domenica 9 marzo 2014

I MORTI NON SANNO NULLA 2






                                          DUE


Era stato prima ingaggiato da un'agenzia di Milano, dove era rimasto per quattro anni, poi era finito a Lione, per seguire una donna sposata di cui si era inutilmente innamorato.
Qui, nella confusione del tormento sentimentale, aveva accettato di associarsi al fratello di lei, col quale aveva aperto uno studio che si occupava di fotografia e grafica industriale.
I due anni di Lione Dino Fabbri li ricordava in modo nebuloso, uniformi e indifferenziati. A volte aveva la sensazione incongrua che per tutto il tempo che era rimasto là fosse sempre piovuto.
Quando il suo socio era stato arrestato per truffa Dino, in uno slancio di coraggioso sgomento, aveva gettato in una borsa le sue macchine fotografiche, in un'altra l'archivio dei negativi, e si era precipitato alla frontiera.
La cosa in Francia, dopo un primo momento di allarme, si era poi accomodata, ma lui non aveva più voluto saperne. Aveva rinunciato alla sua quota societaria e a qualsiasi forma di utile che potesse derivarne, lasciando tutto al socio e alla sorella di lui, che nel frattempo aveva divorziato e gli lanciava da oltreconfine allettanti richiami.
Dino Fabbri risolse la questione tramite un avvocato. Esaurì i soldi che aveva messo da parte e ricominciò da capo, faticosamente, rendendosi disponibile per qualsiasi tipo di lavoro.
Per un certo periodo trovò impiego sui set di fotoromanzi porno.
A fronte di compensi irrisori immortalava insegne di autorimesse, banconi di salumerie, attrezzi ortopedici, per un'agenzia pubblicitaria specializzata nella distribuzione di depliants.
Le sue immagini, anonime e slabbrate, finivano su foglietti e pieghevoli che ragazzini e disoccupati, ingaggiati dall'agenzia, fissavano ai parabrezza delle automobili posteggiate, sotto il tergicristallo.
Perché le sue fotografie non diventassero definitivamente invisibili, scattava ancora in giro per le strade, cercando sulle facce della gente, nei loro gesti, quegli attimi rivelatori che poi affioravano nel buio della camera oscura, comparendo magicamente dal bagno di sviluppo e fornendogli, una volta ogni mille scatti, la ragione di tener duro.
A Torino era tornato dopo dieci anni di assenza, chiamato inaspettatamente da un vecchio conoscente.
Con Lamberto Piovano aveva condiviso certe passioni cinematografiche, qualche tangenziale frequentazione di movimentismo studentesco e una vacanza a Stromboli, senza che fossero mai stati davvero amici.
Piovano era stato uno di quelli che, a suo tempo,  si erano fatti fare un "servizio" da Gambarino. Per un certo periodo aveva accarezzato l'idea di fare l'attore.
Ora dirigeva un'agenzia pubblicitaria piuttosto quotata.
Gli occorreva un fotografo per il catalogo che si sarebbe fatto di una rassegna di danza contemporanea sponsorizzata da un istituto bancario.
Piovano aveva a disposizione una rosa eccellente di professionisti cui rivolgersi, ma era accanitamente scaramantico e proprio nell’immediata precedenza del festival qualcuno gli aveva parlato di Dino Fabbri: glielo aveva resuscitato dicendo d'averlo incontrato a Milano. 
A Piovano era parso un segno: lo aveva rintracciato e stanato dal suo bilocale alla Bovisa.
Nel suo ufficio, arredato con l'essenzialità di un design arido e pregiato, aveva confidato a Dino Fabbri che quello era il genere di lavoro attraverso il quale desiderava essere identificato, che gli still life o  i folder industriali erano solo un modo di far soldi.
A Dino era parso che con quel discorsetto l'uomo volesse dimostrare d'aver conservato una parte di sé, che ai tempi in cui s'erano frequentati sicuramente c'era: qualcosa che forse riguardava un'idea piuttosto convenzionale di libertà espressiva, di dedizione all'arte o cose del genere. Non s'azzardò quindi a fare considerazioni di nessun tipo.
