domenica 26 dicembre 2010

WHITTLING - PERLA





"Perla" è stato scritto tra il 12 e il 23 agosto del 1996.




Pit e Fokker, in Cimavilla





PERLA


Io porto un secondo nome che fa sfoggio di sé soltanto nei certificati anagrafici e nei documenti di identità. Questo nome é Edmondo, ed era quello del fratello di mio padre.
In una famiglia come la mia paterna, in cui la rigidezza delle tradizioni si indeboliva raramente, corroborata com'era dalla monotonia del vivere di paese, la presenza di questo nome - Edmondo - che non era appartenuto a nessuno degli avi, suona con eccentricità sospetta.
E' improbabile che la scelta sia stata dettata da una moda del momento, ché i mei nonni paterni erano la quint'essenza del contegno e della decorosa compostezza. Ma essendo Edmondo il nome imposto al secondogenito, dopo che si era provveduto ad esaurire gli obblighi della continuità associando il Battista e il Luigi dei rispettivi genitori affibbiandoli ambedue al primogenito, e cioé mio padre, ho il sospetto che quell'Edmondo - così lontano dai nomi correnti di quell'epoca in quei luoghi - sia stata una scelta precisa, probabilmente contrastata, foriera di diffidenza ma perseguita con moderata oltranza da mia nonna. E ritengo di conoscerne la ragione.
Lei - Isabella detta Lisa - era nata nel 1887, terzultima d'una nidiata di sei, tutti prima o poi emigrati negli Stati Uniti. Figlia di Luigi Auda e della moglie Rosa: un donnino - pare - minuto ma energico, che sopperiva con laboriosa dignità alla pochezza del marito. Questi, arrivato per malasorte ultimo a consumare i beni di famiglia senza lavorare, si ingegnò di salvaguardare la propria posizione di prestigioso nullafacente con vendite di case e terreni fino ad esaurirli e ritrovarsi prigioniero nell'ultimo baluardo: un grosso edificio soleggiato, circondato da un bel giardino, con vialetti delimitati da odorose siepi di bosso, lo sguardo del fronte rivolto ai rilievi della Bella Dormiente.
In località Cimavilla, nella magione degli avi detta in paese la "Cà d'l'avucat", consumò in disparte il proprio immiserimento mentre figlie e figli salpavano alla volta di New York in cerca di fortuna.
Mia nonna Lisa partì nel 1902.
L'avevano preceduta le sorelle Paola e Felìcita e i fratelli Ludovico e Michele, che, nel frattempo, erano riusciti a conquistarsi un frammento di sogno americano.
L'ultimogenita Maddalena, detta Simonina, non partì che anni dopo il ritorno di mia nonna in Italia, emigrando con l'uomo che aveva sposato contro il volere dei genitori.
Comunque, in quel fatidico 1902, Lisa quindicenne venne accolta, protetta, coccolata e nello stesso tempo inserita, con sano pragmatismo acquisito, in quel nuovo mondo.
La sorella Paola, detta chissà perchè Lorenzina, che sopperiva al ruolo di capofamiglia, la collocò nello staff di una piccola catena di drugstores ereditata dal marito. L'altra sorella, Felìcita, detta Teresìn - insistendo con questo vezzo di chiamare le femmine con nomi diversi da quelli anagrafici per ragioni che non saprò mai -  nonostante la corpulenza matronale, l'ombrosità d'un carattere tutto spigoli e già due o tre matrimoni alle spalle, vigilava con i fratelli Michele e Ludovico sui progressi di quell'americanizzazione.
Nonna Lisa era partita da un paesino di poche anime in cui si consumava con disperata dignità il fallimento della sua casata, e si era ritrovata, dopo un incosciente balzo attraverso l'Atlantico, in una città di grattacieli sotto i quali sciamavano milioni di persone.
Aveva imparato l'inglese, seguito un corso per segretarie d'azienda, accingendosi con entusiasmo a diventare definitivamente un'americana.
La tiepida nostalgia di casa si confortava con le occasioni classiche degli emigranti benestanti: le serate a teatro, le gite a Coney Island.
