martedì 21 dicembre 2010

WHITTLING - PIAZZA CASTELLO












PIAZZA CASTELLO
( Sirmione, 15 giugno/ 27 luglio 1996) 

Ci andavo con mia madre. Si partiva il pomeriggio presto, in autunno o in inverno, e si viaggiava sui tram della linea 3 e 16.
Lei era un'appassionata indagatrice di vetrine e sapeva trasmettermi quel suo entusiasmo un po' infantile per esposizioni di oggetti e capi di abbigliamento, anche se ancora non riuscivo a decifrarne la bellezza o l'utilità. Credo di aver appreso confusamente in quei giorni che cosa fosse elegante per quell'epoca, e cosa no, sia che si trattasse di un cappotto, di un abath-jour o di una carta da parati.
Quasi sempre uno degli appuntamenti era il cinema e invariabilmente ci si entrava a spettacolo iniziato. Si passava davanti all'ingresso, ci si lasciava attrarre dai flani e mia madre diceva - Entriamo.
Così ci si avventurava in quel buio odoroso ed io mi aggrappavo a lei guardingo, sempre un poco turbato di invadere quella storia iniziata in cui si rideva, piangeva, sparava e ballava senza una ragione apparente. Poi, rapidamente, sprofondato nella poltroncina, entravo nel gioco, con impavide resistenze, quando necessario, al bisogno di fare pipì.
A parte Disney ero un appassionato di Jerry Lewis.
"Il nipote picchiatello", "Delinquente delicato", "Il marmittone" mi incoraggiavano ad un'allegria ottimistica, ad un'idea che il mondo, da qualche parte, potesse essere davvero così.
L'assenza di pulsioni censorie di mia madre forniva inoltre occasioni per memorie incancellabili per un bambino; così il soldato Robert Lee Prewitt di "Da qui all'eternità", che suonava disperatamente la tromba e poteva farlo, all'occasione, anche con il solo bocchino, mi turbò a lungo per quella sua strana forma di coraggio dolente e caparbio. Sognavo per giorni di appatenere a quella famiglia e a quei luoghi dopo aver visto "Mister Hobbs va in vacanza", meravigliandomi soprattutto che il luonotto posteriore della loro station wagon si potesse abbassare come un finestrino. Mi lasciavo percorrere da veri brividi di paura, liberandomene con la risata un po' affannata del pericolo scampato, vedendo "Crimen", "Gazebo", "Arsenico e vecchi merletti".
Avevo eletto Glenn Ford a beniamino dopo averlo visto in sequenza in "Gazebo", "Cimarron", "Angeli con la pistola" e il mio favorito: "Il granduca e mister Pimm".
All'uscita dal cinema seguiva una merenda con panini dolci da Cotto, in via Roma, oppure un frullato da Angelino che era in una nicchia di via Viotti, quasi all'angolo con la piazza Castello.
C'era in quel posto un profumo dolciastro di tropici che colpiva per essersi acquattato tra le brume gelide della Torino invernale, e c'era un ometto allegro che tra quelle pareti - che mi pare fossero azzurre con motivi di canne di bambù - trafficava con i vortici lattiginosi dei suoi frullatori. Quel profumo di caprifoglio notturno ed i gesti dell'uomo che mi sorrideva proseguivano l'incanto che ancora mi trascinavo dal cinema.