Era arrivato a Torino su un'auto di dieci anni, il suo conto in banca era irrisorio e le prospettive praticamente nulle, mentre il Lamberto, anche se era ingrassato parecchio e aveva perso i capelli, olezzava del profumo d'un dopobarba che suggeriva benessere e raggiungimento dei propri obiettivi.
Vestiva con eleganza sartoriale morbidamente inglese, lo aveva invitato a cena al suo circolo del golf e ce lo aveva portato su un Porsche cabrio nuovo di zecca. Il figlio di papà degli anni adolescenziali non aveva alterato il suo tenore di vita. Se mai lo aveva migliorato.
Quella sera a cena al loro tavolo s'erano aggiunte inaspettatamente due donne: una ballerina di danza jazz e un'assistente coreografa.
La ballerina venne immediatamente bersagliata dalle attenzioni piuttosto melense del Piovano. A Dino Fabbri non restò che occuparsi della coreografa, un tipo ordinario ma molto allegro, con una sensuale voce arrochita.
Alla fine della cena loro due avevano bevuto parecchio. Dino aveva ceduto all'atmosfera, riconoscente per la nuova opportunità di lavoro e per quel ritorno alla sua città, dopo tanti anni di assenza.
L'assistente coreografa gli aveva dato una mano a vuotare alcune bottiglie di Sauvignon con un cameratismo incoraggiante.
Chinandosi sotto il tavolo a raccogliere il tovagliolo caduto Dino aveva visto che s'era liberata delle scarpe e non portava calze. Nel risollevarsi aveva allungato una mano e si era portato in grembo uno dei piedi nudi di lei, sorridendole un po’ stordito. Lei aveva sorriso a sua volta, ammiccando, e si era lasciata accarezzare il piede, premendoglielo sempre più percettibilmente contro l'inguine.
Verso la fine della cena una figura femminile si era materializzata accanto al loro tavolo.
Si era accostata per un saluto a Lamberto con l'aria d'aver fretta, poi aveva accettato di fermarsi un momento, parlando di qualcosa che a Dino era sfuggito, vuoi per via della sbronza, vuoi per l'eccitazione che il piede dell'assistente coreografa stava sollecitandogli.
Aveva però immediatamente riconosciuto nella donna la ragazza che dieci anni prima aveva fotografato al matrimonio della marchesina. Incredibilmente ne ricordava anche il nome: Carlotta Maltraverso.
Le era rimasta la stessa pensosità malinconica di quand'era ragazzina, come se ancora indossasse quell'abito bianco e blu e compitamente fungesse da testimone di nozze.
Se n'era poi andata così com'era comparsa e loro quattro avevano lasciato il circolo piuttosto eccitati. Erano finiti in un locale pieno di gente e di musica, poi si erano separati.
Il giorno dopo gli squilli del telefono lo avevano svegliato di soprassalto.
Per un lungo momento non era riuscito a capire dove si trovasse. Il corpo che si era rigirato accanto a lui, nel letto rotondo, lo aveva aiutato a ricordare. L'assistente coreografa nascondeva il capo sotto il cuscino mugolando nel dormiveglia.
Dino Fabbri riconobbe la garçonnière leggermente in avaria in cui Piovano lo ospitava. Apprezzò la linea soda dei glutei scoperti della coreografa e si trascinò al telefono, mentre un'emicrania feroce e improvvisa prendeva a tamburellargli le tempie.
- Com'é andata ?
Aveva sbraitato allegramente Lamberto nella cornetta.
- Ah, sei tu. Bene... - era appena riuscito a sussurrare Dino Fabbri.
- Lo so, lo so. Conosco il soggetto ! - aveva proseguito l'altro.
- Volevo solo ricordarti il tuo appuntamento.
- Quale appuntamento ?
- Lo immaginavo ! Ieri sera hai preso un impegno, caro mio !
- Un impegno ?
- Devi andare a ritirare un cane.
- Come un cane ?
- Un cane. Con Carlotta. Quella mia amica di ieri sera! Ma allora eri proprio partito ! Non ti ricordi ?
