domenica 9 marzo 2014

I MORTI NON SANNO NULLA 1




Tra il 1997 e il 1998 ho scritto un romanzo. Contrariamente a quanto mi accade normalmente di fronte a progetti di scrittura di lungo respiro, vale a dire la continua tentazione di mollare, la sensazione di perdere tempo per qualcosa priva di valore e così via, sentimenti che regolarmente mi spingono a sospendere il lavoro, in quel caso ricordo di essermici divertito.
L'impianto narrativo era di carattere "giallo", i personaggi tratteggiati ricorrendo a figure conosciute, insomma un'esperienza positiva.
Quel romanzo aveva poi inaspettatamente trovato un editore con una certa facilità, in controtendenza con l'impietosa legge dell'editoria. Così il libro, nel 2011, è uscito.
E qui salta fuori il pedaggio, la libbra di carne da versare al Moloch.
L'originale, con mia piena partecipazione ed assenso, è stato sottoposto ad un trattamento di editing radicale, gli è stato cambiato il titolo, è stato reso molto  più smilzo sacrificando situazioni e personaggi, ne è stata cassata la connotazione consolatoria a favore di una maggior brutalità senza scampo. E a tutto questo, ammetto, ho partecipato quasi sempre con entusiasmo. Avevo il miglior editor della casa editrice, cosa volevo di più ?
Io per natura non difendo la paternità delle mie "opere dell'ingegno", non mi batto, mi pare ridicolo, dopo un po' me me distraggo e occorrono anni prima che, rileggendo o rivedendo mi dica "Pero', era roba buona, accidenti."
Non so se si possa dire anche dell'originale del romanzo suddetto, mi pare di sì, ma mi pare soltanto, però visto che i giochi sono fatti, che le copie in giacenza dall'editore e dal distributore saranno finite al macero e che quello strano libro che non ho mai sentito mio ha fatto il suo percorso, ho deciso di approfittare di questo spazio confessionale per offrire al mio sparuto ma fedele gruppo di lettori l'opportunità di dare un'occhiata all'originale.
I post saranno in sequenza per capitoli, e i capitoli sono 34.



I MORTI NON SANNO NULLA




UNO

Dopo Losanna si erano persi un paio di volte.
Una pioggia leggerissima li accompagnava fin dal passaggio alla frontiera del Gran San Bernardo.
Il Testoni si era detto sicuro del percorso.
All'eventualità prospettata da Dino Fabbri di passare per il traforo del Monte Bianco, raggiungere Ginevra e poi di lì arrivare a destinazione da ovest, come la consultazione ragionevole della cartina suggeriva, aveva risposto scuotendo il capo con un sorriso di bonaria sufficienza.
- Molto più lunga - aveva affermato, e da Losanna in poi si era anche rifiutato di restare sull'autostrada, seguendo un percorso incontrollabile sulla mappa, che Dino Fabbri teneva ormai distrattamente sulle ginocchia.
Ferruccio Testoni era passato a prenderlo al mattino prestissimo, in preda ad un'eccitazione infantile in vista del viaggio, al volante di una berlina giapponese di grossa cilindrata che Dino non aveva mai visto in circolazione.
Si erano conosciuti un paio di mesi prima.
Da un paio di mesi Dino Fabbri aveva radicalmente rivoluzionato la propria esistenza semplicemente accettando la proposta di matrimonio che gli era stata rivolta da una donna pressoché sconosciuta.
Per essere esatti proprio una sconosciuta non era. Dino si  ricordava  di lei perfettamente per averla fotografata dieci anni prima, in un abito bianco e blu, all'altare di una chiesa quattrocentesca,  sedicenne testimone di nozze di una marchesina irrequieta.
La marchesina, molto chiacchierata, veniva impalmata dal rampollo d'una dinastia di proprietari di fonderie il cui capostipite aveva iniziato nel fangoso cortile d'un ferrivecchi.
Dino presenziava in veste di assistente di tal Gambarino, un fotografo di matrimoni che all'epoca godeva di una certa notorietà nell'ambito del gotha subalpino.
Aveva iniziato a lavorare per lui un anno prima, nel '73.
Carlo Gambarino aveva rinunciato a succedere al padre nella conduzione dell'avviata catena di negozi di primizie dopo un viaggio nel nord Europa nel '66. Al suo ritorno, in una porzione di capannone in disuso di Lungodora Colletta, aveva allestito uno studio fotografico ispirato alla Swinging London.