New York nel 1902, per un'adolescente di Vistrorio, Valchiusella, stento ad immaginarla, anche se sarei tentato di farlo all'infinito.
Tra le cose rimaste di quelle che lei portò con sé di laggiù c'é un voluminoso libro illustrato di grattacieli, ingegnosamente ritratti con una tecnica mista di fotografia e disegno ritoccante da una coppia di ebrei, che erano anche editori. Il libro é del 1908 e si intitola "King's dream of New York".
Oggi la maggior parte di quegli esili mastodonti sarà stata sicuramente sacrificata al vezzo disperante degli americani di distruggere le vestigia del passato per far posto alla funzionalità del presente, e cioé ad altri grattacieli. Così quelle foto corrette con ingenui tratti di matita ritraggono fantasmi, e sui marciapiedi, sotto di essi, una folla indistinta: passanti, autobus a cavalli, carrozze, qualche curioso mezzo meccanico. Sono i contemporanei di mia nonna affannati a vivere per le strade di New York: puntolini sfocati, irriconoscibili, tutti defunti da così tanto tempo, tutti così sconosciuti e dimenticati da dubitare che siano mai esistiti. Indimenticabili.
Lei comunque allora, come noi ora, qui, non teneva assolutamente conto di quest'aspetto.
Lorenzina le aveva affidato, col tempo, la responsabilità degli approvvigionamenti di un grande magazzino che trattava tutti i generi commerciali tranne che quelli alimentari. C'era persino un reparto di casse da morto.
Lisa si adattò rapidamente a quel modo di vivere. I suoi ritratti fotografici dello studio di Fred Bach, al 507 dell'Ottava Strada, accendono uno spiraglio di luce sul mistero di quella donna che io ricordo così distaccata ed austera. Il suo sorriso enigmatico ha la mollezza della serenità, i vittoriani abiti intricati di trine e merletti l'avviluppano in un lindore asettico ma non solenne. Sul petto porta appuntato un orologino d'oro cesellato a disegni decò.
Era piuttosto alta per quei tempi e trasformandosi da ragazzina in donna, in quegli anni newyorkesi, si guarnì della carnosità matronale delle bellezze d'allora.
Doveva avere corteggiatori e spasimanti e, dalle poche informazioni velate che si ebbero molti anni dopo in proposito, ce ne dovette essere uno in particolare le cui attenzioni la illanguidirono. Pur con il pudore accanito e autocensorio che tormentava i sentimenti delle persone "per bene" d'allora, la nonna Lisa dovette innamorarsi. E la cosa non passò inosservata.
A Teresìn, che collezionava mariti e probabilmente avventure con una libertà un po’ troppo americana, certo non fu permesso esprimere opinioni, Ludovico e Michele, in quella famiglia in cui vigeva una forma d'autoritarismo matriarcale, probabilmente si astennero da qualsiasi commento, ma Lorenzina, la più anziana, la vedova ad oltranza che aveva avuto a suo tempo il buon senso di sposare un tal Monzo, già vedovo e con prole ma ricco e assestato,  non un dago qualsiasi, si premurò di segnalare con missive transoceaniche ai genitori, il fatto.
Ora era accaduto che l'ultimogenita Simonina, l'unica che ancora era in Italia, si fosse incapricciata d'un giovanotto di belle speranze ma di pochissimi mezzi, garzone presso un ricco mercante di farine, mentre in quel di Cimavilla lo spettro della miseria s'era in quegli anni fatto assillante. Una delle possibilità di allontanarlo sarebbe stata quella di combinare un buon matrimonio ma l'unica disponibile all'uso, Simonina, invece di attrarre le attenzioni compite del giovane erede di quei Formento, mercanti e mugnai, s'era sposata un loro garzone povero in canna.
La notizia era arrivata a Lorenzina e Teresìn.
La prima aveva la responsabilità di una floridissima azienda e quella di crescere le tre femmine e il maschio che era riuscita a scodellare al Monzo prima che questi passasse a miglior vita. Senza contare i figli di lui di primo letto, di cui lei generosamente si occupava come fossero stati suoi.











