domenica 28 agosto 2011

Pit Formento & friends.


Il 31 luglio c'è stata una festa a Pagliosa. 
Ora finalmente sono arrivate le foto che Piero Martinello ha scattato mettendo in piedi un set. 
Non si capisce che eravamo nel prato di una casa di montagna, si sacrifica il contesto ma lo scatto è pieno di soggetto, senza distrazioni. 
Mi piacciono.
Ricordo che avevamo fatto una cosa del genere all'inaugurazione dell'Arcadia, a Torino, con Johnny Salvini e Ben Cagnetta, nel 1987, e che se ne era ricavata addirittura una pubblicazione. Chissà dove sarà finita.
Vedo queste nuove amicizie e, inevitabilmente, vado alla costellazione di quelle che ho perduto per strada. 
Certo non servirà  per riconquistarle, rintracciarle, ricomporle come se non fossero passati gli anni, ma ora provo a metterle tutte insieme (tutte, si fa per dire. Una rappresentanza, come sempre. Non c'è mai posto davvero per tutti, da nessuna parte, ma non riesco a rassegnarmici).



















































Mi fermo qui. 
A tutte le amicizie che non hanno trovato posto sono riconoscente. A volte la generosità nei miei confronti ammetto che è stata immeritata. 
Per ciò che concerne l'affidabilità, in ogni caso, l'amica migliore ce l'ho appoggiata sulla spalla.

giovedì 25 agosto 2011

JANIS 5

Laura Bettanin dancing with a stranger...




Laura Bettanin/Janis Joyce, Barcelona, sept. 1979




Laura tra le ex compagne di basket,
"All Stars Revival", 29 febbraio 1999




ALL STARS REVIVAL




Maria Grazia Saggin, Angela Natale, Laura Bettanin
"All Stars Revival" febbraio 1999




Laura/Janis & friends, 
Amsterdam, July 1980





Janis Joyce & Pit Formento, Noli, 24.8.94

martedì 23 agosto 2011

JANIS 4

Laura Bettanin, Santander, settembre 1979




Laura Bettanin/Janis Joyce, Stoccolma, gennaio 1997

Laura Bettanin & friends, Venezia, agosto 1986






Pit e Laura, 31 dicembre 1992




Janis Joyce & the Defender,
Porcupine pow-wow, Standing Rock reservation
july 1999

sabato 20 agosto 2011

A casa per Natale




Va bene, li ho ripassati tutti mi pare, non c'era davvero più nulla da salvare tranne che quest'ultimo. 
Sto parlando dei vecchi racconti. 
In alcuni compariva una buona idea di struttura narrativa ma erano pessimi dal punto di vista della scrittura, altri non valevano davvero nulla, e quasi sempre  mi sono chiesto perchè mai li avessi scritti, nel senso che non ricordo da dove traessi lo spunto. 
Anche in quest'ultimo credo di riconoscere le persone che mi hanno ispirato i personaggi ma non le ragioni per aver scelto di scrivere una storia del genere. 
In ogni caso è qui, ed è davvero l'ultima.  
Niente foto.
Come ultimo dato, visto che l'ho fornito anche per gli altri non cestinati,  il racconto risulta scritto a Fort de France, in Martinica, nel febbraio del 1987. 