Solo a quel momento in Dino Fabbri era affiorata tutta la sequenza.
L'imbarazzo di lei di fronte a quel tavolo di gente più o meno alticcia, il suo argomentare a proposito di una macchina dal meccanico e un cane da ritirare in un allevamento, la falsa partecipazione di Piovano, l'indifferenza dell'assistente coreografa e il suo stordimento di ubriaco che si rivedeva ventenne, a scattare le sue prime foto di matrimonio a quella ragazzina nell'abito bianco e blu, irraggiungibile.
Così, inaspettatamente, le aveva rivolto la parola.
- Non si preoccupi, posso accompagnarla io domani.
Lei lo aveva osservato con un iniziale accenno di distacco perplesso, come chiedendosi per quale ragione quello sconosciuto fosse così disponibile, poi aveva accettato, come per abitudine a veder esaudite senza intoppi le proprie richieste.
- Se non ti va dimmelo, che la chiamo.
Aveva ridacchiato Lamberto nella cornetta.
- No, no, ci vado... - aveva risposto Dino Fabbri, osservando a malincuore il corpo abbandonato dell'assistente coreografa sul letto disfatto.
- L'indirizzo te lo ricordi ?
Piovano aveva interpretato  il silenzio all'altro capo del filo e aveva sillabato il nome di un caffé.
- Guarda che l'appuntamento ce l'hai tra mezz'ora. Vedi di  sbrigarti.
E aveva riattaccato ridendo.
Dino Fabbri era arrivato al bar ai piedi della collina con una decina di minuti di ritardo.
Aveva lasciato l'assistente coreografa con l'accordo che si sarebbero ritrovati da lei, la sera dopo le prove.
Carlotta sbocconcellava un croissant con piccoli gesti svogliati. All'apparire affannato di lui non aveva sorriso, soppesandolo con uno sguardo assente. Dino Fabbri aveva accampato una scusa incoerente per il ritardo e lei lo aveva invitato a sedersi; gli aveva chiesto se avesse già fatto colazione. Lui aveva risposto di no e lei aveva richiamato l'attenzione del cameriere.
- L'auto me la riconsegnano oggi.
Aveva detto, apparentemente senza ragione.
Lui aveva assentito e lei aveva aggiunto che il cane glielo avrebbero portato a casa il giorno dopo, direttamente dall'allevamento.
Lui aveva chiesto al cameriere se avessero delle aspirine.
- Quindi non é necessario che mi accompagni. Mi dispiace averti fatto venire per nulla - aveva concluso lei, dandogli del tu.
E solo a quel momento Dino Fabbri aveva capito che, non essendo necessario accompagnarla, alla fine di quel breve incontro al tavolino del caffé lei sarebbe riscomparsa nelle pieghe vellutate d'un mondo cui lui era inevitabilmente estraneo.
La osservò con una lunga attenzione impacciata e lei sorrise.
- Cosa c'é ?
- Niente.
Carlotta Maltraverso non aveva nulla delle femminilità che lo attraevano. Nonostante fosse indiscutibilmente carina aveva trasformato la sua bellezza in qualcosa di algido, distante. I capelli biondi incorniciavano un ovale sofferto, ottocentesco, da cammeo. La voce era un sussurro che costringeva ad un'attenzione vigile per poter essere percepita con continuità. Era molto elegante ma al tempo stesso pareva trascurata, infagottata; più che vestita pareva nascosta dentro abiti che non permettevano di rintracciare indizi di quali forme potesse avere il suo corpo. Come se non si piacesse.
In maniera inattesa lei gli si rivolse con amabilità e disse che per farsi perdonare per averlo costretto a raggiungerla inutilmente lo avrebbe invitato a pranzo.
Lui abbozzò un rifiuto svogliato, provando in cuor suo un'emozione adolescenziale. Lei fortunatamente insistette e lui accettò. Lo invitò a casa sua.
L'appartamento era molto elegante, affacciato sulla città dalla collina.
