domenica 12 dicembre 2010

WHITTLING - CIOCORì






Scritto all'inizio del 1995.








CIOCORì


Avevamo costeggiato l'Italia in calcestruzzo sfilando con cautela sul bordo della vasca che la conteneva senza lasciarci distrarre dalla sua miracolosa riduzione in scala. Quel giorno era attenuata anche la nascosta e perenne intenzione di alcuni di noi di finire a mollo per arrivare a toccarla.
Ne eravamo attratti come da un giocattolo nonostante la solerte applicazione della maestra Bajetto che come la chioccia di un film di Walt Disney indicava, con una sottile pertichetta di bambù, i rilievi scabri del cemento e diceva con sussiego "Qui c'é Roma, questi sono gli Appennini e qui ci siamo noi".
Noi.
Che si stava accovacciati  ad incantare lo sguardo su quel noi virtuale che un po' ci confondeva, intenti ad immaginarci infinitesimali come pulci e ancor meno, ingombrati da quei grembiuloni funerei che le mamme ci allacciavano dietro, modeste camiciole di forza, e dai rigidi e vistosi colletti di celluloide più chiavistellati che abbottonati e, ancora, da quei fiocchi blu come cravatte di scapigliati.
Regolarmente qualcuno, attratto da quel sé stesso astratto, metaforico, finiva con almeno un piede in acqua, e credo che fosse questa la ragione per cui le verifiche sul nostro apprendimento riguardo la geografia nazionale venivano attuate solo in primavera inoltrata.
Quel giorno però si sfilò tutti bisbigliando sommessamente, guidati all'esterno della scuola e posizionati come il minuscolo plotone di un piccolo esercito tra i plotoncini delle altre classi schierate, in un silenzio liturgico,  intimoriti dall'attesa dell'evento, muniti di occhiali da saldatore o vetrini affumicati, tutti preoccupati per le assillanti raccomandazioni di maestri e maestre: guai a fissare senza schermarsi gli occhi. La certezza della cecità in caso di disubbidienza era palpabile, dietro quei vetri blu si stava più nascosti che curiosi.
E venne l'eclisse.
Durò il suo tempo prima che ci riconducessero delusi alle aule.
L'unico vantaggio era che quegli occhiali da saldatore si addicevano per  invenzioni interessanti di  giochi d'aviazione e pilotaggio.
In effetti la lunga preparazione cui eravamo stati sottoposti in previsione del fenomeno, ci aveva spinti a credere che avremmo assistito a qualcosa di più drammatico di quel temporaneo oscuramento del sole. Possibilmente qualcosa di rumoroso.
Quindi, già nel tragitto di ritorno in classe, per noi il fatto era ampiamente trascorso, dimenticabile. Era davvero difficile immaginare, allora, che me lo sarei poi ricordato per tutta la vita.
A quell'epoca, verso la metà degli anni cinquanta, in ogni classe della nostra scuola c'era una rappresentanza di bambini della "Benefica". Quello che marciava davanti a me ora, dopo l'eclisse, su per le sale echeggianti, era uno di loro: Moser, taciturno dalle guance rosse. Le mezzelune di metallo infisse ai tacchi dei suoi scarponcini a garantirne un'estenuante durata, l'odore militaresco, rassegnato, del panno severo della sua divisa, mi suscitavano emozioni e curiosità che per intensità mortificavano il fenomeno raro cui avevo appena assistito.
La Benefica era un imponente edificio che occupava quasi un intero isolato e che si affacciava su una piazza, tra via duchessa Jolanda, via Palmieri e via principessa Clotilde, detta da tutti piazza Benefica, a pochi passi dalla nostra scuola.
Quell'edificio oggi é scomparso da moltissimi anni, se sia scomparso con lui anche l'ente assistenziale cui la "Benefica" faceva riferimento non saprei.
Sta di fatto che allora Benefica era la piazza e della Benefica erano alcuni nostri compagni: gli unici - i primi che incontravamo - che si esprimessero in un italiano diverso, connotato da accenti buffi, costellato da ostinazioni dialettali, perlopiù venete, ma anche bergamasche e meridionali. Della Benefica erano pure quelle loro divise soldatesche che facevano di loro dei piccoli uomini coraggiosi e mesti.
Io li amavo.
Di fronte alle loro solitudini, alle loro perenni lontananze da padri e madri e terre, provavo per la prima volta quel curioso sentimento che trasforma la consapevolezza di un privilegio nell'occasione per una mortificazione, nell'opportunità di provare una salutare e imbarazzata vergogna. Con la mia solidarietà non arrivavo comunque a spingermi oltre. Loro erano già uomini, noi bambocci.
Nonostante quell'odore scabro di minestra che impregnava persino i loro berretti a visiera, nonostante le loro orecchie sporche, le mani arrossate e sempre screpolate, nonostante quella loro parsimonia persino nel gioco, come se non si fidassero, come se si aspettassero sempre d'essere agguantati per la collottola dalla mano parziale del fato, per me appartenevano ad una dimessa schiatta d'eroi.
I nostri pantaloncini "all'inglese", i grembiulini, le polo blu con i ridicoli fiocchetti a pon pon in quarta e quinta, le pedule d'inverno e i sandali d'estate e per contro le loro divise grigie, le braghe lunghe, sempre gli stessi scarponcini da fronte bellico, mi facevano ammattire. E così infierivo su Comparato che li temeva e disprezzava da dietro quel suo tirabaci biondo, tenuto da una forcina che la madre gli sistemava ogni mattina, prima di lasciarlo, con un bacetto, sull'ingresso della scuola.
Desideravo calpestare i suoi panini all'olio ripieni di un prosciuttino magro e saporito, desideravo confusamente che un berretto da Davy Crockett come il mio potesse sostituire tutte le loro logore bustine. E volevo che i loro sorrisi saltuari ed approssimativi durassero più a lungo, soprattutto che ci fosse una buona ragione perché durassero. E invece ancora adesso, dopo quasi quarant'anni da allora, quello che resta alla memoria sono le loro facce serie, la loro remissività schiva e un gran pianto, stupefacente per intensità, di Marzanati.
Lui, Moser, Previati, Mantovani e tutti gli altri destinati all' "avviamento", mentre noi si sarebbe passati alla scuola media. Una divisione bella chiara, senza equivoci nella sua parzialità. 













