una tarda mattinata festiva ero andato comprare un pollo arrosto in una rosticceria di via S. Massimo. Ci ero andato in moto. Da quando ce l'avevo non facevo che andare in moto ovunque.
All'uscita dalla bottega un biker in sella alla sua custom stava osservando la mia Yamaha.
Avevamo scambiato qualche parola. Lui aveva apprezzato il mio mezzo. Io me ne stavo là, con il sacchetto di plastica e il pollo dentro, più casalingo che motard, un poco imbarazzato dalla mia inadeguatezza.
Lui mi aveva rivolto un invito tanto generico quanto laconico.
Aveva detto - Noi ci troviamo oggi pomeriggio alle due e mezzo davanti al palazzo della Regione, se vuoi fare un salto.
Noi chi ? Non glielo avevo chiesto. Avevo ringraziato e lui si era avviato, rombando con gli scarichi aperti.
Il palazzo della Regione è in piazza Castello, molto vicino a qualla che allora era casa mia, in via Carlo Alberto, e così dopo pranzo avevo fatto un giretto esplorativo.
Saranno stati una ventina, tutti a cavallo di custom modificate, abbigliati in modo adeguato, quanto di più simile ad una banda di bikers mi fosse capitato di incrociare dalle mie parti.
Mi ero avvicinato con cautela. Paolo, il ragazzo con cui avevo avuto contatto al mattino, mi aveva riconosciuto, c'erano stati saluti senza presentazioni, loro stavano per muoversi e così, all'improvviso, mi ero ritrovato imbarcato in un'infornata di gente cha montava in sella, avviava i motori nel fracasso assordante delle marmitte aperte e si muoveva in un arrogante formazione che occupava tutta la carreggiata di via Pietro Micca, in un giorno festivo nel pieno centro di Torino per la meraviglia allarmata dei passanti adulti e l'entusiasmo incantato dei loro rampolli.
Dopo quella volta sono uscito con loro in altre occasioni. 


















  




Ci si trovava in piazza Castello o in piazza Carignano e poi si scorazzava per periferie che mi erano sconosciute, finendo in birrerie di confine, o in prati dove erano in corso raduni con una band che suonava sul cassone  aperto di un camion, grafici che personalizzavano serbatoi e parafanghi con l'aerografo, tatuatori, venditori di panini alla salsiccia e lattine di birra, qualcuno da portare al pronto soccorso perchè si feriva "pogando" (io mi limitavo ad osservare). Insomma, un'esperienza interessante.





















E poi un giorno la banda si era costituita con un vero tesseramento, affiliato ufficialmente alla gilda dei motoclub.
Eravamo i Dirty Bikers.
Con la tessera ricevemmo le insegne, che applicammo su giubbotti di jeans senza maniche da indossare sui "chiodi".








Le nostre uscite avevano ora un tocco di temibilità temeraria, anche se soltanto dal punto di vista estetico. 
Io nel frattempo, influenzato dalle frequentazioni, avevo optato per alcune modificazioni della Virago, cambiando sella, manubrio, frecce anteriori e posteriori, specchietti retrovisori, manopole, portatarga e fanale posteriore, e forando gli scarichi, il tutto con l'aiuto di Paolo.









L'avventura si è poi inevitabilmente conclusa. 
Per un po' di tempo avevo vagheggiato di farci un documentario sui Dirty Bikers, poi però ho venduto la moto nella convinzione che fosse reponsabile di certi miei problemi di cervicale che allora mi affliggevano con una certa frequenza, e l'idea del documentario si potrebbe dunque ascrivere d'ufficio alla categoria degli "Atti Mancati".
Della Virago mi resta una chiave (ci sta come "Reparto reperti").








...e qualche fotografia

















questa, del 1990, sarebbe andata bene anche per COPRICAPI. Tout se tien...

giovedì 21 novembre 2013

COPRICAPI



Sarà che fin da piccoletto mi cacciavano quelle papaline in testa...