Il signor Monzo con i quattro rampolli 
avuti dalla sorella di mia nonna.







Teresìn non aveva - e non avrebbe avuto mai - figli, ma vantava troppi divorzi per risultare accettabile nel vecchio mondo, in quel di Vistrorio.







La famigerata zia Teresìn...





...e la sua licenza di broker, 
con il cognome di uno dei tanti mariti...




Lisa, nel frattempo, era giunta sui vent'anni. Parlava con fratelli e sorelle il dialetto di casa con l'accento di Brooklin. Credo intendesse sposarsi con quel tale di cui si sa nulla - neppure se fosse irlandese oppure italiano - e di cui s'era innamorata.
Era placida ed efficiente, rispettosa ed affidabile, dotata d'una bellezza rasserenante.
Intanto dall'Italia cominciarono ad arrivare lettere che agitavano lo spauracchio della rovina definitiva di casa Auda. Forse la necessità di ipotecare anche Cimavilla, rendendo i vecchi genitori ostaggi dei creditori e delle banche.
La madre Rosa s'ammalò e a New York decisero che qualcuno doveva tornare in Italia e vedere come stessero davvero le cose: capire se si potesse porre rimedio ai guai di famiglia. Scelsero Lisa e lei accettò di buon grado, felice dell'opportunità di poter riabbracciare i suoi e rivedere il paese, probabilmente ansiosa di annunciare a voce quel suo progetto d'amore, desiderosa forse, con un po’ di civetteria, di mostrarsi donna, e bella, elegante ed emancipata, a quel mondo che l'aveva guardata partire bambina incerta e spaventata.
Non si sarebbe trattato che di qualche mese, dissero le sorelle. E lei partì.
In realtà fu vittima d'un complotto ma non ebbe modo di rendersene conto che quando ormai era troppo tardi per porvi rimedio. Probabilmente le strapparono un pezzo di cuore ma nessuno ne tenne conto, e lei non disse mai nulla in proposito.
Si imbarcò per l'Italia su un piroscafo da crociera, da un molo poco distante da quello di Ellis Island, al quale era approdata sette anni prima, cercando disperatamente tra la folla in attesa i volti dei fratelli e delle sorelle che erano venuti ad accogliere la"cita".
Immagino che sventolò con timida passione un fazzoletto in direzione di quell'uomo che dalla banchina le rivolgeva ampi gesti di saluto con la paglietta, e sorrisi d'arrivederci. E che non avrebbe più rivisto.
Io ho la certezza che si chiamasse Edmondo. E, se era irlandese, Edmond.
Correva l'anno 1909.
Lisa, dopo il lungo viaggio per nave, poi con il treno che da Genova la condusse a Torino e chissà che altro mezzo per arrivare da Torino a Vistrorio, giunse finalmente a riabbracciare i suoi.
Quale situazione si sia trovata di fronte non ci é dato di sapere, quello che si sa invece é ciò che era stato architettato a sua insaputa.
Un matrimonio.
L'erede della fortunata impresa di commercio farine ed affini dei Formento era un tal Pietro, quello che poi diventò mio nonno.
Sfoggiava un fisico asciutto, un paio di baffi importanti e curatissimi su un viso ossuto e uno sguardo padrone che, occasionalmente, sapeva stemperare in sorrisi di condiscendenza.
Venne in Cimavilla per una visita ufficiale, a conoscere l'"americana". L'impressione che ne ebbe lei possiamo supporre che sia stata di bonaria indifferenza, ma quella di lui coincise con le aspettative delle due famiglie.
Lisa era alta - più di lui - raffinata, e sfoggiava con garbo una distinzione che per un giovanotto di paese doveva rappresentare la quint'essenza del fascino. Così, con discrezione, lui prese a frequentare la "Cà d'l'avucat" con il sollecito benestare di Luigi e di Rosa.
Con quel matrimonio loro avrebbero salvato la casa e la faccia e i Formento avrebbero acquisito, grazie all'imparentamento, l'elevazione data dal nome di una casata secolare, che nobilitasse la loro schiatta di recente ascesa.
Il ritorno in America di Lisa venne rinviato di settimana in settimana. Il corteggiamento di Pietro si fece più assiduo. Che cosa pensasse lei non sappiamo, se scalpitasse, se finalmente si adombrasse d'un sospetto, neppure. Ma venne il giorno che da New York, lungo quel periplo che lei aveva seguito qualche mese prima, giunsero bauli e bagagli in quantità, e contenevano tutte le sue cose.
Ora la forzatura al congedo era esplicita e c'é da rammaricarsi a non sapere come Lisa reagì. Sta di fatto che, dal momento che sono qui a scriverne, é ovvio che accettò quello che si era deciso per lei. Edmondo o Edmond che fosse ricevette forse una lettera d'addio e lei sposò, nel 1910, mio nonno.
Nei tre anni successivi tentò con tutte le sue energie di convincere l'uomo che le avevano dato per marito a lasciare Vistrorio per emigrare a New York, poi tentò con Torino e alla fine si sarebbe accontentata anche di Ivrea, ma lui non si smosse di un centimetro.
Dotato di un'indifferente caparbietà contadina resistette a proteggere i suoi giorni così come li voleva: gli unici che conosceva e gli unici che gli pareva valesse la pena di vivere. Divisi tra il forno e la rimessa dove i garzoni imbiancati di farina caricavano i carri, tra un nitrir di cavalli e un profumo di pane. E poi a curar la vigna, a celebrare i riti dell'autunno, a stillare quel vino che non sapeva invecchiare, a prepararsi al Carnevale fin dai primi giorni di gennaio, studiando mascherate e disegnando costumi, a camminare per le vie del paese incrociando donne che gli baciavano la mano come a un vescovo.
Elisa non amava nulla di tutto questo, ma si adeguò. La delusione non la inasprì, la sospinse soltanto verso una scelta di aristocratico distacco.
Sapeva come si amministrava un'azienda e amministrò quella del marito. Al quarto anno di matrimonio si rassegnò a regalargli il primo figlio - mio padre - e al sesto il secondo: quell'Edmondo - mio zio - di cui già s'é detto.