Blow Up, Mary Quant, Twiggy, Jane Shrimpton, i Beatles avevano fatto il resto. A lui era bastato aggiungere una fidanzata thailandese, che in quegli anni rappresentava una mirabolante attrazione esotica per le vie del centro. Credito e clienti erano piovuti con facilità.
Con istintivo senso strategico aveva imparato ad accaparrarsi i matrimoni importanti. Moltissime delle ragazze ospiti dei ricevimenti passavano poi dallo studio di Lungodora Colletta e con distaccato sussiego chiedevano un "servizio fotografico".
Di quel servizio non se ne facevano nulla, ma la tentazione per tutte, nell'arco di una lunga stagione, era stata irresistibile.
Gambarino stampava un paio di ritratti tradizionali, destinati a finire  incorniciati negli studi professionistici dei padri delle ragazze e poi , in formati poster, altri.  Certe figure intere su fondali bianchi con le protagoniste in pose scarmigliate, prive della compostezza delle foto segnaletiche ma con un'identica allarmante vacuità degli sguardi all'obbiettivo. In abbigliamenti discinti, in patetiche simulazioni di disinvolta spregiudicatezza.
Il prezzo di ognuno di quei servizi equivaleva, all'epoca, allo stipendio di un operaio. E Gambarino ne faceva così tanti che gli mancava il tempo di stampare.
Era stato allora che aveva preso Dino Fabbri come assistente. In pratica lo aveva sepolto in camera oscura, uno stanzone adattato all'uso che, dati i formati richiesti, aveva un ingranditore accroccato al soffitto, bagni di sviluppo e fissaggio "a grondaia" e una specie di enorme stendibiancheria ventilato, per l'asciugatura delle stampe. Tutte soluzioni tecniche del funambolico Gambarino, che possedeva una sorprendente disposizione all'arrangiarsi.
All'epoca del loro primo incontro Dino aveva vent'anni.
Si aggirava per la città con una Nikkormat FTN e un paio di obbiettivi affondati in un tascapane militare e scattava, dopo lunghi agguati, ritratti di disagio urbano.
Con Gambarino era venuto in contatto ad un matrimonio. Nel senso che si era trovato a passare di fronte al sagrato della Gran Madre proprio mentre ne usciva in pompa magna la folla di partecipanti alle nozze di un calciatore famoso.
Gambarino era il fotografo ufficiale ma, ovviamente, non l'unico.
Dino aveva notato un paio di mendicanti accucciati a metà della scalinata e, piegandosi sulle ginocchia, s'era reso conto che con il grandangolo aveva loro due in primo piano rivolti a lui con indifferente curiosità, e dietro di loro, distanti ma presenti, gli sposi con il bailamme d'allegria forzata che li circondava come una nuvolaglia.
Gambarino, che pur in situazioni d'emergenza non perdeva mai di vista l'occasione di approfittare di qualcuno, era sceso quasi ruzzolando per la scalinata e gli si era fermato accanto.
- Quanto vuoi per farmi qualche scatto ? - aveva chiesto, sfiatato. Dino lo aveva guardato con stupore, senza saper rispondere.
- Diciamo un paio di rullini. Li hai ?
Dino aveva fatto cenno di sì.
- Cos'hai in macchina ?
- Bianco e nero.
- Mhm...Non c'hai colore ?
- No.
- Vabbe'...Scatta sposi e invitati e cerca di tenermi fuori quei cazzoni -  aveva detto indicando fotografi e cronisti, già risalendo affannosamente la scalinata.
- Non perdermi di vista. Raggiungimi alla macchina quando qui é finito tutto.
Dino Fabbri era rimasto per un momento un po’ frastornato.
I due mendicanti gli avevano rivolto una perentoria richiesta d'elemosina e lui, per sfuggirli, s'era avviato lungo la scalinata, verso il suo primo lavoro.
Quello che doveva fare era esattamente quello che non sapeva fare: buttarsi nella mischia e scattare senza prima studiare la situazione, senza avere il tempo di sviluppare un minimo di conoscenza, di rapporto con quello che gli stava di fronte.
Gambarino imperversava, roteando la sua Rollei con un gesto di caricamento che ricordava quello di un cow-boy con la sua Colt. Quel gesto rapido ed elegante, che suggeriva una competenza professionale assoluta, fu l'unica cosa per la quale Dino ebbe poi ragione di provare per lui considerazione.
