venerdì 24 dicembre 2010

WHITTLING - RUDIMENTI D'AMORE IN AUTUNNO





il racconto raccoglie episodi risalenti al 1960, al 1974 e al 1980. 
Iniziato sul "Pendolino" Torino - Roma il 23 gennaio 1996 e finito alle ore 13.00 del 5 febbraio.




RUDIMENTI D'AMORE IN AUTUNNO



Sprofondammo nel sedile scambiandoci sorrisi incerti. Io mi meravigliavo con leggera apprensione del beccheggio sornione dell'auto, lei offriva la timida benevolenza di una piccola padrona di casa.
La DS 19 era di suo papà.
Io non dovevo avere più di dieci anni, e lei forse sette.
Ne ero innamorato. 
Pur restando nebulosamente consapevole che non eravamo che bambini, guardandole quegli occhi celesti sbarrati di meraviglia, quel caschetto di capelli di biondo serico, avevo deciso che avrei atteso di crescere per rintracciarla e sposarla.
Arrivavano dalla Costa d'Avorio. 
Suo padre, uomo seducente, dagli atteggiamenti munifici, aveva sposato a Parigi sua madre, i cui genitori erano originari di Rueglio. 
Vivevano ad Abijan come molti pieds noirs, in quegli anni in cui al colonialismo francese non restavano che esigui spazi di tregua. la Costa d'Avorio doveva essere uno di quelli.
Si chiamava Anita. Aveva una sorellina più piccola, brunetta e scura d'incarnato e d'umore, completamente diversa da lei, che si chiamava Rita.
Anita e Rita Basquin.
Arrivarono a Rueglio in un ottobre piovoso e non si fermarono che qualche giorno.
Com'era abitudine fecero il giro di parenti ed amici.
Noi si era sù per caso. 
Sua madre e la mia si abbracciarono commosse per l'incontro imprevisto, i nostri padri si strinsero la mano con vigorosi sorrisi. Tutt'attorno c'era una confusione di facce, di gesti, d'ombrelli grondanti e panni odoranti di pioggia. 
Lei spuntò da dietro un muro di nonne e di zie, a guardarmi con tutto quell'azzurro d'occhi.
I nostri genitori decisero una piccola gita, forse per sfuggire a tutti i sorrisi e le parole inutili di anziani eccitati. Noi due ci si fronteggiava guardinghi, come animaletti, io folgorato d'amore intensissimo, pauroso perché senza precedenti. Lei non so.
Ci si divise in due auto. Io venni deposto estatico su quel sedile posteriore tra lei e la sorellina. Veleggiammo sull'ovatta delle sospensioni della Citroen per stradine di fango, tra filari d'alberi denudati, poi passeggiammo per viottoli costellati di pozze sottili d'acqua terrosa.
Vennero a prendere un thé a casa nostra ed io per tutto il tempo non feci altro che pensare a lei, senza mai smettere di scrutarla con maldestra dissimulazione.
Nonostante non fosse che una bambina ed io mi ritenessi in confronto a lei un adulto, il suo provenire da un mondo esotico mi costringeva a collocarla in un territorio di fantasie che mi inchiodava ad un'invidia addolorata. 
Temevo di non essere all'altezza, io che appartenevo a quel vecchio mondo fitto di piogge autunnali, coperto da un cielo senza spiragli. 
Mi vergognavo di quella miseria di grigi tutt'attorno, di quella natura addomesticata, ed immaginavo lei nei colori assolati di spiagge, di jungle e savane.
Quel fatto poi che fosse così tranquilla, benevola nel suo posare gli occhi su quello che le stava attorno senza curiosità ma senza sussiego, mi faceva sentire anche peggio, come se nella sua indifferenza non ci fossero varchi per il mio desiderio di accostarla.
Non parlammo mai, ognuno schiavo del proprio idioma, che si opponeva a quello dell'altro con tutta la sua frustrante impenetrabilità.
Iniziai ad attendere con rassegnato sconforto il momento del commiato parecchio tempo prima che questo avvenisse. Preparai minuziosamente e con affanno un modo di dirle arrivederci che fosse memorabile e che poi non riuscii a mettere in atto, forse per un soprassalto di timidezza forse perché travolto dai saluti chiassosi che mi vorticavano attorno, lassù, all'altezza delle teste degli adulti che si accostavano per schiocchi di baci sulle guance ed inviti a rivedersi.
Lei scomparve così com'era apparsa, dietro una cortina di gambe, cappotti, parole straniere. 
Per mesi la pensai. Per mesi sognai di me e lei adulti, nel quadro confuso che avevo del mondo dei grandi. Poi, com'era da prevedersi, vennero altre sorprese, altri affanni a crescere, che accantonarono lei dietro uno spigolo di memoria. Pronta a balzar fuori ma sempre nascosta.