Il nonno Pietro, la nonna Elisa, 
lo zio Edmondo e mio padre.




Ho sentito raccontare che ogni pomeriggio, all'ora del thé, si avviava per una passeggiata che la conduceva alla casa dei suoi, e che qui, appunto, sorbiva misture che le arrivavano da Londra, in compagnia di chissà quali rimpianti.
Non mi risulta che tra lei e mio nonno ci sia mai stato uno screzio, un abbozzo di insofferenza, un litigio, ma neppure che si siano scambiati gesti d'affetto, di simpatia, di complicità.
Un matrimonio combinato li aveva messi insieme e il quieto ed incomprensibile rispetto che nutrivano per chi aveva deciso delle loro vite cementava miracolosamente la loro estraneità.
La sorella Simonina fece in tempo ad essere madrina di mio padre prima d'imbarcarsi anche lei per l'America, con quel marito povero che s'era scelta nonostante le manovre dei suoi per accasarla strategicamente. Al momento non c'erano stati drammi ma non gliela perdonarono. Alla morte dei genitori per lei nei testamenti non ci furono che briciole e lei, da qualche parte del New Jersey, covò il suo risentimento, appartata per sempre dal resto della famiglia.
Mio padre, che in occasione dei suoi viaggi negli Stati Uniti all'inizio degli anni cinquanta incontrava regolarmente zii, zie e cugini, non mi pare  sia mai riuscito a rivedere la sua madrina.




 


Da sinistra, in piedi, il fratello della nonna Elisa Michele e sua moglie,  poi Lorenzina, vedova Monzo, mio padre e una delle figlie di Lorenzina.
Le altre due sono accucciate ai lati di Eleonor, la figlia di Michele, l'unica che ho conosciuto.
Qui siamo nel '55 o '56 e le tre "cugine" sono le stesse - bambine -  ritratte col padre e il fratellino Louis nella foto già vista, riproposta qui sotto...











Lisa vide partire la sorella e chissà cosa le passò per la testa e nel cuore, unica com'era a sapere quale sogno stesse per raggiungere: quello che a lei avevano strappato con tanta sollecita indifferenza.
Anni dopo tornò il fratello Ludovico, scapolo, devastato da un tumore al cervello, a morire a quarantun'anni nella casa di Cimavilla.



Lo zio Ludovico










E in vecchiaia tornò Teresìn. Sola dopo tutti quei mariti, ridicola nei suoi abiti da roaring twenties che mai aveva abbandonato, prigioniera d'un carattere scabro che la isolava.










Fu l'ultima abitante della "Ca d'l'avucat". La nonna Lisa era morta nel '56, lei morì nel '60.
Dopo di lei la casa, che in realtà da decenni non riceveva che manutenzioni saltuarie, precipitò nell'abbandono.
Il giardino, nel quale io feci in tempo ad aggirarmi incantato con i  miei primi passi sostenuti dal lupo Fokker, s'inselvatichì con un'esuberanza impressionante; le ciclopiche siepi di bosso, nelle quali erano state ricavate delle nicchie in cui il vento scuoteva campanelle appese, finirono col soccombere sotto un viluppo di rovi ed ortiche.







Pit tra i nonni, in giardino, prima della debacle...




...e la mamma (ma fumava già ?)