 
A CASA PER NATALE


La gente attendeva il liberarsi dei tavoli reggendo in equilibrio sui vassoi le confezioni di hamburghers patatine e bevande, appoggiate lì frettolosamente dalle ragazze in grembiule e bustina.
Il giovane rimase a osservare per un po' attraverso la vetrata.
Aveva camminato per la città ripercorrendo le strade del centro e gli era piaciuto ritrovare posti che ricordava. Ora gli piaceva persino quell'affanno alimentare che osservava a distanza.
Improvvisamente, per un involontario e inaspettato variare di focale dello sguardo, si scoprì riflesso dalla vetrata brunita e vide per un attimo la sua faccia come quella di uno sconosciuto. Si meravigliò di quell'occasione così rara di poter vedere sé stessi con la distratta obbiettività con cui si guardano gli altri.
Si scoprì appesantito, invecchiato, ma subito nel riconoscersi provò una stupita simpatia per la sua figura, forse soltanto perché gli piaceva essere lì, dopo tanti anni, a sentir l'odore della sua città, assediata da un inverno di nevicate senza precedenti.
Entrò sotto l'insegna del fast food e andò a mettersi in coda.
Nell'attesa sfilò i guanti e li ripose in una tasca del parka, poi controllò i prezzi sotto le fotografie illuminate che illustravano le varietà dell'offerta. Scelse con calma, divertito all'idea di quel pasto al quale non era abituato.
La ragazza alla cassa raccolse l'ordinazione senza guardarlo e quasi immediatamente gli appoggiò sul vassoio ciò che aveva scelto.
Il giovane, che da molti anni nei luoghi dov'era conosciuto era chiamato Huesca, valutò l'esiguità della porzione di patatine e ne ordinò una seconda.
la ragazza allora alzò gli occhi su di lui. Huesca le sorrise ma lei tornò con lo sguardo ai pulsanti del suo congegno per battere i prezzi e subito arrivò per lui un sacchetto unto, colmo di bastoncini dorati da un'estenuata rifrittura.
Huesca aveva fame. Trovò posto a un tavolo accanto alla vetrata e mangiò avidamente, accorgendosi alla fine di non essere sazio.
Accese una sigaretta e prese a bere con lentezza il caffé lungo e acquoso che gli ricordava altri caffé, bevuti molto tempo prima.
Osservò le insegne sul vetro e gli parve che avrebbero dovuto essere più belle, più curate e originali, come quelle che sapeva dipingere lui. Poi pensò che in un posto del genere le insegne dovevano per forza essere così: preconfezionate e applicate al vetro in qualche modo.
Huesca era pittore d'insegne.
Nei dieci anni che aveva trascorso lontano dalla sua città aveva esercitato quel mestiere e molta della gente che aveva incontrato se ne era stupita. A molti era parso inverosimile, anacronistico, che lui cavasse di che vivere dipingendo insegne, eppure era così. Da dieci anni.
Aveva iniziato per caso in un villaggio della Savoia, con la scritta sul frontone d'una macelleria. Era accaduto durante un viaggio ricostituente dopo il servizio militare.
Huesca, che ancora non si chiamava così, aveva deciso un viaggio lento, che lo conducesse lontano dalla penosa memoria della caserma di Legnano dove aveva trascorso i dodici mesi peggiori della sua vita.
Dopo la costrizione di quel lungo periodo di promiscuità, di orari feroci, di umilianti sotterfugi per sfuggire alla meschina rapacità del sistema militare, aveva stabilito un itinerario solitario, guidando il lapis sulla carta geografica a cercare le linee sottili di strade secondarie appena affioranti dal verde pallido delle pianure, dal crema ombreggiato che indicava alla sua immaginazione colline e orizzonti di montagne, parallele alla sinuosità celeste del corso dei fiumi. Quell'itinerario stabilito sulla carta, con le poche varianti dettate dalla curiosità e dall'assenza di fretta, aveva poi percorso in andate e ritorni per dieci anni.
Tutto era iniziato in quel piccolo villaggio della Savoia, grazie all'intercessione della figlia del macellaio che si era innamorata di lui ad un ballo di fiera e alla squisita padronanza che Huesca aveva nel tratteggiare figure e caratteri: con delicatezze inusitate negli accostamenti di colore e poetico realismo che faceva del vero ciò che si sarebbe voluto che fosse.
Di lassù era poi sceso nel Delfinato fino alla Provenza, evitando i grandi centri e privilegiando i villaggi e le piccole città. Non occorse più di un anno perché una certa notorietà, diffusa dalla modesta solerzia dei suoi clienti, lo annunciasse a ogni suo passaggio.
