venerdì 20 dicembre 2013

KATANGA





Sono stato silente per più di un mese, mi pare. Ospedalizzato, sottoposto ad un paio di interventi, ed ora in una fase laboriosa di convalescenza. 
Speedy chiede a gran voce "E il blog ?" e io non me la sento. Stare seduto alla scrivania per più di dieci minuti mi comporta ancora dolori al piede e alla gamba.
Però stamattina Laura mi ha scattato un paio di fotografie dicendomi che le sembravo in forma.












Sarà...
In ogni caso è stato uno stimolo a ricominciare.
Sono andato a dare un'occhiata e ho trovato un post quasi ultimato, sul quale stavo lavorando prima del mio ricovero improvviso.
Ripartirò da lì. Da 

KATANGA







L'ultima volta che sono stato a trovare Susanna a Milano, una decina di giorni fa, durante le nostre fluviali conversazioni mi è capitato di rievocare, chissà perchè, il racconto che nel '77, a Parma, aveva fatto Roberto Costantini su un episodio del 1968.




 Roberto Costantini nel '77



A Susanna il racconto è piaciuto molto e mi ha suggerito di farne un post. Là per là non sapevo come affrontarlo. 
In realtà ne ricordo gli aspetti epici e ho dimenticato i dettagli, inoltre sono trascorsi quarantacinque anni dai fatti e trentasei dalla narrazione che ne aveva fatto Roberto. 
Allora: andiamo con ordine.
Nel '77 Roberto Costantini era un assistente universitario con il quale avevo sostenuto un esame monografico su Marcel Duchamp. 
Dopo eravamo diventati amici, anche se in lui percepivo sempre un filo di perplessità a mio riguardo.





Roberto tra me e Armando Chitolina
(vedi episodio della manifestazione a Roma nel post 1° febbraio 2011)
Qui siamo al Parco Ducale davanti al laghetto.




Era un reduce sessantottino animato da infinite curiosità intellettuali che lo facevano veleggiare dalla filosofia alla cucina macrobiotica, dall'alchimia al significato dei tarocchi, dalla Kabala agli haiku del VI secolo, senza quasi mai toccare terra.
Io provavo un gusto un po' sadico a mostrarmi realista, prosaico più di quanto non fossi, e da ciò credo derivasse il suo accettarmi con cautela. In ogni modo rappresenta uno dei vertici delle mie frequentazioni maschili del periodo universitario e devo riconoscergli una certa capacità maieutica di cui gli sono tuttora grato.
L'episodio del suo racconto era ambientato in piazza Garibaldi che nel '68 come nel '77, pur essendo nel pieno centro della città, rappresentava il terreno di coagulo delle variegate espressioni del Movimento e delle sue turbolenze. 









Questa è la piazza nel 1977. 
I gradoni del basamento al monumento a Garibaldi fungevano da sedili e proprio qui c'era stata la proposta, descritta alla fine della prima parte del racconto "Un mestiere" del post del 30 gennaio 2011, fatta a Cristina Bottari di interpretare il mio filmetto in super 8.








L'ho rivista il 25 maggio 2011, ad una cena a Parma, in occasione della presentazione de "Il sostituto", e l'ho trovata in rete come autrice di libri di cucina com'è oggi e com'era quella sera.







Ma per tornare al '77 e alla piazza, e poi al racconto di Roberto, ho trovato delle immagini che non ricordavo di avere, vecchi negativi un po' appannati che ho scansionato, qualche stampa rifotografata, che restituiscono l'epoca.





Michele Sartori, che per quel che ne so fa il medico negli Stati Uniti










a destra Patrizia Taddei, dell'altra non ricordo il nome










 Sabrina, che preferiva essere chiamata Alice








Questa da qualche parte l'ho già postata, anyway...
da sinistra: Lucio, che faceva il pittore, Didi Bozzini
giovanissima promessa teatrale, figlio di un decano del Foro,
 caposaldo di Soccorso Rosso, Enrico Dall'Asta 
di Avanguardia Operaia e Pit.




