mercoledì 8 dicembre 2010

WHITTLING - DUE CANZONI





Il racconto è del 1995.






DUE CANZONI
              


La casa era in via Andrea Verga: un dignitoso falansterio che si sviluppava in una complessa geometria di cortili e scale contrassegnate da sbiadite lettere alfabetiche.
L'edificio, che trasudava ancora qua e là la laboriosa dignità piccolo borghese dei suoi primi inquilini, dopo aver subito nel corso degli anni una declassazione a casa popolare, si vedeva ora offrire l'occasione di ritornare ad un'auge insperata, vuoi per la relativa prossimità al centro, vuoi per la tranquillità del quartiere o per la contiguità di palazzi residenziali.
Tra gli inquilini cominciavano ad alternarsi ad anziani e a nuclei familiari in attesa di traslocare in condomìni di edilizia economica, figure nuove, non immediatamente connotabili. Famiglie inconsuete per assenze od esuberi di questo o quel rappresentante: due madri, nessun padre, figli agglomerati da precedenti unioni naufragate.
E infine - ma soprattutto - figure metropolitane che in quegli anni - la fine dei settanta - assumevano prepotentemente anche da noi, in Italia, il diritto alla ribalta. I soli. Le sole. A volte consociati per mere ragioni funzionali, come la divisione dell'affitto o delle spese, ma ostentatamente vincolati alla propria condizione di - e qui il termine esige mio malgrado di essere utilizzato - singles.
Nella scala dove abitavano Luisa e Paola rappresentavano ormai la maggioranza.
Si salutavano con sorrisi franchi incrociandosi per le scale, con quella fretta coraggiosa di chi veleggia solo, per mari spesso burrascosi ma con la sicurezza di capitanare con sufficiente esperienza. Parevano tutti sempre in preda ad una sorta di pacata ebbrezza.
I compagni e le compagne occasionali scomparivano e ricomparivano con ciclicità rassicuranti. Tranne che da Paola e Luisa.
Paola credo preferisse andare a casa del lui di turno per potersela poi squagliare a suo piacimento e Luisa, allora, pareva vocata ad una solitudine monacale, concentrata con una specie di orientale determinazione solo ed esclusivamente sul suo lavoro di tessitura.
L'avevo conosciuta a Parma, dove allora - era il '79 - tornavo ogni tanto con la nostalgia dei tempi dell'Università.
In quell'occasione avevo convinto un vecchio amico ritrovato da poco, Marco Casalegno, ad accompagnarmi.
Era una giornata di settembre in piazza Garibaldi. Io e lui sedevamo nel dehòr del bar Orologio e Alessandra C. arrivò con quest'amica di Milano. Distratta, assente, gentile ma non disponibile.






Luisa



Con Marco chiacchierava. Io fingevo un disinteresse radicale ma non riuscivo ad impedirmi di osservarla in continuazione. Una faccia rotonda, un minuscolo naso che reggeva un paio di occhialini da miope, mani parlanti che danzavano al rallentatore descrivendo intrecci di stoffe misteriose e percorsi di viaggi guatemaltechi. Naturalmente tutto veniva espresso sottovoce, con distacco.










Ogni tanto rideva. E capii che una delle poche armi a mia disposizione era quella dell’umorismo.
A ripensarci oggi sembra incredibile. Non perché Luisa non meritasse d'essere oggetto d'un innamoramento da adolescenti ma perché fino al momento dell'incontro con lei tutto quello che rappresentava mi aveva sempre trovato indifferente, e mi ritrovò tale quando quella passione sfumò.
Và detto anzi che nulla mi suscitava un insopprimibile desiderio di cambiare argomento quanto il sentir parlare di certa spiritualità esotica, appannaggio di una categoria di viaggiatori piuttosto diffusa all'epoca e a tutt'oggi non estinta. Tutte le ragazze che in quegli anni si mettevano a lavorare al telaio animavano in me un sentimento imbarazzante, simile alla pena. La macrobiotica e tutti i percorsi alimentari alternativi mi azzeravano l'appetito. Ma di fianco a Luisa ascoltai rapito certi resoconti di certi incontri in certi posti sempre dalle parti dello Yucatan o del Kashmir; trascorsi ore a guardar correre la navetta dietro il sipario di fili tesi scoprendo i misteri della cimosa e dell'ordito, ingurgitai riconoscente pappette indecifrabili, torte di pane raffermo, succhi centrifugati di frutta e verdura eccentricamente associati.
Comunque, per tornare a quel giorno del primo incontro, ricordo che Marco ebbe più successo di me. Loro due parlarono a lungo, isolandosi. Io scherzai con Alessandra e con gli altri sperando che Luisa si accorgesse di me.
Le telefonai poi a Milano due giorni dopo. Andai a trovarla.
Marco era da lei. Lui se ne andò ed io rimasi. Lui lasciò il campo in vantaggio, con un'eleganza tenue. Io mi installai con una specie di prepotenza che non é mai stata nel mio carattere. Ospite in quell'appartamento di via Andrea Verga.
Mi dimenticai di Marco, che avevo appena ritrovato dopo anni, e dovetti poi aspettarne altri cinque per incrociarlo di nuovo. 
Mi lanciai con ostinazione cieca alla conquista di Luisa, incurante del mio rapporto con Antì, incurante di tutto, baldanzoso e probabilmente insopportabile.