Dalla Provenza seguiva per un tratto la costa, tagliando poi all'interno e zigzagando per la Linguadoca fino al confine spagnolo. I suoi punti di riferimento erano piccole pensioni, come quella della vedova Lasserre fuori Beziers, o locande familiari, come quella del maniscalco Calmajis vicino a St. Girons.
Huesca metteva una cura guardinga nel tenersi alla larga dal suo tempo. Scrutava i luoghi e i gesti della gente da lontano, e si avvicinava solo quando aveva le certezza di trovarsi di fronte a situazioni e persone che con il tempo avessero un rapporto sospeso, perennemente in ritardo, come ostinatamente ancorate al passato.
In Spagna, poco dopo la frontiera, saliva verso nord seguendo la linea dei Pirenei fino ad arrivare in vista del monte Perdido. In una sola occasione era sceso lungo il Gallego fino a Huesca, un primo dell'anno. Di questa cittadina aveva preso il nome la notte in cui la zingara lo aveva ferito al fianco con il coltello.
A volte prima di addormentarsi ripensava a lei provando una specie di piccola emozione d'amore nel ricordarne il corpo bruno, disteso sulla branda nella luce sporca d'una lampada ad acetilene. Sapeva d'aver desiderato quella che gli era parsa poco più che una bambina -  pazza o ubriaca che fosse quella notte -  più d'ogni altra tra le donne che aveva incontrato. Rivedeva lampi nel buio ripensando a lei: bagliori del suo sorriso di denti bianchissimi tra labbra accese da un rossetto che faceva della sua bocca un frutto spaccato, luci avide che nella penombra avevano sfiorato frammenti del suo corpo, il riflesso furtivo del fendente che lei aveva vibrato contro di lui. E quella voce che gli gridava cose che lui non capiva. 
Huesca non seppe mai perché la ragazza l'avesse accoltellato.
Era corso fuori dal tugurio tamponandosi la ferita, poi era svenuto dopo una corsa a perdifiato. Lo avevano raccolto, ricoverato, ricucito. Con gli anni la ferita prese a dolergli un poco al cambio delle stagioni e la ragazza assunse nel ricordo un ruolo d'amore.
All'inizio della primavera scavalcava i Pirenei e tornava su passi conosciuti, guidando lentamente il suo furgone per una Francia di sentieri e strade provinciali poco frequentate. Così a marzo era sempre Guascogna. Lungo la Garonna i villaggi cambiavano poco, la gente lo riconosceva, i clienti gli offrivano il bicchierino di Armagnac prima che lui impugnasse i pennelli.
Huesca aveva capito che cosa si intendesse per Douce France e di quella dolcezza aveva fatto un itinerario interminabile. Su quell'itinerario aveva segnato le tappe della sua esistenza.
Poco dopo Lavaur, in una cucina che era sul retro di una bottega di articoli casalinghi, una robusta bretone di mezza età, emigrata laggiù per un matrimonio infelice, gli offriva trippa alla normanna sidro e sé stessa sempre in quell'ordine e sempre sullo stesso tavolo apparecchiato.
Altri amori frettolosi ma belli da ricordare e ritrovare aveva sparsi sulla sua strada. La proprietaria silenziosa di una peniche che seguiva il canale del Mezzogiorno fino al mare, la servetta balbuziente d'una trattoria a la Grand'Combe e la moglie del farmacista d'un villaggio poco oltre Gap erano quelli cui teneva di più. Altri, senza dimenticarli, aveva abbandonato.
In quei dieci anni la donna del canale aveva concepito tre femmine con un guardiano di chiuse, la servetta aveva sposato il figlio della proprietaria della trattoria, smettendo di balbettare e ingrassandosi come una matrona.  Con la moglie del farmacista doveva lottare per evitare che lei riuscisse a farsi ingravidare. Due volte l'anno, con sempre maggiori impedimenti, si concedeva con loro intime clandestinità, silenziosamente dense di ruvida dolcezza, che appassiva nell'impoverirsi del loro segreto.
La bretone morì di cancro nella primavera del sesto anno e Huesca continuò ad andare a trovarla, raccontando le cose che erano successe nel frattempo al suo volto serio, chiuso nell'ovale di bronzo, sulla lapide di marmo bianco.
Fu in uno di quei giorni che pensò di tornare a casa.
Il vento ruzzolava dalle colline e correva tra i cipressi del piccolo cimitero e all'improvviso quelle definitive solitudini che gli stavano attorno gli cambiarono, come in una visione inattesa, l'idea del tempo: lo sentì avaro, dimenticò la serenità sospesa che lo aveva aiutato a lasciarlo scorrere senza preoccuparsene, senza calcoli. Desiderò qualcosa con affanno, qualcosa che fosse nuovo. Per ottenerlo, dal momento che ancora non sapeva cosa fosse - solo un desiderio vago ma impellente - pensò di iniziare a cercare da un altrove dimenticato, partendo dal quale pensò che avrebbe trovato il modo di scegliere una direzione.
Così tornò a casa.