La casa venne saccheggiata, depredata non con metodo ma con spregio. Poi un giorno mia madre convinse il resto della famiglia a cercare di salvare qualcosa: recuperò credenze, cassettoni e secretaires Impero, alcuni tomi cinquecenteschi del Corpus Iuris Civilis e del Codice Canonico che i miei antenati - chissà quali - avevano stipato in librerie ormai crollate. Trovò qualche vecchia tela annerita con ritratti di prelati, cassepanche e bauli zeppi di vetuste fotografie su cartoncino, corrispondenze indecifrabili. Salvò quello che i ladri non avevano avuto tempo di portar via: un fonografo a tromba con i dischi di Caruso e Mistinguett, un busto di Giulio Cesare.
Io salvai Perla.
Ricordo la trepidazione di quando, bambino, accompagnavo i miei, gli zii e il cugino Giampiero per quei repulisti in Cimavilla.
La casa già mostrava tracce definitive di degrado; s'attraversava ciò che restava del giardino entrando da un cancelletto divelto, poi s'avanzava per un sentiero tra macchie di rovi alte più di un uomo. In casa il silenzio dell'abbandono desolava persino l'emozione di quell'avventura.
Aleggiava nelle stanze un odor di sciroppo e di muffa, di malattia di vecchi. Ogni armadio o baule da aprire inspiegabilmente mi faceva ribrezzo, come se avesse dovuto rivelare chissà che di macabro, e nello stesso tempo mi emozionava. Mi capitava di ripensare a quella zia Teresìn, vista poche volte, nei suoi abiti di raso o velluto moiré lunghi fino a terra, bardata di collane e diademi, che mi scrutava dall'alto con disdegno, attraverso l'occhialino che reggeva per un manico d'avorio con la mano tozza, ingemmata d'anelli vistosi.















Morta lei nella "Cà d'l'avucat" più nessuno aveva messo piede tranne che i ladri, ed ora noi.
Zio Edmondo ci intratteneva leggendo brani delle centinaia di lettere e cartoline che la barbarie dei razziatori aveva sparpagliato su tutti i pavimenti della casa. Trovava aneddoti gustosi, elaborate storpiature grammaticali. A volte inventava, fingendo di scoprire parenti incriminati con Al Capone e imitando nella falsa lettura l'accento buffo di zia Lorenzina e della cugina Eleonore: le uniche parenti d'oltreoceano che si fossero fatte vive in quegli anni a rivedere il paese, in mirabolanti abiti color confetto e incredibili cappellini.
Mia madre rideva fino a sfinirsi di quelle letture a voce alta di zio Edmondo.





Pit, il giorno del battesimo, tra la nonna materna,
madrina, e lo zio Edmondo, padrino. 
Dietro il papà.







Zia Angela - sua moglie -  la teneva d'occhio per individuare cosa potesse avere valore e cosa no in quel guazzabuglio che, per lei, non era che ciarpame da robivecchi.
Se mia madre diceva "Bello questo" s'avvicinava, ne cercava il paio e - se non c'era - ribadiva ansiosa quel meschino " Adesso mettiamo tutto qui da parte e poi si divide."
Mio padre taceva.
Forse era l'unico a dubitare, magari addirittura a sapere, quello che sua madre aveva accettato per sé pur di salvare quella casa e quel decoro che ora, a distanza di non moltissimi anni, crollavano miseramente più per l'ignavia dei sopravvissuti che per l'abbandono in sé.
Lui era sempre stato il preferito della madre, al contrario di Edmondo che, invece, incontrava con la sua ottimistica esuberanza i favori del padre.
Pare che discorressero - madre e figlio - in inglese tra loro, negando comprensibilità a chiunque fosse d'attorno, in un'intimità esclusiva e bonariamente altezzosa.
Alla morte della mamma mio padre era precipitato in una disperazione vitrea, meccanica, preoccupante agli occhi di mia madre che aveva faticato non poco a risollevarlo da quel dolore feroce.
Adesso nella "Cà d'l'avucat", con le falle nel tetto e i muri intrisi di pioggia che ne avrebbe causato il crollo, lui era l'unico a non farsi prendere dalla foga della caccia al tesoro.
Restava seduto sui gradini della scala di pietra che portava al ballatoio, all'esterno, a guardare verso la Bella Dormiente, bilanciando i richiami a gran voce e le nostre risate col suo silenzio.
Fu nell'ultima di quelle ricognizioni che venne fuori Perla.














Mia nonna se l'era portata nel fatidico viaggio di ritorno, accuratamente imballata nella stiva del piroscafo.
Era una statua di gesso liberty alta novanta centimetri: una figura femminile drappeggiata d'un abito osé, forse un'allegorica creatura marina, con un bel viso triste, un po’ infantile, immobile in un gesto curioso, come un incerto passo di danza, appoggiata a piedi nudi su una base che recava appunto la scritta in rilievo bronzato "Perla".