Le sale erano il Lux, il Reposi, l'Ambrosio, ma soprattutto le due che ora ospitano banche: l'Astor e il Corso. D'una sontuosità babilonica, con regali scaloni di marmo sui quali arrancavo in soggezione, preparandomi all'appuntamento con la storia che mi sarebbe stata raccontata e di cui non sapevo assolutamente nulla, se non quello che potevo estemporaneamente immaginare, grazie alla fuggevole occhiata lanciata alle foto esposte nelle bacheche.
Il fatto poi di entrare sempre a proiezione in corso mi semplificava il compito di decifrare, di rivolgere attenzione alla narrazione nel suo complesso. Ogni sequenza viveva di per sé, significandomi qualcosa di indipendente dal resto del film ed incuriosendomi per i suoi elementi di sfondo, le sue comparse, gli elettrodomestici di quelle meravigliose cucine soleggiate dei film con Doris Day e Rock Hudson, con la finestra sopra l'acquaio, o i paesaggi  che avrei voluto fossero del posto dove vivevo di "Brigadoon" o de "La congiura degli innocenti".
La prima volta che riuscii a vedere un film dall'inizio si rivelò una sorpresa irrinunciabile.
Non ero con mia madre ma con il nonno paterno: un uomo imperscrutabile nei confronti del quale nutrivo un'istintiva sfiducia. Eppure quel pomeriggio offrì a me bambino un'occasione assolutamente memorabile. Per una ragione che ancora adesso stento a spiegarmi vedemmo due film, uscendo da un cinema ed entrando in un altro con il tempismo efficiente di un programma che lui doveva aver elaborato controllando l'orario degli spettacoli.
La visione de "Il discepolo del diavolo" e " Gli inesorabili" in un solo pomeriggio mi avviò sulla strada di una cinefilia rispettosa.
Mia madre non riuscì più ad infilarsi in un cinema in qualsiasi momento senza che io opponessi strenue resistenze. Dovette adattarsi ad aspettare l'inizio della proiezione nelle salette d'attesa, sulle poltrone di vellutino ispido, sotto gli stucchi dei soffitti altissimi e nel silenzio premonitore e severo di quella terra di nessuno, al di qua dei pesanti tendoni che ci separavano dal buio e attraverso i quali filtravano a tratti, ovattate, le voci del film: certi attacchi di colonna sonora che mi facevano fremere, e che si mescolavano alle parole che io scambiavo con lei sottovoce, in stato di devota disposizione.
Quando non era cinema era una scorribanda per negozi, alternata a soste ottocentesche nei caffé solcati dalla solerzia fantasmatica di camerieri di mezza età.
Ci depositavano sul tavolino il thé ed il vassoio di pasticcini con un lieve e distaccato mezzo inchino muto.
Mia madre nutriva una vera passione per i negozi di scarpe, quelli di passamanerie, le profumerie e gli antiquari.
Ovunque accettavo le soste con irrequietezza, cercando di convincerla con mugugnetti abbozzati ad abbandonare il campo: cosa che non mi riusciva quasi mai. Ovunque tranne che nei negozi di passamanerie. Lì mi incantavo di fronte a tutta quella varietà di fronzoli, nappine, ghirigori su stoffa, e alla competenza delle commesse, che individuavano proprio ciò che occorreva a colpo sicuro e con gesto coreografico da quel bailamme multicolore, accatastato in ordine carnevalesco sugli scaffali laccati.