Fece qualche scatto ma la gente capitava nell'inquadratura senza che lui potesse farci nulla.
C'era molta agitazione, i fotografi dei giornali chiamavano a gran voce, per nome, il calciatore e la sposa, mentre Gambarino sgusciava tra loro, parandosi a bella posta davanti agli obbiettivi a tradimento.
Dino scattò il resto del rullino solo sui fotografi e sul loro accalcarsi.
Sostituì l'ottica e innestò sull'attacco a baionetta il suo gioiello: un 85 mm. 1,8 acquistato da un piccolo ricettatore. Le facce dei fotografi, i dettagli del loro accanimento, si offrivano al mirino con tenace nitidezza.
Dino cambiò il rullino ultimato scendendo la scalinata e lasciandosi alle spalle la folla che iniziava la discesa.
Gambarino precedeva gli sposi inchinandosi di fronte a loro con l'occhio al "pozzetto", mentre gli altri si accalcavano attorno rumoreggiando.
Sul corso le auto di passaggio rallentavano. Qualcuno si affacciava ai finestrini.
Dino appoggiò i gomiti al tettuccio di un'auto, impugnando con più fermezza, e fece qualche scatto.
Cercava loro due - il calciatore e la sposa - e ne cercava l'espressione che avrebbero avuto quando fossero stati lontani da quel casino.
Dal corso si alzò improvviso lo strepito di un clacson mugghiante: qualcuno, probabilmente un tifoso, dopo lo strombazzo, urlò qualcosa dall'auto e dalla scalinata tutti rivolsero lo sguardo nella sua direzione. Un pelo sopra l'obbiettivo di Dino.
Per un attimo, prima che la folla riprendesse il suo modesto tumulto, ebbe gli sposi al centro dell'inquadratura.
Dietro di loro l'assenza di profondità di campo trasformava gli invitati in gradevoli macchie indistinte.
Lei si voltò verso di lui con un filo di stupore a fior di labbra e lui le sorrise, rassicurante.
Dino scattò.
Quando raggiunse Gambarino quello stava già scaldando il motore dell'auto con isteriche accelerate. Abbassò il finestrino e gli mulinò davanti un modesto ventaglio di banconote.
- Bastano, no? Dai, dammi i rullini che devo arrivare prima di loro.
Dino scosse la testa.
- Stampo io i miei negativi - riuscì a dire senza timidezza.
Cosa !? Ma che cazz...Cosa vuoi ? Di più ? - chiese Gambarino,
osservando perplesso le banconote che teneva in mano.
Dino optò per un diniego silenzioso.
- E allora ? Dai, deciditi ! E che cazz...!
- Stampo io - disse ancora Dino.
- Ma vaffanculo ! - sbraitò Gambarino, innestando la marcia e scostandosi maldestramente dal bordo del marciapiede.
Dino si fece da parte, a disagio. Non era mai stato offeso da un estraneo adulto a quel modo.
Gambarino inchiodò, rovistò nel cruscotto e lasciò cadere fuori dal finestrino un biglietto da visita.
- Vabbe’, quando hai finito  porta a vedere i capolavori - disse, e filò via.
Dino raccolse il biglietto.
Adesso gli stava montando dentro una rabbia acuta, di quelle che affiorano dopo che non si é saputo reagire al momento opportuno. Si trattenne dallo strappare il biglietto e lo intascò con stizza. Si avviò sul ponte verso piazza Vittorio rimuginando tra sé immaginarie occasioni di rivalsa.
In effetti prendersi rivincite dichiarate con Gambarino era impossibile. Dino lo capì col tempo, e col tempo se ne fece una ragione fino a trovarlo, se non divertente, quantomeno interessante.
Carlo Gambarino era forte dell'invulnerabilità degli ottusi supponenti.
Inoltre nulla che non potesse trasformarsi in un lasso di tempo irragionevolmente breve in un guadagno riusciva ad attrarre la sua attenzione.
Con due sole, labili, eccezioni. Quella d'ostinarsi nell'illecita posizione dell'artista ed un'attrazione erotico padronale nei confronti della convivente thailandese, di nome Luong.
Ora, per quanto riguardava la fotografia, per tutto il tempo della loro collaborazione Gambarino oppose un'incaponita resistenza a riconoscere a Dino Fabbri ciò che aveva individuato in lui fin dalla visione delle sue prime stampe, e cioè un talento che a lui la Natura aveva irrevocabilmente negato.