E fu forse nell'inverno che seguì a quell'autunno o forse nel successivo, in quegli stessi posti, su quegli stessi prati fradici dove qua e là allungavano i loro scheletri sghembi noci isolati,  che conobbi quella che chiamerò Elena Pellegrini, anche se quello non era forse il suo nome ma soltanto quello che io ricordo che fosse.
Venne fuori dal salotto degli Oggeri Breda, in Ringhiroglio.
Era lì con suo padre che credo fosse venuto per affari. 
S'accostò a noi: me, Pia, qualcun altro, con la tranquilla certezza che l'avremmo accettata nei giochi.
Parlava con accento toscano, l'auto lussuosa sulla quale era arrivata portava una targa d'altrove.
Non era una vera bellezza: degli occhialetti rotondi, una faccia paffuta, con lunghi capelli d'un biondo tranquillo da collegiale, ma nonostante non avesse che la mia età, con quel suo stare imprevisto tra noi così alieno mi offrì l'occasione di comprendere per la prima volta cosa si potesse intendere per fascino e, con una certa chiarezza, per desiderio carnale.
Nella penombra grigliata dei confessionali fino a quel momento, all'istante cruciale, che si attendeva con palpiti da esaminandi, in cui la voce senza volto affrontava la questione dei pensieri o degli atti impuri, mi ero sempre lasciato cogliere in confusione.
Non cedevo sul fronte intimo della masturbazione, che non confessavo mai, ma ero inadeguato a descrivere i pensieri che l'accompagnavano, soprattutto a quel giudice di cui percepivo solo l'odore di tonaca lisa e vino da Messa al di là della griglia fitta.
Atti impuri.
Di fronte a colei che forse non si chiamava Elena Pellegrini ma che io ricordo con quel nome, capii finalmente come mi sarebbe piaciuto commetterli: alla pari, in un letto come pareva si facesse, comunque sdraiati e abbracciati. Accapigliati, secondo il criterio delle mie maldestre fantasie.
Lei era ovviamente all'oscuro del turbinìo che stava suscitando in me e continuava a dire cose sottovoce, parolette smozzicate con quel linguaggio appropriato che metteva in risalto la rozzezza del nostro.
Tentai qualche gioco di corsa e d'acchiappo per poterla afferrare, strapazzarla e che lei mi dicesse mi arrendo, ma in quell'atmosfera di grigiore, di nebbie che tendevano a noi galoppando su per i prati, tutto restava sospeso, tutto invitava ad attendere che la giornata finisse nel  far nulla, in silenzio.
Così si restò tranquilli, a due passi da un noce, vicino al cancello a parlare forse di scuola. Lei sarebbe risalita sull'auto di lusso che altezzosa luccicava di pioggia a due passi da noi e sarebbe tornata a casa, a dimenticare quel prato fradicio e quei ragazzini così diversi da lei. Quest'idea mi riusciva insopportabile.
Mi ripromisi che un giorno sarei arrivato fino a lei a cavallo, a Siena, ed allora sarebbe stata lei a dovermi guardare con gli occhi che ora avevo io. Si trattava solo di tempo ed ero certo che non ne sarebbe occorso molto. E il cavallo non era un problema.
Quella fantasia mi tranquillizzò e lasciai che calasse la sera senza più l'affanno di prima.
Lei rientrò, dopo un breve commiato a sussurri, ed io poi la pensai molto più a lungo di quanto si potesse supporre.
Con gli anni modificai realisticamente il progetto di rivederla rinunciando all'aspetto equestre. Non smisi però di desiderarla per lungo tempo.
Vennero poi altri casi d'amore altrettanto imprevisti e lei si direbbe sia rimasta nell'ombra fino a queste righe. Riflettendoci però devo ammettere che occhialetti rotondi e capelli di biondo sottile, divisi in due bande a cornice d'un viso paffuto hanno sempre richiamato il mio sguardo, come se mi aspettassi lei, che non ho mai più rivisto.
Anita invece sì, l ‘ho rivista.
Trascorsero otto o nove anni e tornò.
D'estate, per un'intera vacanza.
Lei e Rita, la sorellina che da piccola era un ragnetto insignificante e che ora - avrà avuto quattordici anni -  con occhi d'onice annidati sopra zigomi alti incantava con sguardi obliqui da zingara. Una faccia da avventuriera e un corpo da ragazzo. Muscoli sodi e pochissimo seno. Su tutto, una testa di riccioli stirati.