Un'intera parete del salone era vetrata e al di là si componeva un'immagine confortante: un digradare di vegetazione verso il nastro di bagliori plumbei del fiume e oltre questo la città come un plastico. Sullo sfondo la cornice delle montagne forniva un'idea di armonica disciplina, come se le cose stessero esattamente al loro posto, a ragionevoli distanze, dilettando senza disturbare.
Trascorsero tutta la giornata insieme. Mangiarono al piccolo tavolo di cucina quello che avevano finito di organizzare a quattro mani. Passeggiarono un poco nei prati curati che circondavano il complesso residenziale. Rientrarono e restarono a casa, insieme, anche la sera.
Dino Fabbri ad un certo momento s'era lasciato prendere da una specie di scoramento, di scontrosa malinconia, ammutolendo col calar del sole dietro le montagne, che adesso offrivano al di là dei vetri un nero profilo dentellato.
Carlotta Maltraverso s'era come elettrizzata per quella ritrosia di lui, circondandolo di attenzioni agili, cingendolo d'un assedio affettuoso e competente.
Avevano parlato fino a notte. Lui si era completamente offerto, raccontandole la sua vita, sottolineando le sconfitte, i disagi, i complessi. Senza ancora sapere che il lavoro di lei era quello di psicoanalista.
E poi, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo, erano finiti a letto.
Lei si era un po’ schermita, aveva preteso che si tenessero le luci spente, era sfuggita a baci che lui era sceso a posarle tra le cosce, aveva interrotto ripetutamente i preliminari e alla fine avevano scopato. Dino Fabbri eccitato dalla pudicizia infantile di lei e Carlotta in silenzio. Salvo chiedergli al'improvviso, in un impeto affannato, di spingere, spingere di più e venire.
Dino Fabbri si era accasciato al suo fianco dopo aver eseguito l'ordine.
Il mattino dopo se ne era andato presto, senza che si fossero dati un altro appuntamento.
In studio Piovano lo aveva accolto aggredendolo a parole, sospettoso riguardo a quanto era avvenuto quella notte. Inaspettatamente se l'era presa a morte. Aveva rinfacciato a Dino d'aver tradito un'amicizia. Si era alterato al punto da far capire d'essere innamorato di Carlotta, pur avendo dissimulato per qualche sua ragione tattica.
- Mica ti ci mandavo a prendere quel cazzo di cane se me lo fossi immaginato ! - aveva urlato in un impeto rabbioso e accorato insieme.
- Ma non é stato nulla...Una scopata e basta...
Aveva cercato di sminuire Dino Fabbri, nel tentativo di rassicurarlo e ottenendo invece l'effetto opposto.
- Una scopata e basta !? Cosa vuoi dire ? Ma quella é pazza ! Avete scopato ! E' da mesi che io la copro di attenzioni, da mesi che la invito a cena. Le ho persino detto che la sposo subito, quando vuole lei. E lei non s'é mai lasciata nemmeno baciare ! Poi arrivi tu e vaffanculo ! Io sapevo che ti piacevano un po’ troie, casiniste, tettone...Mi son detto tanto non é il suo tipo. Guarda un po’ che stronzo ! Hai tradito la mia fiducia !
Piovano aveva concluso con un picco di ridicola tragicità.
Dino Fabbri aveva risposto che gli dispiaceva.
S'era reso conto che la ragione per cui non mandava al diavolo Lamberto era perchè temeva che quell'altro gli togliesse il lavoro, e la cosa lo metteva a disagio. Era la prima volta che gli toccava di venire a patti con la propria dignità, di ridursi ad un opportunismo meschino in ragione d'una posta mediocre, ma ancorata al bisogno.
Desiderava ferirlo senza che l'altro finisse col liberarsi di lui.
- Comunque le tettone le ha.
Disse, e Piovano ammutolì.
- Tettone ? - farfugliò.
- Sì, non proprio tettone ma belle grosse sì - affermò Dino, ricordando di come anche lui se ne fosse stupito, trovandosele tra le mani nel buio.
- Non si direbbe... - considerò Piovano.