Per quanto riguardava invece Luong sarebbe stato impossibile, senza comprometterla, rivelare a Gambarino che tra lei e lo sprovveduto assistente c'era stata un'intensa e piacevolissima relazione, iniziata quasi contemporaneamente alla collaborazione professionale.
Era dunque successo che Dino Fabbri, ancora in preda a livore impotente, s'era arrampicato alla sua soffitta di via Po 2, aveva gettato in un angolo il biglietto da visita e si era lanciato nel rabbioso sviluppo dei rullini del matrimonio, costretto alla quasi immobilità nel minuscolo bagno che fungeva anche da camera oscura.
La soffitta era la sua casa da un anno; l'aveva avuta in affitto tramite una conoscenza di sua madre.
Lei continuava a vivere a Saluzzo, economizzando sulla reversibilità della pensione del marito, morto da un paio d'anni.
Dino non sapeva dire cosa provasse per i genitori. Qualcosa di indeciso tra la pena e la rabbia, che lo aveva spinto lontano di casa poco dopo la morte del padre.
Sviluppò i negativi e stampò i provini, e ciò di cui aveva avuto un vago sospetto, al momento dello scatto, si rivelò reale.
Lo sguardo degli sposi, rubato accidentalmente nell'istante giusto, era, come per tutte le belle fotografie, di un'intensità che travalicava il fatto visivo in sé: diceva di più, diceva qualcosa di così speciale che persino i due che vi erano ritratti  se ne sarebbero stupiti.
Dino Fabbri sapeva che si trattava di qualcosa che ti si offre raramente, un magico intervallo dopo centinaia di scatti e prima di altre centinaia, e che chiunque riconosce immediatamente. Persino Gambarino.
Così il giorno dopo gli aveva telefonato e l'altro gli aveva detto di passare da lui in studio.
Il capannone in Lungodora Colletta aveva una sua suggestione.
Invece di rivolgersi ad un architetto Gambarino aveva fatto vedere le foto di uno studio londinese ad un capocantiere, che gli era debitore per certi traffici di auto usate che avevano in comune.  Era riuscito ad ottenere un risultato eccellente senza rendersene conto e, per di più, con una spesa irrisoria.
Le altissime pareti di mattoni a vista erano dipinte di colori pastello, intersecate da spalti praticabili. La pavimentazione era dislocata su piani differenti. Fari, spot, proiettori erano disposti in posizioni più effettistiche che funzionali.
Sul fondo erano stati ricavati quattro ambienti contraddistinti - tranne uno - da rigore spartano. Una toilette, la camera oscura, un "camerino" col fatidico specchio incorniciato di lampadine e, infine, l'ufficio.
Qui Gambarino s'era lasciato prendere la mano: non un centimetro delle pareti era libero di foto incorniciate. C'erano i suoi capolavori, stampati in formati che andavano dal 30x40 in su e poi foto di lui: al Club Mediterranée, su una spider in veste estemporanea di corridore automobilista, in Kenya, senza macchina fotografica ma col fucile.
Dino Fabbri aveva fatto il suo ingresso vagamente intimidito e nello stesso tempo desideroso d'esser pungente, se se ne fosse presentata l'occasione.
Gambarino gli aveva rivolto un gesto distratto, da dietro la scrivania presidenziale, indicandogli una poltroncina rivestita di velluto ispido, ferroviario.
- Allora abbiamo stampato ? - aveva chiesto con sarcasmo, fingendo di sforzarsi per trattenere una risatina.
Dino Fabbri, senza sedersi, aveva estratto un piccolo malloppo di copie in 18x24, stampate su carta opaca e con bordo bianco, un procedimento piuttosto inusuale per i tempi: Gambarino stampava su tutta la superficie con carta lucida e poi asciugava in una smaltatrice. Più che stampe le sue parevano cromature. E si abbandonava ad un uso melenso e imbarazzante dei filtri flou. Nel '73 pareva una soluzione geniale. Dino Fabbri a quell'epoca aveva però già incontrato, grazie ad un insegnante del liceo artistico dove si era diplomato un paio d'anni prima, Dorothea Lange, Cartier-Bresson, i fotografi della Farm Security Administration. Le patinature in voga, che Gambarino adottava in modo così sfrontato, lo facevano vomitare.