A dieci, undici anni loro affrontavano invariabilmente i tre anni di avviamento professionale che ne avrebbe fatto dei tornitori, dei meccanici, manovali, forse anche cuochi, non so. E non li si incontrava più.
Noi invece, con le nostre cartellette da cui spuntavano righelli rosicchiati, trotterellavamo dall'altra parte della barricata, con pacifiche prospettive studentesche per almeno altri otto anni. Ed é sorprendente come fin da allora, proprio a partire da quella dimensione apparentemente abbozzata, si installassero nella maggior parte di noi quei caratteri che avrebbero poi accompagnato i nostri comportamenti per tutta la vita. Ad eccezione di Francesco Ghiazza io non ho più visto nessuno di loro da decine d'anni.
Di Francesco posso dire qualcosa di più intanto perché allora eravamo amicissimi, io lui e suo fratello Renato, e poi perché mi é capitato di rivederlo anni fa, prima che si trasferisse sulla Costa Azzurra, in quel piccolo hotel dietro Cannes che si era comprato per vivere tranquillo con il suo bellissimo fidanzato francese.
Da bambino era nervoso, con dei tic che gli facevano strizzare gli occhi e scuotere la testa ogni tanto.
Poco prima della sua partenza per la Francia ci siamo casualmente ritrovati.



Una letterina di Francesco...