Mi invitava al sopore quella luce domestica riflessa negli specchi e nelle vetrinette, quell'odore protettivo di stoffa e filo e altro che sapeva di dimenticato. Tutto così asciutto e benevolo mentre fuori spesso piovigginava, sferragliavano i tram, scendeva l'oscurità.
A parte ciò l'unico mio riferimento elettivo in fatto di botteghe si chiamava Bòrel. Un negozio di giocattoli sotto i portici di piazza Castello.
Vi si accedeva lungo una breve galleria che a destra e sinistra offriva vetrine profonde, in cui erano esposti in composizioni suggestive giocattoli svariati nelle loro proporzioni più vistose: pony a grandezza naturale che portavano in sella orsi di pelouche grandi come cuccioli di grizzly, piste Scaletrix a quattro corsie e altre meraviglie del genere.
Dentro, gli scaffali offrivano un colpo d'occhio più sistematico ma non meno avvincente.
Non avevo passione per i giochi meccanici. Non incontravano le mie simpatie né treni elettrici né scatole di montaggio. Ma mi piacevano le famiglie di porcospini in abiti tirolesi, gli orsi, le scimmie, i cerbiatti di panno Lenci e di pelouche che attendevano d'essere scelti per entrare a far parte della famiglia numerosa e disparata per cui inventavo i miei giochi solitari. A casa, sotto il tavolo della sala da pranzo, protetto dal canneto di gambe di sedia tra le quali mi muovevo carponi, invaso da una torpida serenità prenatale.
Poi c'erano le macchinine. Talmente importanti che ancor oggi mi capita di acquistarne, nuove o sui mercatini, usurate dai giochi perduti di miei sconosciuti coetanei, molti dei quali hanno sicuramente figli che hanno già smesso di giocare pure loro.
La signora Bòrel chiacchierava con mia madre ed io sceglievo con discrezione, dissimulando.
Non mi avventavo sui giocattoli, neppure li toccavo. Cercavo con lo sguardo, individuando quasi immediatamente ciò che desideravo ma scivolando verso altro, in preda allo strano e piacevole disagio del rimando.
Ero anche avveduto dal punto di vista economico. Non capitava mai che scegliessi giocattoli particolarmente costosi. Una volta soltanto dovetti affrontare in proposito una disputa -  da parte mia sussurrata - con mia madre. Sulla scelta di una rivoltella.
Due pistole luccicavano cromate davanti a me. Una aveva la sagoma simile al modello Susanna, con innesti per capsule detonanti nel tamburo; un'arma di metallo pesante e zigrinato. Costava esattamente il doppio del modello che le era accanto. Quest'ultima, dal falso tamburo sagomato dalla pressofusione, faceva fuoriuscire con un meccanismo a molla il contenitore per le capsulette a nastro di carta, il cui botto era irrisorio rispetto a quello delle capsule in metallo e che regolarmente si inceppavano dopo i primi colpi. Ma quel revolver era la riproduzione pressoché fedele della Colt Navy.
Credo che nessuno dei ragazzini della mia età allora sapesse fare una distinzione del genere. Tutti avrebbero optato per il modello Susanna...    