Aveva stampato una dozzina di immagini che ritraevano esclusivamente i fotografi che si erano accalcati sul sagrato. Quasi tutte in campi ravvicinati in cui l'affanno, la volontà e l'abitudine a prevaricare i colleghi era precisata in tutta la sua meschina evidenza. In una Gambarino sgomitava con la lingua tra i denti.
- Ma che cazz...! ma vuoi prendermi per il culo ? - sbottò quello, con il suo marcato accento piemontese.
- T'avevo detto taglia fuori 'sti cazzoni ! Ma và, và !
Dino Fabbri taceva e Gambarino finì di sfogliare le stampe.
Quella dello sguardo rubato agli sposi Dino l'aveva messa per ultima e Gambarino, pur nella sua irrevocabile ottusità, se ne lasciò ghermire.
La studiò per un lungo istante di intontimento che in seguito Dino Fabbri gli avrebbe visto spesso disegnato sul volto.
Consisteva in un parziale abbandono della mascella e una temporanea velatura dello sguardo, per cui restava immobile a bocca dischiusa e sguardo da ruminante, fino ad un sussulto di ripresa, in cui si affrettava a negare quello che l'ebetudine immediatamente precedente aveva così vistosamente affermato.
- Be', almeno una l'hai fatta.
Biascicò, succhiandosi i denti.
- Certo che si vedono solo le facce. Te non hai proprio idea di ‘sto mestiere eh ?
Dino continuò a tacere e Gambarino alzò le spalle.
- Questa qui te la posso prendere, non so neanch'io perché...
E così dicendo si rovistò nella tasca interna della giacca alla ricerca del portafoglio.
- Allora facciamo un prezzo per il negativo e chiudiamo - disse, passando imprevedibilmente ad un registro di affabilità.
Dino Fabbri si chinò sulla scrivania a raccogliere le stampe che giacevano sparpagliate.
- I negativi sono miei. Se vuole delle copie le stampo io - disse.
Gambarino diventò all'improvviso paonazzo.
- Ahoo ! Ma chi ti credi d'essere ? Stampo io, faccio io ! Guarda che qui sei nello studio di Carlo Gambarino, pulce ! Cosa fai ? Mi stampi ‘ste due facce di cazzo su ‘sta carta da pacchi ? Ma valà, vai, vai !
E fece il gesto di congedarlo. Dino Fabbri infilò le copie nella busta di cartoncino arancione dell'Agfa. Era arrossito e un po’ affannato. Gambarino s'accese una sigaretta.
- Cosa fai ? Porti via tutto ? Cosa vuoi ? Un milione ?
Dino non alzò gli occhi. Gambarino tentò un gesto sbrigativo.
- Cosa fai, l'offeso ? Lascia qui no ? Cos'é non ti fidi ? Gliela metto in mezzo alle mie e vediamo se ti posso far guadagnare qualche liretta...Son troppo buono io, son picio !
- Comunque il discorso del negativo non cambia - ribadì, fermo, Dino.
- Ma sì, ma sì ! Che cazzo me ne frega del tuo negativo...Dammi il numero che ti telefono se vogliono qualche copia.
Dino Fabbri arrossì di nuovo, perché nella sua soffitta il telefono non ce l'aveva, e si affrettò a rispondere che avrebbe richiamato lui. Poi, per cambiare argomento, snocciolò i prezzi, che aveva deciso dopo lunghi calcoli e rimuginamenti, per tutti i formati di stampa. Gambarino lo interruppe.
- E la madonna ! E che cazz...! Ma non so neanche se ne vogliono una ! Valà, chiama fra una settimana.
E gli fece segno d'andarsene.
Da quel negativo si trassero poi non solo un'infinità di copie in più formati, ma venne utilizzato dai novelli sposi per stampare estemporanei biglietti da visita, auguri natalizi, ed infine comparve su un settimanale ad alta tiratura sotto i titoli dell'articolo che annunziava la loro separazione, due anni dopo.
Nel frattempo Gambarino, per poter sfruttare in modo dissimulato le qualità di quel ragazzo timido ma caparbio, lo aveva assunto come assistente.
- Stampo io ! stampo io ! Toh ! Qui ti puoi togliere la voglia !
Gli aveva detto il primo giorno, spalancandogli la porta della camera oscura.
E così Dino Fabbri aveva cominciato a sfornare quei penosi manifesti a grandezza naturale, quei faccioni formato poster di signorine e giovanotti che fissavano l'obbiettivo con assente sussiego. 
