lunedì 14 aprile 2014

I MORTI NON SANNO NULLA 26




                                       VENTISEI


Carlotta lasciò il bagaglio in ingresso.
Non aveva con sé che la più piccola delle sue valigie.
Precedette Dino in salone dicendo “Siediti, ti devo parlare”
Non alterò mai il tono di voce, che era amichevole ma fermo, né lo sguardo, che indicava una comprensiva irremovibilità.
In sostanza annunciò che lui se ne doveva andare.
Senza giri di parole, analisi o considerazioni sul loro matrimonio, comunicò che Dino doveva lasciare la casa, dove lei sarebbe tornata entro un paio di settimane con un altro uomo; uno di cui si era innamorata nel frattempo.
Diede tempo alla sorpresa di lui di superare la fase dell’ammutolimento ma gli sbarrò il passo sul fronte della rivendicazione. Del resto l’intuito e quel po’ di competenza professionale le avevano dato modo di conoscere i punti fermi e le debolezze del carattere del marito: sapeva che spesso coincidevano. Approfittò del suo senso della dignità quasi autolesionistico e della sua disponibilità alla resa, fondata su una  perenne consapevolezza del relativo. Sapeva che quegli elementi le garantivano che al suo ritorno lui non sarebbe stato in casa, a cercare di tenere la postazione o tantomeno per scatenare scenate di qualsiasi genere.
In realtà Dino Fabbri di resistere tentò, con una foga anche maligna e un po’ incongruente. Accampò ipotetici diritti legali, senza molta convinzione accusò Carlotta di essere una puttana, sempre intontito dalla meraviglia di quel fulmine a ciel sereno.
Mentre confusamente parlava, rifletteva invece sul fatto che da tempo il suo desiderio più inteso, anche se saltuario, era di poter sfuggire alla condizione che si era venuta a creare con il matrimonio. Ora che l’opportunità d’allontanarsene si presentava, senza dover ricorrere all’ingiustificabilità di una fuga, lui resisteva.
Si sentiva defraudato di qualcosa, ma non capiva esattamente di che cosa. Non era per il fatto che Carlotta gli avesse comunicato di essere innamorata di un altro. Si rese conto, proprio grazie all’assenza di turbamenti con cui aveva accolto l’annuncio, che non amava sua moglie. Però che fosse riuscita lei, con un colpo secco, inatteso, a sistemare ciò che lui avrebbe lasciato a trascinarsi per chissà quant’altro tempo, lo mortificava.
Dopo un alterco breve, durante il quale si vergognò della piega vagamente isterica che stava assumendo il suo tentativo di opporsi alla decisione di Carlotta, Dino comunque si arrese. Si abbandonò quasi con conforto all’idea che tutto fosse finito.
Quando si rabbonì, lasciandosi cadere esausto su un divano, lei gli si sedette di fronte con atteggiamento amichevole e gli illustrò le varianti del futuro immediato.
Il programma, da un punto di vista legale, non implicava né difficoltà né fastidi. Separazione e successivo divorzio sarebbero stati curati dall’avvocato di lei, che comunque si sarebbe accollata, in qualità di parte responsabile, tutti gli oneri relativi.
Gli consegnò poi la ricevuta intestata a lui dell’avvenuto pagamento di un anno d’affitto in un residence di lusso e lo costrinse ad accettare un assegno piuttosto cospicuo, dicendosi certa che, se fosse stato necessario, lui avrebbe fatto la stessa cosa per lei. Alla fine aggiunse che, dal momento che in autunno lui avrebbe ricominciato a lavorare per Piovano ed era senza auto, doveva accettare la sua.
Quella notte Dino Fabbri si rigirò senza prendere sonno in uno dei letti gemelli della camera degli ospiti. Il mattino seguente andarono dall’avvocato di lei per le formalità di prima istanza e poi dal notaio, per la voltura dell’auto a nome di Dino.
Lui si era definitivamente barricato dietro una cortina di mutismo indifferente.
Finirono a colazione in un ristorante che erano stati soliti frequentare durante il periodo del loro breve ed inebriante fidanzamento, senza scambiare molte parole tra loro, sotto lo sguardo perplesso del proprietario e della sorella di lui, che troneggiava dietro la cassa.
Carlotta disse che avrebbe preso un aereo nel tardo pomeriggio. Dino non chiese né per dove né a che ora.
Si lasciarono fuori dal ristorante. Lui annunciò che sarebbe salito a casa solo in serata, in modo da evitarle di doversi riincontrare. La assicurò che avrebbe lasciato l’appartamento il giorno successivo e se ne andò, ignorando il gesto di lei, che pareva voler essere un abbraccio d’addio.
Dormì anche quella notte nel letto in camera degli ospiti e il mattino dopo, di buon’ora, aveva già quasi terminato di caricare la sua roba sulla Volvo station wagon azzurra, lasciatagli da Carlotta.
Aveva smontato rabbiosamente la griglia in metallo che separava i sedili posteriori dal bagagliaio – spazio riservato all’alaskan malamut – e ci aveva stipato tutta l’attrezzatura fotografica e di camera oscura. Per il resto i suoi effetti personali si riducevano a quattro casse di libri, una grossa valigia di cuoio cartonato che era appartenuta a suo padre ed un paio di sacche da viaggio.
Nonostante fosse sabato incrociò Rosa sull’ingresso.
- Il signore parte ? – chiese, e si capiva che qualcosa sapeva.
- Già – rispose Dino – e non torna più. Buona fortuna Rosa. Ah, dimenticavo ! Per quella storia dell’assassino aveva ragione lei.
Rosa s’illuminò brevemente di soddisfazione prima di recedere alla solita espressione schiva.
- Davvero ?
- Sì. L’assassino era il dottore – mentì Dino – e lei lo aveva visto nelle foto. Complimenti.
- Non sapevo che era un dottore… - disse lei.
- Bé, si, lo immagino, comunque è stato lui. Brava.
La salutò, lasciandola ad osservarlo perplessa, ferma sulla porta di casa.
Scendendo dalla collina verso la città accese lo stereo. C’era inserita una cassetta dei Beatles. Le note di “The fool on the hill” permearono delicatamente l’abitacolo. Dino Fabbri apprezzò l’ironia pertinente del caso per la scelta della colonna sonora del suo congedo.
Il motore ronzava piacevolmente, s’era alzato un po’ di vento che sgombrava in parte di nubi le montagne sullo sfondo.
Dino si chiese che cosa sarebbe successo se avesse detto a Carlotta quello che aveva scoperto riguardo all’omicidio di Theroux. Si compiacque comunque di non averlo fatto. Alla fine l’unica persona nei confronti della quale nutriva un residuo di comprensione in tutta quella faccenda era proprio Loretta.
No, non solo per lei, ammise con sé stesso.
Raggiunse il residence e ci si installò con una gradevole sensazione di novità. Poi chiamò il numero di Solange a Vaulion.

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