Ed eccoci dunque all'episodio raccontato da Roberto.
Era in corso una manifestazione che si era rivelata furibonda. Il Movimento si era trovato a fronteggiare non solo le forze dell'ordine ma anche falangi organizzate di neofascisti. Le informazioni captate erano che le camionette del famigerato battaglione Padova ( un equivalente dei manipoli che hanno dato bella prova di sè alla Diaz, a Genova) fossero in movimento verso Parma.
I dirigenti del Movimento locale avevano preso contatto telefonico con Milano, dove allora leader del Movimento Studentesco era Mario Capanna, segnalando l'emergenza.
Gli scontri si erano concentrati proprio nell'area di piazza Garibaldi, dove i nostri resistevano sotto il tiro dei lacrimogeni e delle cariche.
Da Milano avevano detto tenete duro, arriviamo.
E a un certo punto, quando le forze degli assediati erano allo stremo, sul frastuono dei botti e delle urla era andato crescendo un grido, cadenzato sui passi pesanti e sul picchiare dei bastoni sul selciato, in avvicinamento lungo via Mazzini " Katanga ! Katanga ! Katanga nga !".
Era il grido di guerra dei rappresentanti del servizio d'ordine del Movimento Studentesco che scaturivano dalle cortine dei fumi dei lacrimogeni e che liberarono dall'assedio.
Questa in estrema sintesi la storia, che certamente Roberto aveva corredato di aspetti epici e che io ho memorizzato conservando praticamente solo quelli, però mi è sempre piaciuta tanto e ogni tanto la tiro fuori.
Quell'epica nel '77 si era ritrovata nelle brevi fiammate della Bologna di Radio Alice, ma lo spirito del tempo era, credo, diverso, tempo bruciato rapidamente, tempo di poche speranze, in cui restavano solo gli indiani metropolitani a vagheggiare qualcosa che somigliasse all' "immaginazione al potere".
Come ho già raccontato in "Un mestiere", Piazza Garibaldi era il cuore pulsante di quella tribù così variegata.
L'ultima volta che l'ho vista era completamente trasformata: i dehors dei caffè erano monumentali, pur se eleganti, strutture in ferro e vetro, lo spazio della piazza era ridotto ad aree di passaggio. E non mi era neppure parsa brutta. Anzi rivedendola così tanto anni settanta nei miei scatti in B/N di allora sul momento mi è sembrata un po' misera.





  










Così ho ripensato a tante piazze di luoghi dove ho vissuto, scoprendo, devo dire con meraviglia, che tutte sono cambiate, come era prevedibile che avvenisse, ma molte sono state trasformate in qualcosa che di piazza non ha quasi più nulla, con strutture suggestive ma che ne alterano le prospettive, adatte al richiamo ma non alla contemplazione, funzionali al consumo ma di impedimento alla visione d'insieme.
Insomma una riflessione su di noi, sempre più ansiosi d'essere incantati da un qualche presepe, in affanno bulimico d'esser saziati di suoni, immagini in movimento, teatrini delle meraviglie che ci rendono obesi emotivi, ingozzano i nostri sensi appagando pericolosamente certi appetiti, come bambini con la panna montata cui non si definisca un limite di ingerimento.
Ubbie apocalittiche di un anziano ? Puo' essere.
Pero', anche se fosse solo nostalgia, mi piacevano di più allora (le piazze, e non solo).














   
Hasta siempre...

lunedì 25 novembre 2013

VIRAGO 535



Un pomeriggio d'inverno del 1988, uscendo dalla bottega di Mauro Ferraris in via Campana, a Torino, mi ero avviato per via Nizza verso Porta Nuova.
Poco prima dell'incrocio con corso Marconi c'era la concessionaria di scooter e ciclomotori dei F.lli Orsi.
Passando davanti alle vetrine illuminate mi era apparsa lei, un po' fuori posto tra motorette per quattordicenni. Somigliava in modo allarmante al motociclo che avevo in testa e che desideravo possedere.
Ero entrato, avevo chiesto il prezzo, me l'ero studiata da vicino e, palpitando, mi ero reso conto che corrispondeva alle mie aspettative.
All'uscita, in un edicola, avevo  acquistato un paio di riviste per mettermi ulteriormente sul gusto.




