- Probabilmente le danno fastidio. Ci sono donne che odiano avere le tette grosse. Lei forse é una di quelle, e allora le maschera. Si veste in modo che non si veda...
- Sarà... - concluse l'altro. E il lavoro non glielo tolse.
Dino Fabbri rintracciò l'assistente coreografa, riuscì a farsi perdonare il mancato appuntamento del giorno prima e passò la notte da lei.
Il giorno successivo iniziava il festival e Dino non s'occupò d'altro.
Per qualche tempo si lasciò assorbire completamente dal lavoro  poi, durante un pomeriggio di prove, Lamberto si fece vivo in teatro e con lui c'era Carlotta.
Si scambiarono rapidi saluti. Lei fu gentile e Dino vagamente imbarazzato. Piovano li teneva d'occhio, pur fingendo rumorosamente di dedicarsi alle ragazze del corpo di ballo.
Carlotta non fece cenno alla notte che avevano trascorso insieme, non smise mai di rivolgergli un sorriso incoraggiante, quasi materno, e alla fine Dino Fabbri s'arrese e le chiese in un sussurro se potessero rivedersi.
Lei rispose di sì, come si risponde di sì a un bambino cui si é già deciso di regalare il giocattolo che lui non osa chiedere in dono, e quella stessa notte tornarono insieme nello stesso letto, nella casa di lei, in collina.
Trascorsero così un paio di mesi. Dino Fabbri terminò il servizio e Piovano per un po’ di tempo non gli rivolse la parola.
Carlotta Maltraverso non aveva avuto difficoltà a vincere la ritrosia di Dino e fare in modo che lui si convincesse che trasferirsi da lei era la cosa più ragionevole da farsi.
Furono giorni agevoli, viziati da una perenne sensazione di conforto. Dino Fabbri s'abbandonò alla determinazione rassicurante di Carlotta, accettò i suoi consigli, si meravigliò della sua permanente capacità di affrontare i grovigli mentali che lo accompagnavano da sempre, dipanandoli con accorta maestria.
Era lucidissima, brillante, allegra, piena di senso dell'umorismo e improvvisamente, a letto, aveva ridotto tutte le proprie resistenze, partecipando con entusiasmo da neofita a tutti i giochi che Dino Fabbri proponeva.
A distanza di qualche anno uno psichiatra, conosciuto per caso, gli avrebbe spiegato che molti schizofrenici sono così: più intelligenti della media, irresistibili nei loro momenti positivi, irriconoscibili in quelli negativi.
Comunque alla fine di quei due mesi Carlotta propose, ridendo, che si sposassero e Dino, ridendo anche lui, rispose perché no.
Nei giorni successivi lei si procurò i documenti necessari e glieli mise sotto il naso.
- Io li ho. Adesso tocca a te - disse.
Lui trascorse un paio di giorni in preda allo sconcerto, incapace di affrontare la situazione.
Lei se ne accorse e lo aiutò, blandamente ma definitivamente, a decidersi.
Lo accompagnò a Saluzzo per conoscere la madre di lui, poi lo presentò ai suoi, a Lugano. Dino Fabbri si sentiva nervoso come un ragazzino prima di un esame.
Un esame che superò senza difficoltà proprio grazie alla continua assistenza di Carlotta, che lo ammannì ai genitori come un dono raro.
La madre, un'aristocratica dall'aspetto rattristato, gli dedicò attenzioni esangui, chiudendosi frequentemente in mutismi assenti. Il padre fu più accorto. Chiese di parlargli a quattr'occhi e Carlotta cedette, non dopo aver rivolto a Dino uno sguardo di assoluta rassicurazione.
Il padre fu immediatamente esplicito.
Chiese se Dino fosse in grado di mantenere Carlotta nel tenore di vita cui era abituata e lui rispose di no. L'altro alzò le spalle, gli chiese del suo lavoro, gli rivelò senza mezzi termini che Carlotta viveva del cospicuo assegno mensile che lui le passava,  che i proventi del lavoro di psicoanalista potevano forse essere sufficienti giusto per il parrucchiere. Fece inoltre brevi e taglienti considerazioni di disistima riguardo alla psicoanalisi in generale. Concluse chiedendo una volta per tutte, con un atteggiamento improvvisamente benigno e un poco mesto, se davvero lui, Dino Fabbri, fosse deciso a sposare sua figlia, se davvero si fosse fatto un'idea chiara della vita che lo attendeva. Lui rispose orgogliosamente di sì.