  La città era stretta in una morsa di gelo e Huesca si rallegrò di tutta quella neve per le strade. Camminò a lungo nel freddo, riscoprì l'odoroso tepore sotterraneo della metropolitana con una strana emozione, come di quando si annusa il benevolo sentore di casa propria dopo una lunga assenza.
Pensava tra sé d'aver fatto bene a tornare; non aveva ancora avuto il tempo di provare nostalgia per i suoi dieci anni nascosti. Divorava con sguardi di emozionata allegria le cose nuove e quelle vecchie.
 Aveva trovato una pensione vicino a dove un tempo era casa sua e ci si era installato senza progetti di cambiare, come se avesse dovuto restarci per sempre.
Mangiare ogni tanto al fast food gli piaceva: gli offriva l'idea di entrare in un clima di modernità dal quale si era tenuto lontano per troppo tempo. E si stupiva di poterci entrare senza fatica, senza arrancare incompreso come a volte aveva temuto confusamente al pensiero vago di un ritorno, quando ancora seguiva le piccole strade di Francia e di Spagna.
Poteva entrare nel mondo, che nel frattempo era andato avanti inventando luoghi come quello, semplicemente aprendo una porta a vetri e mettendosi in coda di fronte ad una cassa.
Un giorno, quando venne il suo turno di ordinare e pagare, restò senza parole di fronte alla ragazza in grembiule e bustina: aveva gli occhi nocciola un poco cerchiati della zingara di Huesca. Le stesse labbra anche se senza rossetto.
Si guardarono e lei disse
 - Allora ? 
Huesca balbettò un'ordinazione, poi dimenticò il resto e lei lo richiamò. Lui tornò sui suoi passi e la ringraziò mentre lei appoggiava i soldi sul vassoio.
Cercò un posto dal quale osservarla, tentando di capire come fosse possibile che quella ragazzina, un poco invecchiata, fosse ricomparsa da un tempo così finito.
Due volte lo sguardo di lei incontrò per caso  il suo e la seconda si soffermò un istante con una curiosità dura, aggrottata, poi tornò al suo lavoro ed evitò accuratamente di portare gli occhi verso il posto dove sedeva Huesca.
Lui pensò che quella ragazza avrebbe potuto diventare per lui quello che era stata la zingara del coltello: che avrebbe potuto fargli correre il sangue nelle vene e forse fuori, senza che però lui smettesse di provare quel sentimento strano, che assomigliava alla sottomissione.
Attese il momento che di fronte a lei non ci fosse nessuno per avvicinarsi e dirle
- Quando smetti qui ?
Lei gli rivolse un'occhiata infastidita e guardò altrove.
Huesca disse - Ti aspetto all’uscita -
Quel giorno lei gli sfuggì.
Doveva esserci un altro ingresso: una porta di servizio per il personale che lui non aveva pensato di cercare, così aspettò inutilmente. Quando decise di dare un'occhiata all'interno la ragazza era stata sostituita da una collega.
Huesca, che da tanto tempo aveva imparato la pazienza, se ne tornò alla pensione ad attendere l'indomani senza tormentarsi.
Il giorno dopo la ragazza, quando se lo ritrovò di fronte, sembrava aspettarsi che lui le rivolgesse la parola e gli riservò un'occhiata come ad uno che si conosce ma che non si vorrebbe incontrare. Lui si limitò ad ordinare un paio di hamburghers e si andò a cacciare ad un tavolo lontano, fuori dalla vista delle casse. Mangiò in fretta ed uscì.
La porta di servizio era in un cortile che si raggiungeva aggirando quasi completamente l'isolato. Non ne era certo ma pensò che doveva essere quella ed attese. All'improvviso poi, come se qualcuno glielo avesse detto, seppe che non era lì che doveva restare. Uscì di corsa dal cortile e tornò di fronte all'ingresso. La riconobbe anche se era di spalle e camminava a passi rapidi, infagottata in un piumino.
La seguì per un po’ con l'allegra soddisfazione di averla sorpresa, lasciando tra loro due una decina di metri di distanza, protetto dalla folla. Lei indossava un paio di jeans elasticizzati infilati in stivali dal tacco alto e avanzava a passetti brevi e frettolosi, infreddoliti.
La seguì nella metropolitana e scese alla sua fermata. La ragazza aveva sempre mantenuto un'espressione neutra, come se non facesse altro che pensare a qualcosa che non la interessava granché.
Huesca la seguì per le strade del quartiere e all'improvviso si accorse che era sceso il buio: che le luci nelle vetrine sfavillavano e che c'era un'aria fredda e buona di Natale.
Lei finalmente si fermò di fronte al portone d'una vecchia casa di quattro piani, frugò nella borsa che portava a tracolla e ne estrasse un mazzo di chiavi. Huesca le udì tintinnare mentre la teneva d'occhio, seminascosto dietro un’edicola. Quel piccolo suono gli piacque come un ricordo d'infanzia.
Attese il richiudersi del portone e si avvicinò, alzando gli occhi alle finestre, alcune delle quali erano illuminate.
Nel cielo, dall'oscurità, apparvero improvvisi grossi fiocchi di neve e Huesca socchiuse gli occhi, aspettando. Quando due finestre all'ultimo piano si illuminarono fu certo che era lei che entrava in casa. Pensò che era un bene che vivesse sola e tornò sui suoi passi, verso l'ingresso della metropolitana.
Ora la neve cadeva fitta, assiepandosi nel cono di luce dei lampioni. I fiocchi fluttuavano placidamente nell'aria prima di sciogliersi delicatamente sull'asfalto.
Huesca prese a fischiettare una vecchia canzone ma si interruppe immediatamente perché quella neve che scendeva nel buio chiedeva silenzio.