Si arrampicava su una traballante scala di legno fino all'ingranditore, inchiavardato al soffitto, per laboriose messe a fuoco. Ne ridiscendeva solo per impugnare grossi rettangoli di cartoncino nero che utilizzava per interminabili mascherature, a causa degli eterni tempi di esposizione, obbligati dalla distanza dell'ottica dalla carta fissata al pavimento. I crampi alle braccia non erano infrequenti.
Fin dal primo giorno Gambarino gli aveva affiancato Luong, dal momento che non aveva nessuna intenzione di pagare un altro assistente.
Per sviluppare nelle "grondaie" era indispensabile essere in due, facendo scorrere la carta impressionata avanti e indietro, sotto la guida di un rullo, impugnandola come due che siano alle prese con un lenzuolo o una tovaglia da ripiegare.
Le "grondaie" se le era progettate e costruite Gambarino. Prima dell'arrivo di Dino Fabbri si era occupato lui, con Luong, della stampa.
Si trattava di un lavoro piuttosto ginnico, durante il quale si finiva regolarmente con le mani a mollo negli acidi di sviluppo. Gambarino non solo ne aveva abbastanza, ma era sempre di corsa per via dei "servizi".
Luong era abile nell'operazione e Gambarino evidentemente si compiaceva che lei ricambiasse non solo con prestazioni sessuali il fatto  d'esser mantenuta.
Dino Fabbri l'aveva intravista durante quel primo incontro nello studio. Ritratta in una fotografia incorniciata tra le altre. Non aveva prestato un'attenzione accurata, ma lo aveva sorpreso vedere una donna orientale con seni così grossi. Non sapeva che si trattava della convivente di Gambarino.
Aveva lanciato un'occhiata di sufficienza al "nudo artistico" ed era finita lì.
Il giorno dell'assunzione lei era presente con il suo mezzo sorriso imperscrutabile.
Gambarino aveva dato istruzioni e poi era stato richiamato dall'arrivo di una delle signorine che venivano per farsi immortalare. Era corso ad accendere faretti e spot.
Dino Fabbri e Luong si erano infilati nel buio rossastro, amniotico e complice, della camera oscura.
Quella del '73 era stata una primavera calda, soprattutto là dentro.
Luong adottava una divisa da lavoro che la faceva somigliare ad una delle tante donne viet immortalate nelle risaie dai fotografi di guerra. Una casacchina di tela leggera, larghe braghe d'una specie di garza, ciabatte infradito di paglia.
Lei e Dino si adoperavano su e giù per la scaletta che portava all'ingranditore, avanti e indietro con i rulli di carta sensibile da tagliare e rifilare, sfiorandosi e urtandosi in continuazione.
Il buio era rischiarato da lampadine rosse che fornivano contorni subacquei all'ambiente.
Luong si rivelò loquace, dotata d'un surreale senso dell'umorismo, consapevole e tollerante della pochezza di Gambarino, che probabilmente l'aveva sottratta ad un destino infelice in qualche bordello di Bangkok.
Nell'opacità rossastra di quel buio Dino Fabbri la spiava, sforzandosi di controllare l'attrazione che provava per lei. In certi momenti aveva l'impressione che lei se ne accorgesse.
Una volta che erano tutti e due chini e intenti, con le teste accostate, a controllare l'esattezza di una messa a fuoco su un faccione dal sorriso altezzoso, le loro guance erano venute in contatto. Dino Fabbri si era girato sorridendole e aveva allungato le labbra verso quelle di lei, che s'era lasciata accostare.
Si rivelò un'amante dotata di inclinazioni erotiche sofisticate, coniugate ad un'amichevole semplicità domestica.
Le piaceva sorprenderlo per certe sue abilità. Si eccitava moltissimo nel sentirsi dire d'essere desiderata. Non si negava mai. Neppure quando la voce di Gambarino echeggiava dallo studio con i suoi " Sì, così, brava...Adesso butta i capelli da una parte... Lo sguardo un po’ più in alto..." rivolti ad una cliente.
La cosa durò più o meno un anno.
Verso la fine Gambarino si era impigrito e ai matrimoni aveva cominciato a mandarci Dino.
In una di quelle occasioni lui aveva visto per la prima volta Carlotta Maltraverso, dimenticandosene solo apparentemente.
Poche settimane dopo un'opportunità inattesa lo aveva portato via da Torino.










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