domenica 6 aprile 2014

I MORTI NON SANNO NULLA 19





                                                        DICIANNOVE



L'essere di nuovo a casa non costituì per Dino il sollievo che si era aspettato.
Il poltrire senza obblighi né impegni di sorta era gradevole ma, alla lunga, noioso.
La donna di servizio era ricomparsa poco dopo il suo arrivo, probabilmente messa sull'avviso da Carlotta, e la sua presenza muta e severa lo metteva a disagio. L'unico vantaggio era stato quello di affidarle le cure dell'alaskan malamut che Carlotta si era raccomandata di recuperare dalla pensione per cani. Dino non aveva simpatia per gli animali domestici e fu felice di non doversene più occupare.
Impigrito dall'improvviso ritorno alla normalità e ancora stordito dall'esperienza del soggiorno elvetico lasciò trascorrere una settimana prima di decidere sul da farsi.
Parlò un paio di volte al telefono con Carlotta.
Andò a trovare sua madre, ma non resistette che un paio di giorni. Non gli dispiacque scoprire che frequentava con discrezione un veterinario in pensione, vedovo anche lui, ma il dimesso atteggiamento indagatore di lei durante i pasti in cucina, quel suo istintivo percepire il disagio del figlio, la ritrosia a parlare del matrimonio con Carlotta, che lei in cuor suo doveva considerare un'assurdità, costrinsero Dino Fabbri ad accampare ragioni di lavoro per filarsela al più presto.
Di lavoro invece non se ne parlava.
Il Piovano era in vacanza in Sardegna e ci sarebbe rimasto ancora per un paio di settimane. L'agenzia, in sua assenza, procedeva a basso regime, in attesa delle probabili campagne d'autunno. La segretaria disse a Dino di richiamare e riattaccò; per lui non c'erano messaggi.
In un soprassalto di solitudine ed affanno erotico tentò la carta dell'assistente coreografa. La colse in preparativi per una tournée ad Avignone.
- Partiamo domattina e ho ancora un sacco di cose da fare.
La sua voce sensuale, roca, titillava l'orecchio di Dino, che azzardò il tentativo di invitarla a dormire da lui. Lei rise, tacque per un istante e poi sussurrò: "Non sono sola."
Lui abbozzò. Le augurò buon viaggio. Lei disse "Chiamami quando torno" ma non disse quando sarebbe tornata.
Dino Fabbri si rese conto che non aveva nessun altro cui rivolgersi nella sua città.  Riflettendoci su realizzò che non solo lì non aveva conoscenti e tantomeno amici cui rivolgersi, ma neppure in altri luoghi. La sua rubrica raccoglieva un elenco di nomi tutti da aggiornare, figure che erano comparse e scomparse dalla sua vita con grande rapidità e senza lasciare traccia, e si rese anche conto che il principale responsabile di quell'isolamento, di quella desertificazione, era lui stesso.
Dal momento che, comunque, si trovava in una condizione cui riteneva di essere abituato, non ne fece un dramma.
L'appartamento aveva in dotazione al piano interrato un locale piuttosto vasto, dal quale si accedeva attraverso il garage e cui era attribuita una generica e superflua funzione di lavanderia. Dino Fabbri ci allestì una camera oscura e si accinse, con pacato entusiasmo, a lavorare sul materiale impressionato durante il soggiorno svizzero.
Controllò con scrupolosità la temperatura del bagno di sviluppo dei negativi, li agganciò poi ad asciugare sulle corde da bucato da sempre inutilizzate, circondandosi d'un labirinto ondeggiante. Accarezzava ogni tanto le strisce di negativo lungo la perforazione con la curiosità crescente di vedere che cosa si fosse riportato a casa di quell'esperienza che già appariva così lontana, e vagamente irreale.
Tagliò i negativi, stampò i provini, li controllò sotto la lente e si rese conto che aveva del buon materiale su cui lavorare: una storia che si dipanava grazie a volti ed oggetti, e luoghi che si sarebbero finalmente riproposti per com'erano davvero, svincolati dall'immediatezza fuorviante del loro apparire.
Per due giorni lavorò sulle immagini scattate nel "ripostiglio". Tutto il mondo di casa Lehrmann si andava catalogando in stampe 18x24: abiti, ritagli di giornale, istantanee, dettagli di queste ricavati con un paziente lavoro di lenti addizionali e tubi di prolunga.