Cimavilla (Vistrorio) luglio 1952














...e non solo...
























Qui, "deguisé" en Esther Williams, ammonisco le onde...




...e qui, stesso costume, stesso cerotto a proteggere
la scarificazione dell'antivaiolosa, ma con berretto da
lupetto di mare ascolto lei, un'affettuosa amichetta che rispondeva
al nome di Nuccia Gaschino (così è riportato sul retro)
  di Cuneo, che assomiglia in modo impressionante a Marina 
( vedi intenso post del 15 gennaio 2011) 
molto amata compagna di  tanti anni dopo.










Insomma, sia come sia, nutro da sempre un'attrazione irresistibile per cappelli, berretti, bandane, sombreri, bombette, tricorni etc.etc..
Ne ho avuti a decine e purtroppo non di tutti resta testimonianza, però c'è materiale per un excursus abbastanza esauriente, quindi ci provo, e vediamo cosa salta fuori.




Il mio primo cappello da cow-boy, di un paio di taglie
di troppo, che sulla fascia portava la scritta
Roy Rogers - Trigger ( che era il suo cavallo)




ll cappello da cow-boy ha ricevuto un'attenzione costante fin dalla prima infanzia, innestata da un guardarobino regalatomi da mio padre di ritorno dagli Stati Uniti, la prima volta nel 1954 (vedi in proposito l'esauriente post "Western vintage" del 9 dicembre 2012) che mi offre il destro per una breve digressione in un ambito a me congeniale, che è quello delle cartoline di domestica memoria.





Ero ancora Pieruccio, il numero civico era ancora 33,
il mio papà mi scriveva parole che non sapevo ancora
leggere, ma la fascinazione di quelle immagini era folgorante. 
Amorevolmente pragmatica la raccomandazione per mia madre.






avevo tre anni e mezzo ma in qualche modo ero
fieramente consapevole di essere l'unico bambino
che avesse un papà che andava in cerca di orsi.










    






mio padre con zii, prozie e cugine a N.Y.



questa mi avvicina più delle altre
all'idea che mi sono fatto di mio padre,
dell'uomo giovane che era allora.






Reduce dal periodo di lavoro sulla west coast è a New York, in attesa di imbarcarsi per il viaggio di ritorno su uno di quei Super Constellation a eliche - se ne intravede un frammento a sinistra, oltre l'ala - con i quali varcavano l'oceano in quegli anni.



il terzetto che sale a sinistra sembra uscito 
da un'illustrazione di Norman Rockwell




Sul retro della cartolina pubblicitaria dell'hotel in cui è ospite ha annotato il numero della camera sua e di un collega, nonchè del piano.
Il tutto con la solita Aurora 88, con la quale ha vergato anche le altre missive. 




 ed eccola qui, usurata ma non doma,
ha scritto anche molte delle mie cose
prima che la guarnizione, come un'articolazione
animale, si arrendesse al logorante
entusiasmo dell'uso.









Sul lato indirizzo della cartolina, con una biro, quindi in un secondo momento e come per un appunto frettoloso, ha annotato alcuni capi d'abbigliamento con relativi prezzi. Sono quelli del mio costume da cow-boy, acquistati probabilmente all'ultimo momento in un grande magazzino newyorkese.














E me lo immagino quest'uomo, già carico di regali - strepitose camicie hawaiane che "leggevo" come album di fumetti, mocassini indiani vezzosamente costellati di perline per mia madre ed essenziali per me e per lui e tanto altro - che all'ultimo momento ricorda la promessa fatta al bimbetto di cui sicuramente non conosce misure, che ha voglia di rivedere ma che non sa molto come trattare, come quasi tutti gli uomini della sua generazione.