Lui era diventato un uomo seducente, abbronzato, piacevolmente effeminato e sicuro di sé. Degli anni delle elementari ricordava la maestra Bajetto, un poco il maestro Vignola ma soprattutto Ettore Tobia, che del resto anche per me rappresenta un punto fermo della memoria d'allora.
Ettore era un bambino affascinante, con piccoli occhi vivaci, una musetto da cucciolo di predatore e questo nome formidabile per cui, anche a chiamarlo per cognome, come si usava allora tra noi a scuola, risultava pur sempre un nome: Tobia. Un nome speciale, raro, che non era necessario abbreviare per i nostri richiami come si faceva in genere, per cui io ero Forme, Simoncello Simo, Borghesio Borghe. Lui era Tobia, più che mai.
Disegnava benissimo, con una padronanza di tratto misteriosa, adulta: le figure che tracciava avevano le mani, erano proporzionate, si offrivano di profilo, sapevano suggerire ipotesi o intenzioni di movimento; i colori erano adeguati, disposti senza enfasi, e non debordavano mai dal contorno.
Ricordo con quanta amichevole sufficienza avesse osservato un mio ritratto, il risultato dell'impegno di un intero pomeriggio credo: un Davy Crockett a figura intera, il nostro idolo.
Lui, sorridendo, aveva puntato l'indice sul berretto dicendo "Sembra una padella" e in quel momento, proprio nell'istante in cui lo diceva, io mi rendevo conto che era vero, modificando in una frazione di secondo il mio modo di guardare quel maledetto disegno, come se si fosse trasformato sotto i miei occhi, pur rimanendo lo stesso. Con un sussulto di vergogna assoluta, che mi aveva fatto arrossire fino alla radice dei capelli, avevo ricevuto inconsapevolmente il dono prezioso, essenziale, dell'opportunità di controllare - da allora e per sempre, con fuggevoli eccezioni - senza autoindulgenza ciò che mi pare di dovere, e sapere, esprimere.
Ettore era di origine toscana. Aveva una mamma ed una sorella più grande che lo idolatravano, ma con metodo.  Quando parlavano di lui con altre madri tendevano ad evitare di celebrare i suoi successi, peraltro piuttosto numerosi e in campi svariati, ma si limitavano ad accenni sorridenti, vagamente distratti, come se tutto rientrasse nella norma. Lui le lasciava fare.
Io allora non ero in grado di capire se fosse spinto da una qualche forma di ambizione: mi limitavo ad ammirarlo senza neppure arrivare ad invidiarlo.
Il suo berretto da Davy Crockett era di una lanosa pelliccetta sbiadita eppure mi pareva più bello del mio, che era autentico procione.
Ci contendevamo - o meglio io contendevo a lui, in silenzio e in segreto - Davy Crockett, appunto.
Io avevo letto e riletto la sua storia, avevo molti libri che parlavano delle sue gesta, delle sue avventure, dell'eroica conclusione ad Alamo.
Seguivo sull'atlante l'itinerario dal Tennessee al Texas, individuavo un punto immaginario in cui collocare la Missione e qui rievocavo la battaglia, conoscendone a memoria i numeri, le date, l'eroica  resistenza di Jim Bowie, di Barrett Travis, il tardivo rinforzo di Sam Huston, la carica della vendetta che non ho mai cessato di credere che Huston abbia davvero guidato impugnando, al posto della sciabola, il pugnale di Bowie, ritrovato tra i cadaveri, al grido di " Remember Alamo !"
Tobia credo che, invece, si limitasse a raccogliere informazioni qua e là, su giornali a fumetti.