In me bambino suscitò un incanto nonostante fosse mutilata, accantonata in un angolo del solaio, soffocata da un intrico di ragnatele polverose.
Raccolsi lì accanto la testa decapitata, un braccio dalle dita spezzate, altri cocci, e pretesi di portarmela via. I miei accettarono non senza aver tentato di dissuadermi, poi, alla fine, mio padre la caricò nel bagagliaio dell'auto.
Zia Angela le riservò una smorfia schifata, zio Edmondo continuava a sfogliare dagherrotipi che ritraevano persone definitivamente sconosciute e intanto raccontava della volta che Ginger Rogers, di passaggio in Italia, era venuta un giorno a Vistrorio, chissà perché, chissà con chi.
A casa mia madre approssimò un restauro frettoloso e sommario, ingrommando il collo e le braccia di Perla di adesivo bavoso, poi la statua finì in un angolo della mansarda. Giri di collane di bigiotteria coprivano lo scempio di quella ricostruzione. E Perla trascorse appartata altri venticinque anni che, sommati ai cinquanta di Cimavilla, costituivano una lunghissima vita in oblio.
Infine un giorno - pochi anni fa - mi sono fermato per caso di fronte a lei e quel suo sguardo attonito mi ha commosso.
Ho pensato a mia nonna che, a poco più di vent'anni, decideva di portarla con sé in quel lungo viaggio per un ritorno che ancora non sapeva sarebbe stato definitivo. Doveva avere un valore particolare per lei, forse doveva essere un regalo importante che poi non fece mai, chissà.
Sta di fatto che dopo quasi ottant'anni me la sono presa in braccio e l'ho portata in una gipsoteca, dove hanno operato un restauro autentico.
L'hanno tenuta per dei mesi e - a dire il vero - il risultato, soprattutto dal punto di vista cromatico, lascia piuttosto a desiderare, ma lei é di nuovo tutta intera, in piedi in quel suo gesto sospeso, con gli occhi abbassati di timidezza, su un supporto nel mio soggiorno.
Il restauratore mi ha fatto notare un'incisione sulla parte posteriore del basamento che indica un marchio di prestigio; ha detto che é un bel pezzo liberty.
Mentre lo ascoltavo ho pensato a mia zia - se lo sapesse - a mio zio Edmondo che é morto da un pezzo e che era un tipo molto allegro e spregiudicato, forse come quell'altro Edmondo - o Edmond - perduto sulla banchina del porto di New York ad agitare la paglietta in segno d'addio, e ho pensato anche a mia nonna, che con tutta quella dignitosa dissimulazione, centellinata giorno per giorno, si era coltivata il cancro che l'aveva dilaniata per due anni d'agonia. E portandomi via Perla, reggendola in braccio come una bambina, nonostante i suoi ottant'anni, ho pensato a me, che di secondo nome faccio Edmondo.









3 commenti:

  1. Dilma è sempre stato gentile e ci siamo incontrati in simpatico Mai Vistrorio o Rueligo. Mobili voi spero e posso ricollegare le nostre famiglie, malgrado tutta la mia Nono sta facendo. "Alla Morte genitori per lei nia dei testamenti coprire non ci Furono briciole e lei, da QUALCHE Parte del New Jersey, il Covo risentimento Suo, appartata per Semper Dal resto della Famiglia." Le nostre storie con dettagli combinati rendono un romanzo intenso o di un'opera. Siamo abituati a vedere Loretta Costa e Barbara Favero Lovecchio quando siamo in Vistrorio. Barbara ci ha visitato a New York e New Jersey, un certo numero di volte.Dilma has always been gracious and simpatico when ever we met in Vistrorio or Rueligo. I hope that you and I can re-connect our families in spite of all my Nono's doing. "Alla morte dei genitori per lei nei testamenti non ci furono che briciole e lei, da qualche parte del New Jersey, covò il suo risentimento, appartata per sempre dal resto della famiglia." Our stories combined with details make for an intense novel or an opera. We usually see Loretta Favero Costa and Barbara LoVecchio when we are in Vistrorio. Barbara visited us in New York and New Jersey a number of times.

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    1. Si prega di perdonare il mio uso molto molto povera della bellissima lingua italiana.Please forgive my very very poor use of the beautiful Italian Language.

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  2. I have added some photos you may find of interest at my blog:
    http://billpizzaiolo.blogspot.com/2014/01/looking-deeper-into-the-story-from-la.html
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