La spiò per qualche giorno per farsi un'idea di lei.
A Huesca piaceva osservare la gente quando questa pensava d'essere sola con i propri pensieri e col tempo aveva imparato a servirsi di quel suo saper guardare. Ora i brevi passi rapidi della ragazza gli dicevano cose di lei, come pure lo sguardo severo che teneva dietro la cassa del fast food. Huesca non avrebbe saputo trovare le parole per spiegare che cosa questi segni gli rivelassero. Lo guidava l'istinto, e il desiderio di lei lo aiutava a rubarle i gesti come fossero segreti. Così, quando venne il momento, lui lo seppe.
Scesero dalla metropolitana e lui le si fermò di fianco sulla scala mobile. Dopo un momento lei uscì dai suoi pensieri distratti e alzò gli occhi sulla figura che le era accanto. Huesca sorrise senza guardarla e salì due gradini, poi la precedette di qualche metro sulla strada di casa.
I passi di lei alle sue spalle non avevano la solita cadenza frettolosa. Huesca ad un certo punto rallentò fino quasi a fermarsi. Lei fece altrettanto. Lui sentiva - gli pareva quasi di poter toccare - l'indecisione che la tratteneva, poi la udì accelerare e si fermò, fingendo di osservare una vetrina. La ragazza gli passò alle spalle e si allontanò mentre lui restava a guardare gli oggetti esposti fino ad incuriosirsene: radio portatili, friggitrici, telefoni, impianti stereofonici.
- Se mi segui ancora chiamo la Polizia - disse la ragazza dopo esser tornata sui suoi passi.
Huesca vedeva un poco di lei riflessa nella vetrina e attese un momento prima di voltarsi: era bello sentirla accanto a sé, piantata sui tacchi alti degli stivali, bellicosa.
Disse - E' quasi Natale - come se pensasse ad altro, poi le rivolse un sorriso.
- Cosa sei, matto ?- disse lei. Era chiaro che non aveva paura. Questo a Huesca piaque perché lui era alto quasi due metri, con le spalle ingigantite dal parka imbottito, eppure lei, che non doveva superare il metro e sessanta, minuta, lo fronteggiava senza un'ombra di timore.
- Ho conosciuto una che ti somigliava.
- Questa sì che é nuova ! - fece lei sbuffando.
- E' vero.
- E allora valla a cercare e non rompere i coglioni a me, chiaro ?
Huesca disse - Andiamo - come se non l'avesse sentita e lei ripeté che avrebbe chiamato la Polizia.
- Andiamo - disse ancora lui con calma, poi si avviò verso la casa di lei.
La ragazza prese a camminargli di fianco con i suoi passetti nervosi e a squadrarlo di sotto in su, inveendo.
- Ma che cazzo vuoi ! Guarda che io ti mando in galera stronzo ! Guarda che adesso mi metto a urlare !
Arrivati di fronte al portone Huesca si fermò e la ragazza gli dette una spinta con tutta la sua forza.
- Via dalle palle, sacco di merda !
Lui le sorrise e le disse che era contento d'averla accompagnata. Lei pareva sul punto di scoppiare in lacrime di rabbia.
- Ora me ne vado - disse Huesca e si avviò, lasciandola stupita a guardarlo.
Quando la sentì armeggiare con le chiavi si voltò e chiamò Giulia, perché lo aveva letto sul cartellino che lei portava appuntato sul camiciotto a righe del fast food.
- E' un bel nome - disse.
Lei non rispose e scomparve al di là del portone che si richiuse con un tonfo pesante.