....così come - trattandosi di un fucile - avrebbero scelto il Bengala...







 armi giocattolo dalle sagome fantasiose e lontane da quelle delle armi vere.
Segnalai a mia madre la differenza di prezzo e dissi che avrei scelto due modelli Navy. Lei ripose che era disposta a comprarmi una sola pistola. Tentai di ripetere che quella che desideravo costava la metà di quella che avrei potuto scegliere ma che non intendevo scegliere. Lei troncò la mia laboriosa dimostrazione aritmetica con un aut aut stizzito, come in presenza di un capriccio. Riprese a chiacchierare con la signora Bòrel lasciandomi esterefatto a riflettere sull'enormità di quell'incongruenza.
Restai a lungo, mortificato, ad osservare le due pistole; pensai di punire la distrazione arrogante di lei scegliendo comunque la più cara, ma quell'altra somigliava troppo alle due che Wild Bill Hickock teneva infilate nella cintura con i calci rivolti in avanti nella foto che campeggiava a piena pagina ne "L'epopea del Far West". E scelsi lei. Forte di quella nuova e scoraggiante esperienza riguardo alla debolezza prevaricante degli adulti, che pure ti volevano bene.





A volte in negozio arrivava Chicca, la figlia della signora Bòrel.
Un'adolescente scontrosa e prepotente che agguantava i giocattoli, li strapazzava un poco e li rigettava al loro posto con un'arroganza che mi risultava difficile da capire. Assistevo per la prima volta in vita mia ad un'ostentazione esibizionistica.
Una sera d'autunno venne in negozio con i libri di scuola sotto il braccio, non rispose al saluto della madre, gettò i libri a terra e afferrò uno di quei patetici strumentini musicali a fiato che avevano una tastiera colorata da pianola ed emettevano un bolso suono d'organetto.
Chicca attaccò "Fra Martino campanaro" stonando a tutto spiano e ripetendo il ritornello con accanimento, nonostante gli inviti di sua madre a smettere.
Io la guardavo incantato, ipnotizzato da quella foga incattivita, dall'audacia del suo fare pubblicamente così male una cosa che mi risultava si potesse fare molto bene, e intimamente.
Dopo quindici anni, nell'inverno del '72, la ritrovai a Sauze d'Oulx, in una compagnia di gente che frequentava una discoteca dove mi avevano offerto un temporaneo lavoro di disc-jockey.
Era diventata una donna molto carina, sposata ad un ragazzo ricco e ombroso. Sarebbero stati una bella coppia ma s'imbruttivano di litigi, di scenate pubbliche, di ripicche.
Ogni volta che la guardavo la rivedevo a soffiare rabbiosamente in quella pianola per estrarne, suo malgrado, suoni sgraziati. Mi pareva che ancora non avesse smesso.
Bòrel comunque, quando mia madre accettava di acquistarmi un giocattolo, rappresentava l'ultima tappa del pomeriggio; poi si tornava a casa cullati dal beccheggio malinconico del tram, scendendo nell'aria fredda, dopo lo sbuffo amichevole delle porte automatiche, per quei pochi passi dalla fermata a casa, al rifugio nel quale avrei aperto il mio pacco e quel giocattolo, solo allora, sarebbe stato davvero mio.
Nei lunghi mesi invernali, confortato dai rumori attutiti degli avvenimenti domestici - lo schiudersi della porta del frigo in cucina, il rombo monotono dell'aspirapolvere in una stanza lontana - ninnato da quelle benevole interruzioni di silenzio, soggiacevo a lunghe pause incantate, sognanti, come in attesa di suggerimenti alla mia immaginazione.
Gli interminabili pomeriggi di pioggia si lasciavano a volte scalzare da un giorno di sole che illuminava il freddo rigido sui tetti delle case. Lo sguardo dalle finestre del nostro settimo piano arrivava alle montagne e in quelle giornate il sole tramontava dietro il loro profilo seghettato, che ogni tanto una spazzolata di tramontana rendeva vicino e nitidissimo.
Affacciato a quelle finestre osservavo l'andirivieni dei passanti, lo sferragliare dei tram; giocavo con mia madre ad indovinare il colore dell'auto che sarebbe comparsa per prima dalla quinta dello spigolo del palazzo, poi calava la sera, la strada si illuminava dell'alone giallastro dei lampioni tesi tra una casa e l'altra sopra la via. I passanti acceleravano l'andatura, le luci nelle botteghe - un barbiere, un negozio di scarpe, un corniciaio - parevano rifugi confortanti, ricchi di domestiche rivelazioni.
Mi piaceva essere a casa in quell'ora, soprattutto dopo uno dei nostri pomeriggi in centro.
A volte però i ritorni venivano posticipati a causa degli incontri di mia madre con amiche o conoscenti. Come tutti gli adulti si tratteneva in colloqui che per tutti i bambini sono insignificanti, e come tutti gli adulti risultava impermeabile a qualsiasi sollecitazione che non fosse spettacolare, inspiegabilmente ammaliata da quel cicaleccio i cui argomenti mi sconcertavano per la loro irrilevanza.
In un imbrunito pomeriggio d'inverno postnatalizio una signora, con un ridicolo cappellino di velluto verde oliva ed una pelliccia da esploratore artico, riuscì a trattenere mia madre, sull'angolo tra via Roma e piazza Castello, nella luce mesta dei lampioni sotto i portici, per un tempo intollerabile.
Io stringevo in mano la busta di carta che conteneva un disco a 45 giri di Elvis Presley. "Hound dog" e "Don't be cruel".

 