Antì - Vienna 1976


Antì - Torino - 22 febbraio 1975




Lei mi accolse in casa con una guardinga curiosità divertita, mi lasciò dormire con lei rifiutando però qualsiasi tentativo di avvicinamento. E questo per parecchio tempo.
Al mattino si faceva colazione in cucina, in stoviglie di metallo smaltato con disegnetti floreali, seduti ad un piccolo tavolo quadrato. Tortini, muesli, té cinesi, certi biscotti duri come sassi. E lei mi scrutava con distrazione approfittando del diaframma della sua miopia per rendere indecifrabile il significato dei suoi sguardi.
Io adoravo il suo modo di tenere la tazza: a due mani, con una delicatezza da archeologo, sempre alta di fronte alla bocca per sorseggiare con minuscoli spostamenti delle labbra.




Luisa in via Andrea Verga nel '79


Paola si aggirava intorno a noi frettolosa, disordinata, sempre con quel Nagra a bobine che le serviva per le interviste. Di quali interviste si trattasse non ho mai cercato di sapere; ero così concentrato su Luisa che tutto quello che stava attorno restava sfocato, frammentario, privo d'interesse. Paola ogni tanto faceva colazione con noi, con un po' di preziosa turbolenza, poi spariva senza che io ci facessi caso.
Ora, se il mio racconto proseguisse secondo un criterio consequenziale, dovrei raccontare la mia storia con Luisa ma non é di questo che voglio parlare, quindi dirò soltanto che iniziò qualche tempo dopo, a Parma, un mattino presto, a casa di Alessandra C. Che poi - ai primi di gennaio dell'ottanta - ci trasferimmo, prima io poi lei, a Londra, in quel bell'appartamento di Brompton Square dove la storia finì lasciandomi completamente privo della capacità di reagire.
Lei partì per gli Stati Uniti ed io tornai in Italia.










    In Brompton Square, a Londra, nel 1980.
Caterina, Cristina, Pit e Luisa.
                  

Ci rivedemmo dopo molti mesi ed io cercai quasi con affanno, nonostante i rischi, di riprovare le emozioni disperate di quell'amore finito, senza riuscirci. A cena insieme, uno di fronte all'altra, io cercavo qualcosa di lei per riprovare i miei batticuori e scoprivo invece che quel suo sottovoce mi irritava. I suoi resoconti di viaggio, le novità del suo lavoro, mi annoiavano terribilmente. Capivo che - come dice la canzone - il momento più doloroso della malattia d'amore arriva quando si guarisce.
Per qualche tempo, come spesso accade, andammo ancora a letto insieme, occasionalmente e sempre con soddisfazione e allegria. Poi, come accade sempre, ci perdemmo di vista.