Il matrimonio fu fastoso.
Dino Fabbri rivide facce che aveva dimenticato e alle quali non avrebbe saputo associare un nome. Convinse Lamberto a fargli da testimone di nozze.
Gambarino in persona, appesantito e incredibilmente invecchiato, abbandonato da Luong ormai da anni, si era occupato delle fotografie, accompagnato da un  paio di assistenti di cui uno armato di telecamera.
La madre di Dino aveva rinunciato a presenziare, accampando confuse ragioni che per lui furono l'unica fonte di amarezza, subito fugata dal periodo immediatamente successivo al matrimonio, trascorso in brevi viaggi, incontri, cene e confortevoli tregue nella casa in collina.
Una sera vennero invitati da una coppia che Carlotta non aveva mai nominato. La donna aveva presenziato al ricevimento di matrimonio e Dino l'aveva notata con imbarazzo.
Era un tipo molto appariscente, che parlava a voce alta con un vistoso accento piemontese. Sfoggiava un'acconciatura laboriosa di capelli ossigenati, una schiera avida di denti rifatti, un abito da entreneuse e Carlotta accondiscendeva alla sua invadenza.
Si chiamava Loretta Testoni. Il marito non aveva potuto venire al ricevimento perché sottoposto ad una "tranche" di sedute con il suo psicoanalista: il dottor Theroux. Lo stesso che aveva patrocinato l'analisi didattica di Carlotta.
Quella sera Ferruccio e Loretta Testoni li avevano accolti nel loro appartamentino di Chieri.
Si erano profusi in attenzioni soffocanti, in un ambiente zeppo di mobili e soprammobili: quadri dipinti da lei alle pareti, modellini di navi, aerei, carri armati costruiti da lui, appoggiati un po’ ovunque.
La cena era stata saporitissima e pesante, arricchita da un profluvio di condimenti da far imbizzarrire il tasso di colesterolo.
Per tutta la sera non avevano fatto che parlare di psicoanalisi.
O meglio, non avevano fatto altro che paragonare, in una specie di competizione estenuante, le qualità dei rispettivi analisti.
Carlotta sembrava trovare la cosa divertente, senza prendere posizione. Ferruccio Testoni cercava in lei una complice, tenendo conto che si affidavano allo stesso strizzacervelli, ma lei si limitava a sorridenti cenni d'assenso, senza parlare.
Loretta era scatenata. A più riprese si era esibita in fulminei scoppi di pianto, lasciando Dino Fabbri in uno sconcerto imbarazzato, senza che però né Ferruccio né Carlotta vi avessero dato il minimo perso.
Era entrata in analisi recentemente.
Urlando, rivolta a Dino, aveva ammesso di aver opposto strenue resistenze prima di cedere alle insistenze del marito - in analisi da anni - che non faceva che ripeterle che un trattamento psicoanalitico per lei sarebbe stato fondamentale.
Grazie ad una fortuita opportunità era stata accettata dal dottor Etienne Carso, il padre fondatore della criptoanalisi: una variante eterodossa e scismatica dei sistemi di psicoterapia tradizionale.
Il dottor Carso era il capo di una comunità di psiconalisti di cui faceva parte anche il dottor Theroux, nume tutelare di Ferruccio Testoni nonché mentore di Carlotta.
Dino Fabbri veniva informato di questa serie di aspetti che accomunavano sua moglie a quei due forsennati con crescente disagio.
Intorno al tavolo imbandito faceva caldo.
Fuori della porta finestra che si affacciava su un terrazzino gremito di vasi di fiori, si intravedevano campi di granoturco e sagome di capannoni industriali.