Era lei.
Laura in quel periodo stava girando "Maicol" con Mario Brenta a Milano e io, come un bambino che si compra un giocattolo costoso all'insaputa dei familiari, ero andato dai F.lli Orsi avevo compilato un assegno e mi ero accaparrato un frammento di entusiasmo adolescenziale.
Qualche tempo dopo - si era ormai in primavera avanzata - in una tarda mattinata festiva ero andato comprare un pollo arrosto in una rosticceria di via S. Massimo. Ci ero andato in moto. Da quando ce l'avevo non facevo che andare in moto ovunque.
All'uscita dalla bottega un biker in sella alla sua custom stava osservando la mia Yamaha.
Avevamo scambiato qualche parola. Lui aveva apprezzato il mio mezzo. Io me ne stavo là, con il sacchetto di plastica e il pollo dentro, più casalingo che motard, un poco imbarazzato dalla mia inadeguatezza.
Lui mi aveva rivolto un invito tanto generico quanto laconico.
Aveva detto - Noi ci troviamo oggi pomeriggio alle due e mezzo davanti al palazzo della Regione, se vuoi fare un salto.
Noi chi ? Non glielo avevo chiesto. Avevo ringraziato e lui si era avviato, rombando con gli scarichi aperti.
Il palazzo della Regione è in piazza Castello, molto vicino a qualla che allora era casa mia, in via Carlo Alberto, e così dopo pranzo avevo fatto un giretto esplorativo.
Saranno stati una ventina, tutti a cavallo di custom modificate, abbigliati in modo adeguato, quanto di più simile ad una banda di bikers mi fosse capitato di incrociare dalle mie parti.
Mi ero avvicinato con cautela. Paolo, il ragazzo con cui avevo avuto contatto al mattino, mi aveva riconosciuto, c'erano stati saluti senza presentazioni, loro stavano per muoversi e così, all'improvviso, mi ero ritrovato imbarcato in un'infornata di gente cha montava in sella, avviava i motori nel fracasso assordante delle marmitte aperte e si muoveva in un arrogante formazione che occupava tutta la carreggiata di via Pietro Micca, in un giorno festivo nel pieno centro di Torino per la meraviglia allarmata dei passanti adulti e l'entusiasmo incantato dei loro rampolli.
Dopo quella volta sono uscito con loro in altre occasioni. 


















  




Ci si trovava in piazza Castello o in piazza Carignano e poi si scorazzava per periferie che mi erano sconosciute, finendo in birrerie di confine, o in prati dove erano in corso raduni con una band che suonava sul cassone  aperto di un camion, grafici che personalizzavano serbatoi e parafanghi con l'aerografo, tatuatori, venditori di panini alla salsiccia e lattine di birra, qualcuno da portare al pronto soccorso perchè si feriva "pogando" (io mi limitavo ad osservare). Insomma, un'esperienza interessante.





















E poi un giorno la banda si era costituita con un vero tesseramento, affiliato ufficialmente alla gilda dei motoclub.
Eravamo i Dirty Bikers.
Con la tessera ricevemmo le insegne, che applicammo su giubbotti di jeans senza maniche da indossare sui "chiodi".








Le nostre uscite avevano ora un tocco di temibilità temeraria, anche se soltanto dal punto di vista estetico. 
Io nel frattempo, influenzato dalle frequentazioni, avevo optato per alcune modificazioni della Virago, cambiando sella, manubrio, frecce anteriori e posteriori, specchietti retrovisori, manopole, portatarga e fanale posteriore, e forando gli scarichi, il tutto con l'aiuto di Paolo.









L'avventura si è poi inevitabilmente conclusa. 
Per un po' di tempo avevo vagheggiato di farci un documentario sui Dirty Bikers, poi però ho venduto la moto nella convinzione che fosse reponsabile di certi miei problemi di cervicale che allora mi affliggevano con una certa frequenza, e l'idea del documentario si potrebbe dunque ascrivere d'ufficio alla categoria degli "Atti Mancati".
Della Virago mi resta una chiave (ci sta come "Reparto reperti").