Luisa 1982



E ora torniamo ai tempi di via Andrea Verga. Allora mi capitò di impregnarmi intensamente di tutti gli aspetti, gli umori, i segni di quel luogo, come per un istinto d'archivismo sentimentale. Ricordo la cupezza amazzonica del bagno che loro due avevano dipinto con uno smalto verde scuro direttamente sulle piastrelle; ho presente come se fosse ora la grande camera di Luisa in cui troneggiava totemico il telaio, circondato da una figliolanza di contenitori da cui sporgevano gomitoli, spolette, lane, stoffe e dietro il quale occhieggiava, candido di lini grezzi, il francescano giaciglio a due piazze, in un angolo.
E ricordo bene anche la camera di Paola perché é da lì che venivano i suoni che sono la ragione di queste pagine.
Nella confusione impenetrabile che vi regnava era comunque possibile raggiungere un giradischi e scegliere tra i cari vecchi Lp in vinile che a quell'epoca - e si tratta soltanto del settantanove - non sospettavano che sarebbero stati fulmineamente sostituiti dalle scatolette dei compact disc.
Per me la scelta non era difficile. In quei giorni d'autunno piovoso, aggirandomi per casa mi ero lasciato incantare da due canzoni: una era "Hobo's lullaby" di Arlo Guthrie e l'altra era "Forbidden games" nella versione  cantata da Miriam Makeba.
Arrivavo a Milano in treno, superavo meccanicamente  tre o quattro stazioni di metropolitana, affrontavo un breve tratto a piedi, salivo nell'ascensore impregnato d'un buon odore di cera, entravo in casa sempre un po' emozionato, mi incantavo di fronte a Luisa che era lì, per me, poi entravo in camera di Paola, azionavo il giradischi e toccava ad Arlo Guthrie e alla Makeba di coronare quella completa sensazione di appagamento.
Venne poi la sera in cui Luisa mi disse che si era fatto inaspettatamente vivo un suo vecchio amico, un vecchio amore, che le aveva proposto di cenare insieme.
Disse "Se preferisci che non vada per me é lo stesso, resto qui ", ed io risposi che invece doveva andare, che non c'era nulla di male, e mentre lo  dicevo capivo che la cosa più onesta, anche se fragile, sarebbe stata quella di dire no, rimani. Perché con quella sensibilità sempre un po' tumefatta delle persone innamorate capivo che dietro quell'uscita apparentemente innocua si acquattava la trappola in cui sarebbe precipitata la mia felicità. Come regolarmente accadde.
Così l'attesi immobile, fingendo di dormire, mentre Paola nell'altra stanza parlava interminabilmente al telefono con qualche suo fidanzato e il disco che ripartiva senza tregua sul piatto ad azionamento automatico era "Forbidden games".
Nel periodo che seguì il mio ritorno dall'Inghilterra, nella primavera dell'ottanta, presi saltuariamente a vagabondare da una città all'altra, ospite irrequieto di amici sconcertati, cui non lasciavo il tempo di indagare il mio disincanto ammutolito. Mi facevo vivo soprattutto con vecchie amiche, dal momento che il mio bisogno non era tanto quello di parlare ma piuttosto di potermi stendere in un letto ed annegare temporaneamente in una scopata, allegra o mortificante che fosse, quel mio non essere pronto a soffrire.
Scopavo invece di bere. E una notte, pur sapendo che Luisa era ancora negli Stati Uniti, telefonai da un locale di Parma a quel numero che non facevo da tanto tempo. Rispose Paola, l'unica inquilina rimasta e io dissi " Tra due ore, al massimo tre, sono lì". Lei rispose "Va bene" con voce assonnata, senza chiedere spiegazioni.
Arrivai poco prima dell'alba. Lei venne ad aprire in camicia da notte, ad occhi chiusi; girò su sé stessa come un automa e tornò a letto, scavalcando con l'agilità d'una sonnambula cumuli di vestiti, borse da viaggio, il famigerato Nagra e altro in cui io, ad occhi aperti, inciampai.
Mi stesi accanto a lei con la gola riarsa per tutte le sigarette fumate e dormii forse un paio d'ore. Mi svegliai che la stavo toccando. Uscivo da un sogno e provai un momento di imbarazzo. Lei dormiva e continuai. Si svegliò e scopammo. Una prima volta e immediatamente una seconda. Poi restammo a guardare il soffitto scambiandoci ogni tanto occhiate indecise tra la complicità e l'incertezza.
Lei disse "Non avrei dovuto. Per Luisa...". Io risposi "Che c'entra, mica stiamo più insieme".
Mi alzai,  feci suonare  Hobo's Lullaby e Forbidden Games e non accadde nulla.
Detti un'occhiata alla camera di Luisa, vuota, uscii a fare due passi. Rientrai e trovai un biglietto sulla porta che diceva " Via per un'intervista. Chiavi sotto lo zerbino. Ci rivediamo stasera."
Sul suo tavolo da lavoro c'era un diario e non resistetti alla tentazione di sfogliarlo. Prima di uscire Paola aveva trovato il tempo di scrivere due paginette fitte a proposito delle nostre scopate. Una prosa cruda, eccitante.
Rubai le pagine, le intascai e partii.
Dopo anni trovai, su CD, "Hobo's Lullaby" di Arlo Guthrie e una raccolta di Miriam Makeba in cui c'é una versione dal vivo di "Forbidden Games".
Per un po' di tempo ogni tanto le ho ascoltate sempre cercando di coglierle - di cogliermi - di sorpresa: di offrirmi anche solo un frammento d'emozione di quell'allora di via Andrea Verga. Senza mai riuscirci. Poi c'é stato il problema di fare posto tra i compact che aumentano sempre di più ed ho scoperto un  negozietto dove fanno scambi di usato. La proporzione é rapinosa, del tipo quattro a uno, ma certa musica proprio non l'ascoltavo più e  così mi é parso quasi un affare entrare là dentro con uno zainetto pieno ed uscirne con uno zainetto semivuoto, ma di musica che avevo voglia di avere.
E Arlo Guthrie e Miriam Makeba sono rimasti là, anzi a quest'ora saranno sicuramente già stati rivenduti seguendo un percorso irrintracciabile, come tante piccole cose, quasi tutte le piccole cose che sono la nostra vita.


              











Nessun commento:

Posta un commento