Così, poco prima di andare all'aereoporto, affacciato ad un diciottesimo piano, prende nota su una cartolina, e quella cartolina è ancora con me. 




ed eccomi qui, con mostruosa coccinella
spillata sull'immancabile papalina tra
mio padre e Anita P., che ho sempre avuto
l'impressione che fosse vagamente infatuata di lui.



Il cappello da cow-boy, comunque, è rimasto abbastanza costante













...ci torneremo. Per ora vorrei avanzare in modo possibilmente cronologico.
E allora, durante l'infanzia copricapi invernali...








Il mio berretto da Davy Crockett
in pelliccia di procione, del quale
andavo fierissimo



















1974





E in città certi berretti a visiera corta come questo sotto







...o quest'altro scamosciato






che ho ritrovato in un baule in soffitta









O  ancora quello che nelle preferenze faceva il paio con i berretto da Davy Crockett, e cioè quello da Sherlock Holmes









Ma ora procediamo con vintage estivo




austero mio cugino Giampiero, scanzonato io.
Stargli vicino mi faceva sempre questo effetto.




 a Noli



...però si direbbe che a godere dei miei favori, all'epoca, fosse soprattutto questo baschetto









che indossavo sia in veste di estemporaneo Tom Sawyer alle prese con la pittura di una staccionata...









...che per scorribande ciclistiche su sterrati, cubetti di porfido, sentieri erbosi e pochissimo asfalto per percorsi ruegliesi...









Il commento a matita di mia madre mi attribuisce
una soddisfatta attitudine Huckleberry Finn



 
Niente berretti ma ci sta...



...e per un certo periodo, in città, ai giardini, 
su un altra bici, con manubrio sportivo, 
ho indossato questo




 ...la foto è veramente orribile ma filologicamente
ineccepibile: berretto e bicicletta (tra l'altro devo
averla già postata da qualche parte, vabbè...) 




...e infine, per tornare al baschetto bianco, era indossato anche in conturbanti contiguità con la femminilità, che credo abbiano influenzato in modo significativo il mio modo di percepire certe intense sottigliezze erotiche.




tra Anita e Milena Peraglie, che nella loro adolescenza
 mi avevano bamboleggiato fin dalla mia più tenera età, e ora signorine
condividevano con me pause meridiane con ghiaccioli e languori.




Una bombetta comprata da un rigattiere a Brighton, nel 1971.














Una paglietta trovata nella casa di Cimavilla, arrivata da New York intorno al 1915.















Qualche bandana...




1972




1990





1994




1996


  e altro...



1976




1987




1970




1981




1974




1999




1990




2008




1997



1990




anche parecchi berretti da baseball...




1972



1994



1997





1996



1994




1993



1999



Qui sopra con la mia penultima telecamera, sotto con la mia prima cinepresa (e un berretto diverso).




1974



1989



1987



...con l'Arriflex BL 16 mm. torniamo ai cappelli da cow-boy.





 1973





 1970




 1974




 1977





 1975




I cappelli da cow-boy sono legati alla parabola del 1980, annus horribilis durante il quale mi ero convinto che isolarsi dal resto del mondo e allevare cavalli fosse una soluzione praticabile, ipotesi che si è poi rivelata imbarazzantemente infondata.























Il lungo sonno della ragione di quell'anno cruciale ha poi generato i mostricciattoli che accompagnano in modo intermittente la mia ciclotimia. 
Malgrado tutto un cappello da cow-boy ce l'ho ancora, a Rueglio, uno Stetson che non ho mai indossato se non per pochi momenti, in casa, in attesa di un uso futuro che probabilmente non si verificherà più, un simulacro, un feticcio, roba così.






L'ultima volta che sono stato su ho immortalato un po' di copricapi d'archivio perchè avevo in mente quest'idea forse balzana di fare un post sui cappelli.
Questo me lo sono cacciato in testa e mi ci sono fotografato  in uno specchio. L'inquadratura è quella che è, il soggetto anche, ma chiude - a mio parere - come era giusto che fosse.