Il giorno successivo la donna che teneva la pensione disse a Huesca che c'erano bottegai che volevano scritte e disegni natalizi sulle loro vetrine. Lui tirò fuori pennelli e vernici e lavorò per tutto il giorno. I clienti erano soddisfatti. Per strada i cumuli di neve si insudiciavano.
Huesca dipingeva con allegria perché le scritte e i disegni di Natale erano quelli che preferiva. La sua era una buona mano, che tracciava figure tonde e nette e lettere che sembravano quelle di vecchi cartoncini d'auguri. Metteva alla gente la voglia di entrare per comprare regali.
All'ora che sapeva andò ad attendere la ragazza.  Lei non si stupì di trovarselo di fronte.
Lui disse
- Ti vorrei invitare a cena.
Lei alzò le spalle, sbuffò e rispose
- E vada per sto cazzo di cena, prima però passo a casa a farmi una doccia.
Si prese una ciocca di capelli tra le dita e la tese, inclinando la testa, verso Huesca.
- Senti che roba - disse.
Huesca annusò: i capelli odoravano di fritto.
- Tutti i giorni così. Devo lavarli tutti i giorni per mandare via sto schifo. Fanculo.
Huesca annuì e raggiunsero in silenzio la metropolitana. Durante il tragitto lui la guardava dall'alto e se lei alzava gli occhi le sorrideva. Lei no.
Quando arrivarono sotto casa lei disse
- Tu aspetti qui - e sparì al di là del portone.
Huesca camminò su e giù per il marciapiede: il cielo era nero di notte e nell'aria c'era l'odore freddo e buono che promette neve.
Finalmente la ragazza riapparve: indossava una pelliccetta corta e un basco rosso sui capelli ancora umidi.
Gli occhi e la bocca erano truccati e Huesca rivide il viso della zingara.
- Dove mi porti ? - chiese lei, e lui alzò le spalle.
- Cominciamo bene - disse la ragazza - almeno di soldi ne hai ?
 Huesca fece cenno di di sì e lei si avviò.
- Ti porto in un posto qui vicino - disse.
 Mentre andavano per il marciapiede deserto, interrotto qua e là da cumuli di neve infangata, lei d'un tratto si fermò e lo guardò da sotto in su, come Huesca le aveva già visto fare.
- Non ti mettere delle idee in testa solo perché andiamo a mangiare un boccone insieme eh ?
Huesca sorrise e disse
- Sì, sì.
Dopo un po’ lei chiese ancora
- Quanti anni hai ?
Quando lui le ebbe risposto lei riprese a camminare.
- Con quella faccia ? Bà...
E continuò a borbottare tra sé finché non arrivarono alla trattoria.
Le tovaglie erano a quadretti bianchi e rossi su vecchi tavoli di legno lucido e a Huesca ricordarono quelle delle locande dove aveva mangiato durante il suo viaggio di dieci anni.
- Vabbé sentiamo.
Disse la ragazza quando lui le fu di fronte, seduto con i gomiti appoggiati sul tavolo e i pugni sotto il mento a guardarla. Dal momento che Huesca sorrideva e taceva lei accese una sigaretta e soffiò il fumo in fretta, come se lo sputasse.
-Allora?- disse, e lui le raccontò qualcosa. Parlò un poco dei paesi che aveva visto, del vento tra gli alberi lungo i canali, di posti che descriveva come se non ci fosse mai stato e desiderasse andarci. Lei mangiava a piccoli bocconi e lo scrutava con quel suo fare sospettoso.
- Non é che racconti un sacco di balle ? - chiedeva ogni tanto.
Quando Huesca prese a dirle delle insegne lei lo interruppe.
- E quella là ?
Huesca finse di non capire e lei insistette.
- E dai ! Quella che mi somiglia no !
Lui raccontò e lei si fece curiosa.
- E non sai perché ? Ma figurati ! Non è che c’hai provato e lei non voleva eh ?
Huesca faceva di no con la testa, con l'aria di chi il perché se lo stesse ancora chiedendo.
- Che storia... - concluse lei.
- E adesso che cosa fai ?
Huesca rispose che aspettava e lei non chiese che cosa.
 Quando uscirono aveva ripreso a nevicare. Lei disse
- Ti và di andare in un posto ?
- Che genere di posto ? - chiese Huesca.
- Un posto. Musica, roba così.