Ogni tanto, altalenando da un piede all'altro un po' per il freddo e molto per la stizza, estraevo dalla busta la copertina del disco e scrutavo il sorriso abbozzato di Elvis che mi guardava. E ad un certo punto mi lasciai andare ad un vero ammutinamento; non ricordo come ma la signora si congedò frettolosamente, lanciandomi un'occhiata di perplessità astiosa prima di accomiatarsi.
Accade raramente che si possa individuare nella propria memoria il momento preciso - la cesura evidente -  in cui avviene il trapasso che segna il passaggio da un tempo di sé che muore per lasciare il posto ad un'epoca nuova, in cui si é definitivamente diversi senza ancora saperlo, ancora senza nostalgia, impreparati e pronti a tutto. Quel confine sempre sfumato, per me almeno in un'occasione, proprio in riferimento alla piazza Castello, ha il suo momento per definirsi.
Ero sugli undici anni.
In un pomeriggio di settembre Marco Faggino, liceale di primo pelo, annunciò ad un manipolo di ragazzini, ai giardini di piazza Adriano, che il giorno dopo sarebbe andato a "vendere i libri" in piazza Carlo Alberto. La maggior parte restò indifferente all'affermazione ma io me ne incuriosii e Marco mi spiegò che là, proprio dietro  piazza Castello, prima dell'inizio delle scuole, era nata spontaneamente un'iniziativa tra studenti, di compravendita di libri scolastici usati.
Dissi che lo avrei accompagnato, poi trascorsi la serata in camera mia in preda ad un'inspiegabile eccitazione, a selezionare i testi scolastici di cui potevo disfarmi.
Avevo appena terminato la prima media: i libri che avevo a disposizione per la vendita erano davvero pochi, ma non me ne rendevo conto. C'era qualche sillabario e qualche libro di lettura delle elementari, il primo volume del testo di disegno delle Medie in forma di album, probabilmente un rinunciabile testo di Educazione Civica e poco altro.
Stipai il tutto in una cartella e il giorno successivo, dopo esser uscito di casa di soppiatto per non dover giustificare quel trasporto inconsulto per un pomeriggio ai giardini, mi presentai all'appuntamento con Marco.
Salimmo in tram e scendemmo in piazza Castello.
Era la prima volta che ci andava senza mia madre, senza la garanzia del suo rassicurante progetto pomeridiano, ma in veste quasi clandestina, per un ruolo di improvvisato commercio che a casa avrebbero considerato inimmaginabile.
Seguimmo un tratto di portici ed io mi fermai per un momento di fronte alla vetrina di Bòrel.
Tra le altre cose spiccava incantevole una scatola trasparente che conteneva, fissati ad un suolo di cartone con un elastico sottile, soldatini in marcia in fila per due. Non si trattava dei soliti soldatini bellicosi ma dei componenti di una banda musicale.
Erano preceduti da un direttore che impugnava fieramente una lunga mazza e marciavano con passo immobile cui la minuzia della fabbricazione permetteva di suggerire una cadenza. Vestivano la divisa sgargiante delle formazioni americane, in casacca rossa con alamari dorati, braghe bianche con banda laterale, vistoso berretto a visiera. C'erano tutti: la serie degli ottoni in crescendo, i piatti, la grancassa e i tamburi in coda.
Li fissai per un po', compiacendomi della decisione d'aver seguito Marco in quell'avventura. Con i proventi della vendita dei libri mi sarei comprato i soldatini della banda.
In piazza Carlo Alberto trovammo un via vai concitato. Ancora la cosa non si era organizzata come avvenne negli anni successivi: gli incettatori erano praticamente assenti e ognuno agiva per sé, cercando di vendere e comprare in una condizione non calmierata e anarcoide.
Mi guardavo attorno con una meraviglia intimidita. Ero l'unico bambino tra una marea di ragazzi. C'erano soprattutto liceali, studenti delle superiori e qualche universitario, ma assolutamente nessuno della mia età.
Esposi nonostante tutto i miei testi su un bordo di marciapiede, accanto a quelli di Marco. La mia presenza incuriosiva superficialmente ma tutti filavano via dopo uno sguardo ironico ai miei sussidiari.
Dopo un po' superai il disagio di sentirmi fuori posto e mi adattai a studiare le facce ed i gesti di tutti quei giovani che mi vorticavano attorno con un modo di fare che suggeriva agilità, padronanza.
Erano diversi dai loro coetanei che trascorrevano i pomeriggi seduti sulle spalliere delle panchine di piazza Adriano. Erano meno spavaldi ma agivano come dichiarando che non era necessario esserlo.
Sfogliavano, contrattavano, s'ingegnavano di appropriarsi di strumenti di conoscenza al prezzo più conveniente, indifferenti alle orecchie delle copertine, alle eventuali macchie d'inchiostro, alle sottolineature. Capaci di andare oltre. Mi piacevano, anche se mi rendevo conto che non avrei saputo essere come loro.
Non vendetti, naturalmente, neppure un libro.
Tornai a casa con la mia cartella zeppa di testi, che ora avevo preso in uggia, e pensai a lungo con rammarico ai soldatini della banda musicale. Vissi quell'occasione perduta con un curioso affanno, come percependo che con loro sarebbe stato possibile perpetuare gli entusiasmi esclusivi del gioco, che proprio in quell'epoca andavano impercettibilmente svanendo.
Resta però il fatto che quei soldatini non sono mai riuscito ad averli.





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