Quando Loretta si lanciò in una confessione accanita e disperata Dino guardò Carlotta, come a chiedere soccorso, ma lei gli rivolse un breve cenno tranquillizzante, senza smettere il suo sorriso, soddisfatta dell'andamento della serata.
Dino Fabbri ebbe così modo di sapere che Loretta aveva qualche anno più di Ferruccio, e che lo aveva sposato contro il parere dei genitori di lui. Per quella ragione ora si trovavano vittime di una specie di ostracismo, costretti a vivere in ristrettezze. Campavano con lo stipendio di lei, dipendente amministrativa di una industria alimentare. Lui raggranellava qualcosa con estemporanei lavori d'architetto.
I genitori di lui, ricchissimi, stavano a guardare.
Loretta, nella foga, sudava copiosamente. S'era sbottonata la camicetta fino a scoprire un reggiseno di pizzo nero, che le imprigionava un paio di tette cospicue ma assopite, che vacillavano come creme caramel ogni volta che si dimenava sulla sedia.
Ferruccio taceva, come assente, giocherellando con le posate, senza nessun segno d'imbarazzo, neppure quando lei prese a spiattellare fatti che riguardavano l'aspetto sessuale del loro menàge.
Diceva che lui non poteva resistere a quello che lei gli sapeva fare. Abbaiò poi una sequela d'insulti rivolti al marito, rivelando un'improvvisa e imprevedibile gelosia canina. Insultò anche Carlotta, accusandola di volersi scopare il suo Ferruccio, poi singhiozzò un poco, tranquillizzandosi, e con voce pigolante, tirando su col naso chiese:
- Chi prende un altro taglio al caffé ?
- Io ! - rispose con entusiasmo Ferruccio.
- Ma sì, anche se poi stanotte non dormo - disse Carlotta.
Così anche Dino accettò.
Sulla strada del ritorno a casa volle sapere perché avessero accettato l'invito di quei due pazzi e Carlotta rispose che la divertivano.
Tentò anche di minimizzare l'aspetto delirante della situazione, parlando della loro generosità, della loro disponibilità.
Dino Fabbri decise che non valeva la pena di rischiare una discussione per quell'episodio che - era convinto - non si sarebbe ripetuto.
Nei giorni immediatamente successivi non diede peso all'improvviso affievolirsi della serena sicurezza di Carlotta.
Il padre di lei li aveva invitati a trascorrere l'agosto sull'isola di Cavallo. Piovano gli aveva offerto un lavoro per l'autunno. Dino Fabbri si accingeva dunque ad accettare di buon grado la benevolenza della sorte quando un mattino Carlotta gli aveva annunciato che sarebbe partita il giorno successivo per Les Charbonnières.
Senza nessun preavviso, ma con i segnali che lui non sapeva ancora decifrare, Carlotta era stata travolta da un'improvvisa prostrazione psichica. Di fronte ai tentativi di lui di dissuaderla aveva reagito con una resistenza ottenebrata, ostile.
Les Charbonnières era la piccola località della Svizzera Francese dove il dottor Theroux esercitava eccentricamente la sua attività di psicoanalista. Lungo tutta la Vallée de Joux, in altrettanti ameni villaggi, il manipolo di discepoli di Etienne Carso faceva quadrato.
Al centro dell'asse che correva verso la frontiera, a Bas des Bioux, risiedeva il maestro.
Sui precedenti del dottor Carso si sapeva poco. La terza moglie, una danese di origine armena, aveva pubblicato su di lui presso una casa editrice specializzata in argomenti psico-esoterici un libriccino che stava a mezzo tra la biografia agiografica e il testo divulgativo. Sul risvolto di copertina c'era una foto del dottore.
Dino Fabbri se l'era studiata a lungo. Una fronte alta che proseguiva nel tondeggiamento del cranio pelato, occhi dallo sguardo distante, sospettoso, guance enfiate e cascanti e labbra turgide, scure. A Dino pareva la faccia di un omicida alcoolizzato, ma quando lo disse a Carlotta lei non lo ritenne divertente.
La trovata di Carso, dal punto di vista terapeutico, era stata quella di sostituire le tradizionali sedute di un'oretta scarsa, diluite in giorni differenti, con "tranches" di lunghe sedute  quotidiane.