Presero un tram e raggiunsero un locale gremito di gente. La ragazza sembrava conoscere tutti. Uno si sporse da uno sgabello accanto al bancone a baciarla sulla bocca. Lei si fece largo caparbia tra la folla assiepata e Huesca la seguì fino ad un tavolino, accanto ad una pedana su cui erano appoggiati degli strumenti. Sedettero e la ragazza chiese che cosa volesse bere. Lui rispose che andava bene quello che prendeva lei, la ragazza allora fece un gesto di richiamo per un cameriere che portava i capelli raccolti in una treccia e grossi anelli dorati ai lobi delle orecchie.
- Due Cointreau con ghiaccio - ordinò. Poi si appoggiò allo schienale accendendosi una sigaretta.
Huesca si guardava attorno. Lei si sporse sul tavolino e gli urlò all'orecchio, per coprire la musica
- Questo é un posto di merda, ma quello dove vado di solito stasera é chiuso.
Huesca fece un cenno comprensivo e per un po’ tacquero come se ascoltassero la musica.
Tornò il cameriere e la ragazza insisté per pagare. Dopo che ebbe bevuto un sorso si sporse ancora sul tavolino e chiese
- Ma tu cosa vuoi da me ?
- Niente - disse Huesca.
- Sicuro ?
- Sicuro.
- Meglio così - concluse lei, e non parlarono più.
Venne un'amica di lei e osservò Huesca con occhi curiosi. Quando se ne fu andata la ragazza sporse una mano a toccare il braccio di lui e gli fece segno di avvicinarsi.
- La mia amica dice che ti ha già visto - gli gridò all'orecchio.
Huesca rispose che si sbagliava. La ragazza si voltò verso la sala e giocherellò con il bicchiere facendo tintinnare i cubetti di ghiaccio.
Un gruppo salì sulla pedana che era di fronte a loro e si preparò a suonare. Lei fece un segno a Huesca e mormorò
- Questi sono dei cani, meglio che filiamo.
 Uscirono e lui, chiudendo la porta su tutta quella musica e quel vociare, ebbe la sensazione che la notte piena di neve gli fosse amica.
La ragazza chiese se gli andasse di camminare ed intanto già si avviava, così Huesca le si mise al fianco e lei gli passò la mano sotto il braccio, tenendosi, mentre posava i suoi passetti rapidi sulla neve ghiacciata.
Passavano poche auto e i pneumatici frusciavano scivolando via e lasciando alla notte un silenzio che non pareva di città.
La ragazza raccontò che veniva dal sud e che quel freddo lo pativa. Che era venuta al nord come molti, senza sapere bene perché, ma che comunque non sarebbe tornata indietro.
A Huesca quel freddo dell'aria piaceva come un abbraccio, ma a un tratto capì che era solo perché lo aveva ritrovato dopo molto tempo. Capì che se si fosse fermato ci si sarebbe di nuovo abituato: non lo avrebbe più annusato come un regalo ma lo avrebbe vissuto come gli altri, come un temporaneo disagio da sopportare.
Raccontò alla ragazza dei suoi dieci anni e parlava in fretta come se avesse voluto dirle molto più di quello che le stava dicendo. Quando ebbe finito erano sotto casa.
- Vuoi salire ? - chiese lei, e lui accettò l'invito con un cenno infantile.
L'appartamento era composto di piccole stanze che si affacciavano una nell'altra e in cui gli oggetti in maggior evidenza erano i ninnoli ed i pupazzi di ogni foggia e proporzione, numerosi come in un negozio di giocattoli, e un buon odore d'incenso che a Huesca ricordò l'infanzia: la sua tunica bianca e rossa di chierichetto, la penombra quieta della sacrestia.
La ragazza lo fece sedere su un piccolo divano scozzese e si lasciò cadere su un cumulo di cuscini sfilandosi gli stivali. Si massaggiava i piedi minuscoli e lo guardava senza dir nulla. Huesca sedeva un poco proteso in avanti, con i gomiti appoggiati alle ginocchia, in una posa da contadino.
- Allora ? - fece lei, e lui alzò le spalle sorridendo.
- Non era vero che non volevi nulla eh ?
Huesca insisteva a tacere e la ragazza si accese una sigaretta.
- Non ho mai scopato con uno grosso come te - disse.
 Huesca rise.