...e qualche fotografia

















questa, del 1990, sarebbe andata bene anche per COPRICAPI. Tout se tien...

giovedì 21 novembre 2013

COPRICAPI



Sarà che fin da piccoletto mi cacciavano quelle papaline in testa...





Cimavilla (Vistrorio) luglio 1952














...e non solo...
























Qui, "deguisé" en Esther Williams, ammonisco le onde...




...e qui, stesso costume, stesso cerotto a proteggere
la scarificazione dell'antivaiolosa, ma con berretto da
lupetto di mare ascolto lei, un'affettuosa amichetta che rispondeva
al nome di Nuccia Gaschino (così è riportato sul retro)
  di Cuneo, che assomiglia in modo impressionante a Marina 
( vedi intenso post del 15 gennaio 2011) 
molto amata compagna di  tanti anni dopo.










Insomma, sia come sia, nutro da sempre un'attrazione irresistibile per cappelli, berretti, bandane, sombreri, bombette, tricorni etc.etc..
Ne ho avuti a decine e purtroppo non di tutti resta testimonianza, però c'è materiale per un excursus abbastanza esauriente, quindi ci provo, e vediamo cosa salta fuori.




Il mio primo cappello da cow-boy, di un paio di taglie
di troppo, che sulla fascia portava la scritta
Roy Rogers - Trigger ( che era il suo cavallo)




ll cappello da cow-boy ha ricevuto un'attenzione costante fin dalla prima infanzia, innestata da un guardarobino regalatomi da mio padre di ritorno dagli Stati Uniti, la prima volta nel 1954 (vedi in proposito l'esauriente post "Western vintage" del 9 dicembre 2012) che mi offre il destro per una breve digressione in un ambito a me congeniale, che è quello delle cartoline di domestica memoria.





Ero ancora Pieruccio, il numero civico era ancora 33,
il mio papà mi scriveva parole che non sapevo ancora
leggere, ma la fascinazione di quelle immagini era folgorante. 
Amorevolmente pragmatica la raccomandazione per mia madre.






avevo tre anni e mezzo ma in qualche modo ero
fieramente consapevole di essere l'unico bambino
che avesse un papà che andava in cerca di orsi.










    






mio padre con zii, prozie e cugine a N.Y.



questa mi avvicina più delle altre
all'idea che mi sono fatto di mio padre,
dell'uomo giovane che era allora.






Reduce dal periodo di lavoro sulla west coast è a New York, in attesa di imbarcarsi per il viaggio di ritorno su uno di quei Super Constellation a eliche - se ne intravede un frammento a sinistra, oltre l'ala - con i quali varcavano l'oceano in quegli anni.



il terzetto che sale a sinistra sembra uscito 
da un'illustrazione di Norman Rockwell




Sul retro della cartolina pubblicitaria dell'hotel in cui è ospite ha annotato il numero della camera sua e di un collega, nonchè del piano.
Il tutto con la solita Aurora 88, con la quale ha vergato anche le altre missive. 




 ed eccola qui, usurata ma non doma,
ha scritto anche molte delle mie cose
prima che la guarnizione, come un'articolazione
animale, si arrendesse al logorante
entusiasmo dell'uso.









Sul lato indirizzo della cartolina, con una biro, quindi in un secondo momento e come per un appunto frettoloso, ha annotato alcuni capi d'abbigliamento con relativi prezzi. Sono quelli del mio costume da cow-boy, acquistati probabilmente all'ultimo momento in un grande magazzino newyorkese.














E me lo immagino quest'uomo, già carico di regali - strepitose camicie hawaiane che "leggevo" come album di fumetti, mocassini indiani vezzosamente costellati di perline per mia madre ed essenziali per me e per lui e tanto altro - che all'ultimo momento ricorda la promessa fatta al bimbetto di cui sicuramente non conosce misure, che ha voglia di rivedere ma che non sa molto come trattare, come quasi tutti gli uomini della sua generazione.