Il paziente doveva vivere a perenne contatto con il proprio analista, abitare eventualmente sotto lo stesso tetto, sedere a tavola con lui, con lui trascorrere le serate e soprattutto sottoporsi ad estenuanti sedute fiume. Ogni giorno.
Le "tranches" duravano un mese e si ripetevano, a seconda delle esigenze da una fino a tre volte l'anno.
Carlotta, nonostante avesse terminato l'analisi didattica, che l'accreditava come psicoanalista - perlomeno nella ristretta cerchia dei carsiani - aveva improvvisamente sentito crollare qualcosa dentro di sé, almeno così diceva.
La sua urgenza di eludere quel deperimento, che l'aveva trasformata persino fisicamente, infossandole gli occhi, scavandole le guance, impallidendola, era ossessiva come quella di un tossico in astinenza.
Aveva contattato il dottor Theroux senza avvertire Dino, si era accordata con lui, aveva accolto con il sollievo di  un condannato a morte di fronte alla grazia il fatto che Theroux si fosse reso disponibile, nonostante già un paziente fosse presso di lui per una "tranche", e aveva preparato le valigie.
- A Cavallo ci puoi andare tu. Papà sarà contento.
Aveva concluso frettolosamente.
Dino Fabbri aveva rifiutato, scegliendo di restare in città.
Carlotta, con un improvviso soprassalto di tenerezza, aveva detto che avrebbe potuto raggiungerla più avanti, per una piccola vacanza insieme.
- Loretta é già là. Ferruccio verrà a trovarla. Gli dico di chiamarti, così potete fare il viaggio insieme.
A Dino Fabbri era apparso tutto improvvisamente pazzesco ma non si era rassegnato all'idea che lo fosse davvero. Aveva optato per un'ipotesi meno allarmante, di transitorietà.
Negli ultimi tempi Carlotta aveva rifiutato qualsiasi approccio sessuale e altrettanto fece durante l'ultima notte che trascorsero insieme. Senza accampare malesseri, senza ricorrere a sotterfugi ipocriti, congelava le avances di Dino con cordiali e definitivi "Non mi va".
Era partita in un mattino di pioggia, in preda ad un'allegria che a lui era parsa offensiva.
Gli aveva lasciato, nell'ordine: il numero di telefono dell'amica svizzera dalla quale aveva affittato l'appartamento vicino alla casa di Theroux, un Alaskan Malamut prepotente da accudire, la conferma che di lì a un paio di settimane Ferruccio Testoni si sarebbe fatto vivo per accompagnarlo a Les Charbonnières.
Dino Fabbri s'era aggirato per casa, insofferente, per un paio di giorni, attanagliato dai dubbi sul suo recentissimo matrimonio. La sera del secondo giorno si era ubriacato, da solo, affacciato alla vetrata che guardava sulla città e le montagne.
Il giorno seguente era stato svegliato dall'improvviso ingresso in camera della donna di servizio: una figura asciutta ed energica, laconica, sui cinquant'anni, vedova da trenta.
Lei aveva fatto dietrofront dopo essersi soffermata con un'occhiata sul corpo nudo  di lui.
Dino Fabbri aveva ascoltato il suo passo felpato lungo il corridoio, poi aveva cercato al telefono l'assistente coreografa senza la speranza di trovarla, ma lei c'era.
Si capiva che non era sola.
Resistette un poco, fingendosi offesa per la scomparsa di Dino, ironizzò sul suo matrimonio, poi disse che lo avrebbe richiamato.
In capo a una decina di minuti s’era liberata del partner occasionale e aveva ceduto alla lusinga di potersi rivalere su quella che, nella sua visione delle cose, era una rivale con la quale competere. Chiamò.
Dino Fabbri anticipò la consegna dell'Alaskan Malamut ad una pensione per cani raccomandata da Carlotta e si dedicò per una decina di giorni a gustare il vino, la marijuana e il sesso sfrenato dell'assistente coreografa. Poi telefonò Ferruccio Testoni.

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