Nel letto di lei le lenzuola erano soffici e profumavano di gelsomino.
La ragazza faceva l'amore come camminava: con piccole mosse sincopate, emettendo sospiri rauchi che parevano chiuderle la gola.
Huesca ascoltava il rumore discreto del letto e quello attutito delle poche auto che scivolavano sulla strada a ruote felpate sulla neve.
Lei dormì distesa su di lui e al mattino, aprendo gli occhi, lo guardò per un istante come se non lo riconoscesse.
Huesca attese che finisse la doccia fissando il soffitto e i mobili della stanza in penombra.
Ora pensava che gli sarebbe piaciuto fermarsi in quella casa e perdercisi, non uscirne più, mettersi al riparo, e nello stesso tempo, per la prima volta dal suo ritorno, ripensò alle strade del suo viaggio con un tuffo al cuore, come se stessero diventando troppo lontane. Soffriva con stupore per quei sentimenti che si accapigliavano dentro di lui. Mai l'idea del restare l'aveva avvinto con un tale soporoso, opaco piacere d’immobilità, ma in quel piacere sentiva l'affanno affiorante del non volersi fermare.
Si alzò ed entrò in cucina: le piastrelle sotto i piedi nudi erano gelide. La ragazza venne sulla porta pettinandosi.
- Il bagno é libero - disse con un dubbioso accenno di sorriso.
- Io mi faccio un caffelatte, tu vuoi ?
Huesca rispose che non prendeva nulla. Le sedette di fronte e la osservò intingere i biscotti ed imboccarsi con gesti delicati.
Quando lei alzava gli occhi lui le sorrideva e lei faceva altrettanto: come due estranei educati in ascensore. Alla fine lei si alzò e disse
- Devo andare.
Lui la seguì senza parlare.
Fuori l'aria fredda prendeva alla gola ed era bello come incontrare un amico. Huesca si sentiva una voglia crescere dentro e non sapeva che fosse. Guardò lei che gli camminava accanto e provò un senso di pena.
- Vieni via con me - disse, pentendosene, e lei si fermò ad osservarlo come sempre, da sotto in su, con gli occhi socchiusi di sospetto.
- Dove ? - chiese.
Huesca alzò le spalle: fece un gesto vago del braccio verso dove credeva potesse essere la Francia.
- Non posso restare - disse. Si guardò attorno nella strada con i cumuli di neve annerita e sperò che lei capisse.
La ragazza dopo un istante di silenzio affranto sbottò in una risata acre e fu come se fosse scoppiata in lacrime, poi andò correndo verso l'ingresso della metropolitana.
Huesca si sentì come uno che non dorme da molte notti, con le gambe inchiodate all'asfalto e la voce inchiodata nel petto. Restò immobile mentre lei scompariva per le scale. Dentro di sé sapeva che avrebbe voluto fermarla e intanto era contento di perderla.
Passò un lungo momento prima che si muovesse, poi finalmente alzò il cappuccio del parka e chiuse la lampo sotto il mento. Cercò un pensiero modesto, che lo liberasse, e lo trovò pensando che doveva fare una scorta di certi pennelli che aveva trovato in quei giorni in un negozietto di vernici: erano i migliori che avesse mai usato e gli sarebbero tornati utili sulla lunga strada del ritorno.

sabato 13 agosto 2011

JANIS 3






Laura Bettanin/Janis Joyce e Pit Formento
Donegal, Ireland 1991




Janis/Laura
Kos, 2010




Janis/Laura
Death Valley, California
gennaio 1997



 

 Janis Joyce, Salone del libro
Torino 2011





Laura Bettanin/ Janis Joyce
Erfoud, Morocco, 1993




Laura Bettanin, Kip the mechanic, Cosetta Picchetti
Standing Rock reservation, North Dakota - 1999