Dai gruppi rifotografati affioravano primi piani sgranati e inconsapevoli di sconosciuti, o di Felìx, di Leopòld, di Claire. L'impostazione dei tagli d'inquadratura delimitati dal marginatore sembravano dettarsi a Dino in sequenze di cui lui stesso si meravigliava.
Da quei volti, dalle situazioni, ma anche dagli abiti abbandonati negli armadi, dai cassetti ingombri di cianfrusaglie, si desumeva un inesorabile senso di trascorso, una palpabile atmosfera d'infelicità mascherata. Dino Fabbri non capiva se quella particolare suggestione gli derivasse banalmente dal fatto d'essere al corrente della storia che si celava dietro le immagini o se quelle stesse, davvero, avessero la forza misteriosa di suggerire indizi.
In quei giorni si verificò un soprassalto di torrido caldo estivo. Dino trascorreva la maggior parte del suo tempo nella lavanderia, emergendone con gli occhi strizzati, il passo rigido di un sonnambulo, alla fine di giornate durante le quali non comunicava con nessuno.
Aveva iniziato a stampare le immagini della radura, nel bosco dietro la casa di Theroux.
Alla luce di ciò che vi era accaduto ora il luogo rivelava un che di sinistro, minaccioso.
Carlotta vi offriva il suo profilo pensoso al teleobbiettivo, rivolta verso un punto invisibile, fuori dell'inquadratura. In un'altra immagine teneva il capo leggermente reclinato, con un braccio proteso verso il basso. Attorno a lei la luce era raggelata nella crudezza del temporale appena passato.
Sullo sfondo, si apriva un varco illuminato meno severamente.
Leopòld Theroux, a sua volta seduto sulla panca, rivolgeva al vuoto uno sguardo vitreo, disperato, dietro le spesse lenti da miope. In alcune immagini in totale era una figuretta misera, raccolta su sé stessa, con le mani sul volto, circondata dalla maestosità indifferente dei fusti d'abete.
Un fotogramma sembrava aver preso luce: un alone bianco invadeva per tre quarti l'inquadratura. Dino Fabbri lo esaminò con attenzione, poi si ricordò dei passaggi delle auto sulla strada nascosta sul versante opposto al bosco. Rivisse il momento in cui aveva temuto d'esser scoperto, per via di quel barbaglio di luce che era sventagliato nel mirino, mentre lui inquadrava il dottor Theroux in primissimo piano.
In alcuni fotogrammi successivi il viso del dottore, con la sua espressione di incomprensibile sconforto, era come aureolato da un paio di tondi di luce sfocata: ancora i fari di un'auto che, sbucando da una curva sulla strada del versante opposto, si ritrovavano esattamente in asse con il viso inquadrato in primo piano dal teleobbiettivo di Dino Fabbri.
Osservare Theroux nel luogo dove era stato ammazzato gli fece tornare in mente la cena dell'ultima sera e il famigerato rullino nascosto alla Polizia.
Era alla fine della giornata, esausto, ma ci si sarebbe dedicato lo stesso se non fosse stato richiamato dal trillo insistente del citofono interno.
La voce di Rosa, la donna di servizio, lo sorprese. Non lo aveva mai chiamato, preferendo scendere direttamente e bussare, nelle rare occasioni in cui aveva qualcosa da comunicargli.
-Io vado. Ho finito - disse col suo tono inerte.
- Bene - disse Dino, ansioso di liberarsene - allora a domani.
- Non le ho preparato la cena - disse ancora lei - Ha telefonato un signore che ha detto che la invitava fuori. Ha lasciato il numero per richiamarlo.
Dino si stupì che qualcuno venisse a richiamarlo al mondo.
- Le ha lasciato il  nome ? - chiese, incuriosito.
- Architetto Testoni, ha detto.
- Ah, bene. Grazie Rosa.
- Per quello non le ho preparato la cena. Ho pensato che sarebbe andato fuori. Le farebbe bene. Sta sempre là sotto al buio.
Dino Fabbri si stupì delle parole della donna, che in genere non gli rivolgeva altro che espressioni monosillabiche, o neutre comunicazioni inerenti incombenze casalinghe.
- Ha ragione - rispose ridendo - adesso lo richiamo.

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