 



Anita invece era cresciuta più placidamente, anche se molto. S'era fatta possente e materna, più grande dei suoi sedici anni.





Di quella bambina d'autunno non c'era più nulla, neanche un'esile traccia. 
Il sorriso e lo stupore degli occhi era svanito dietro un piccolo corruccio gentile, restava quel colore di cielo d'aprile, ma lontano.
I capelli avevano un taglio militare e parevano essersi fatti crespi. 
Era poi di qualche centimetro più alta di me, con due spalle da nuotatrice e quel fisico maschio che era anche della sorella, con i muscoli vivi, che allora in una donna erano una singolarità. Ma mentre Rita si lasciò subito abbracciare la sera nel buio della loggia, a casa di Pia, ballando i dischi di Pascal Daniel e di Alain Barriere, e si lasciò baciare a lungo già la seconda sera, Anita aveva un piglio più austero. 
Si teneva alla larga da approcci nell'ombra, e badava anche a Rita. Nei suoi sguardi, di giorno, ci leggevo un leggero rimprovero, un monito a non spingermi troppo in là con la sorella, che al contrario pareva disposta a passi rischiosi. 
Che comunque non facemmo, limitandoci ad aggrovigliarci su mucchi di fieno nei campi, rabbrividendo al contatto di parziali nudità e traendo piacere dopo strofinamenti estenuanti.







Allora non ero capace di stare accanto a una femmina. Ci si agguantava la notte col favore del buio, poi di giorno subentrava una timidezza, un distacco sciocco, e ti pareva d'esser respinto quando forse eri tu a tenerti a distanza.
Per questa ragione ricordo quel mattino di domenica.
Io salivo a comprare il giornale a mio padre e Rita scendeva alla piazza. E riuscimmo ad accostarci e a parlare con naturalezza, tra la gente che andava a Messa.
Ricordo quel suono di campane e intorno facce contente.
Il sorriso di lei divenne più franco e io pensai con orgoglio a noi due che formavamo una coppia. Durò lo spazio di quella mattina, poi tornò il non saper essere ancora due per davvero.
Tornò anche l'autunno e partirono.
Rita a Rueglio non venne più. 
L'estate successiva arrivò Anita, da sola. Della sorella disse che era in viaggio.
Si fermò per l'estate, senza saper trovare davvero un'amica tra le ragazze del gruppo e senza arrendersi a nessuno dei corteggiamenti di cui fu bersaglio.
Nuotava con un vigore invidiabile nello specchio d'acqua di Garavot ed era l'unica donna a tuffarsi di testa dalla roccia più alta.
Il fisico le si era fatto ancora più opulento. L'azzurro degli occhi restava esitante.
Una notte che si era festeggiato a casa mia, quando ormai quasi tutti se ne erano andati e lei sedeva in un angolo a sbadigliare, le avevo chiesto sottovoce di restare, incoraggiato da una sbronza leggera.
Aveva risposto di sì con tale naturale prontezza da suscitarmi il dubbio che avesse inteso che le offrivo un letto solo perché la vedevo così stanca. Ma lei aveva capito.
A letto ci si sorrideva un po’ stupiti di noi e di quel che si stava combinando insieme.
Le raccontai di quella volta che m'ero innamorato di lei bambina, tacendole che di allora non le riconoscevo più nulla e che quel nostro stare insieme, anche se gradevolmente intimo, pieno di affetto inatteso, almeno per parte mia non era che curiosità per il suo corpo così generoso di forme.
Lei non aveva nessuna memoria di quel giorno d'autunno, ma si compiacque d'esser stata oggetto d'infantili affanni d'amore.






Il giorno seguente facemmo come se nulla fosse accaduto.
Finì così.
Passò qualche anno e un mattino qualcuno chiamò dalla strada.
Era agosto e l'accento francese del richiamo non poteva sorprendere perché da noi, d'estate, tornano gli emigranti e vanno, instancabili, per case d'amici e parenti a tutte le ore.
Mi affacciai e Anita era là.
Con negli occhi, per un istante, il sorriso che mi aveva incantato bambino.
C'era un uomo con lei. 
Li invitai  in casa e ci furono gli abbracci, l'entusiasmo disordinato di mia madre e la garbata accoglienza di mio padre.
Quell'uomo con lei, che al suo fianco pareva minuto e che parlando si rivelò un poco saccente, era il marito.
S'erano sposati da poco, erano reduci dal viaggio di nozze che avevano fatto in Costa d'Avorio, nella terra d'infanzia di lei. Di laggiù avevano portato per noi un caschetto di banane minute, come non avevo mai viste.
Il padre e la madre erano morti. 
Ci disse di Rita che era infermiera in un ospedale di Caen e non s'era sposata. Ammiccò come a dire: mia sorella si vuol divertire.
Era raggiante. Innamorata di quell'omarino già un po’ stempiato che le riservava attenzioni pedanti.
Al commiato mi strinse la mano con forza e sorrise con un piccolo ammicco esitante, come a dire: ricordo, ma é cosa passata.
Da allora non l’ho più rivista.
Un giorno ho trovato, tra altre di casa, una foto di lei e Rita bambine. Carponi di fronte alla macchina fotografica, che ridono con quell'aria di star per prendere lo slancio e gattonare fino alle braccia del papà e della mamma.
Neppure in quella fotografia c'é il sorriso che mi fece innamorare in quel giorno d'autunno, ma la tengo preziosa lo stesso.






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