Così, poco prima di andare all'aereoporto, affacciato ad un diciottesimo piano, prende nota su una cartolina, e quella cartolina è ancora con me. 




ed eccomi qui, con mostruosa coccinella
spillata sull'immancabile papalina tra
mio padre e Anita P., che ho sempre avuto
l'impressione che fosse vagamente infatuata di lui.



Il cappello da cow-boy, comunque, è rimasto abbastanza costante













...ci torneremo. Per ora vorrei avanzare in modo possibilmente cronologico.
E allora, durante l'infanzia copricapi invernali...








Il mio berretto da Davy Crockett
in pelliccia di procione, del quale
andavo fierissimo



















1974





E in città certi berretti a visiera corta come questo sotto







...o quest'altro scamosciato






che ho ritrovato in un baule in soffitta









O  ancora quello che nelle preferenze faceva il paio con i berretto da Davy Crockett, e cioè quello da Sherlock Holmes









Ma ora procediamo con vintage estivo




austero mio cugino Giampiero, scanzonato io.
Stargli vicino mi faceva sempre questo effetto.




 a Noli



...però si direbbe che a godere dei miei favori, all'epoca, fosse soprattutto questo baschetto









che indossavo sia in veste di estemporaneo Tom Sawyer alle prese con la pittura di una staccionata...









...che per scorribande ciclistiche su sterrati, cubetti di porfido, sentieri erbosi e pochissimo asfalto per percorsi ruegliesi...









Il commento a matita di mia madre mi attribuisce
una soddisfatta attitudine Huckleberry Finn



 
Niente berretti ma ci sta...



...e per un certo periodo, in città, ai giardini, 
su un altra bici, con manubrio sportivo, 
ho indossato questo




 ...la foto è veramente orribile ma filologicamente
ineccepibile: berretto e bicicletta (tra l'altro devo
averla già postata da qualche parte, vabbè...) 




...e infine, per tornare al baschetto bianco, era indossato anche in conturbanti contiguità con la femminilità, che credo abbiano influenzato in modo significativo il mio modo di percepire certe intense sottigliezze erotiche.




tra Anita e Milena Peraglie, che nella loro adolescenza
 mi avevano bamboleggiato fin dalla mia più tenera età, e ora signorine
condividevano con me pause meridiane con ghiaccioli e languori.




Una bombetta comprata da un rigattiere a Brighton, nel 1971.














Una paglietta trovata nella casa di Cimavilla, arrivata da New York intorno al 1915.















Qualche bandana...




1972




1990





1994




1996


  e altro...



1976




1987




1970




1981




1974




1999




1990




2008




1997



1990




anche parecchi berretti da baseball...




1972



1994



1997





1996



1994




1993



1999



Qui sopra con la mia penultima telecamera, sotto con la mia prima cinepresa (e un berretto diverso).




1974



1989



1987



...con l'Arriflex BL 16 mm. torniamo ai cappelli da cow-boy.





 1973





 1970




 1974




 1977





 1975




I cappelli da cow-boy sono legati alla parabola del 1980, annus horribilis durante il quale mi ero convinto che isolarsi dal resto del mondo e allevare cavalli fosse una soluzione praticabile, ipotesi che si è poi rivelata imbarazzantemente infondata.























Il lungo sonno della ragione di quell'anno cruciale ha poi generato i mostricciattoli che accompagnano in modo intermittente la mia ciclotimia. 
Malgrado tutto un cappello da cow-boy ce l'ho ancora, a Rueglio, uno Stetson che non ho mai indossato se non per pochi momenti, in casa, in attesa di un uso futuro che probabilmente non si verificherà più, un simulacro, un feticcio, roba così.






L'ultima volta che sono stato su ho immortalato un po' di copricapi d'archivio perchè avevo in mente quest'idea forse balzana di fare un post sui cappelli.
Questo me lo sono cacciato in testa e mi ci sono fotografato  in uno specchio. L'inquadratura è quella che è, il soggetto anche, ma chiude - a mio parere - come era giusto che fosse.