E venne il giorno che il maestro Vignola - che in altri tempi e luoghi era già stato maestro di mia madre -  fece alla classe una proposta: se ci fossimo comportati bene per tutto l'arco della mattinata alla fine lui avrebbe concesso il racconto di una storia. Come di lì si sia arrivati a Ettore Tobia come narratore fisso e alle avventure di Davy Crockett come argomento a puntate non ricordo, sta di fatto che l'espediente del maestro Vignola si rivelò geniale, producendo con un anticipo ventennale un rudimento di opera seriale e innestando un'aspettativa che ci faceva star buoni per l'intera mattinata.
L'appuntamento con Ettore, che saliva con un piccolo balzo sulla pedana di fianco alla cattedra ad un cenno del maestro e ci intratteneva per un tempo mai lungo a sufficienza per la nostra insaziabile voracità d'ascolto, era divenuto irrinunciabile. Una qualsiasi intemperanza di qualcuno di noi che divenisse causa del castigo per tutti, e cioé della rinuncia forzata al racconto di fine mattina, faceva del poveretto responsabile un paria temporaneo.
Ettore Tobia era diventato una specie di idolo vicario. Confidente privilegiato di quell'altro idolo di cui pareva sapere assolutamente tutto.
Qualcun'altro aveva tentato, all'inizio dell'esperimento, di proporsi come narratore ma Ettore aveva sbaragliato tutti i concorrenti. Lui, con la sua capacità di intrattenere, e Davy Crockett come beniamino della sezione maschile della quinta elementare della scuola Vittorio Alfieri.
Come si sia verificato l'incidente proprio non ricordo.
Io allora ero schiavo di una timidezza viscerale, paralizzante, e mai mi sarei proposto come intrattenitore pubblico, sia pure di fronte a quegli stessi compagni coi quali mi abbandonavo, in privato, a minuziosi resoconti di avventure immaginarie.
C'era in me questa doppia valenza che mi ha accompagnato a lungo, trasparendo a volte ancor oggi seppure in versioni più temperate: una specie di iniziale incapacità di affrontare situazioni nuove, rispetto alle quali la mia ritrosia diventava istinto di fuga, la mia voce cambiava tono e timbro, la possibilità di arrossire senza ragione si trasformava in una eventualità ineluttabile.
 Accadde che Tobia fu per qualche tempo assente e, dopo gli scoordinati tentativi di alcuni sostituti, ci fu qualcuno che ricordò che un grande esperto  di Davy Crockett ero io.
Venni allora spinto a viva forza su quella pedana accanto alla cattedra.
In quei pochi passi che la separavano dal mio banco mi chiesi se era il caso di continuare a mantenere l'incantevole millanteria dei racconti di Ettore, o almeno tentare quella direzione, oppure se fosse il caso di approfittare dell'occasione per raccontare una storia unica, quella vera, mutilata della possibilità di venir replicata in fantasiose puntate.
Insomma mi stavo chiedendo, senza rendermene conto allora, se affiancarmi solidale a quell'epica fumettistica che ci incantava tutti in misura assolutamente proporzionale alla distanza da ogni parvenza di realismo, o se affidarmi alla Storia, a quella che, con ingenuità, pensavo fosse la verità. E in un soprassalto di legittimismo giacobino optai per la seconda.
Fu un fiasco colossale.
I visi di Moscardo, Vaschetti, Cumella manifestavano eloquentemente la loro delusione passando da un'iniziale semisorridente fase d'attesa ad una stupefatta delusione per approdare ad una distrazione definitiva, sommessamente rumoreggiante.
In effetti, invece di intrattenerli, stavo tenendo loro una specie di lezione e lo stavo facendo male, preoccupandomi di ricordare le date e i dati, costellando la mia esposizione di pause, tentennamenti, incertezze.
Nel deluderli provvisoriamente stavo rischiando di deludere me stesso definitivamente.
Il maestro Vignola, assorto nella lettura del giornale, alzava ogni tanto gli occhi a sedare i mormorii di disapprovazione senza chiedersene la ragione. Il chiacchiericcio del narratore era per lui nient'altro che suono infantile: un'occasione di leggersi in pace il quotidiano. E quest'altra scoperta si sommò al mio sgomento.
Adulti che simulavano interesse nei confronti dei bambini mantenendosi in realtà a distanze siderali da loro bisognoso balbettìo. Credo sia iniziato allora uno dei miei sogni ricorrenti dell'infanzia in cui, ritrovandomi in una situazione di difficoltà, non ricevevo aiuto dagli adulti che avevo intorno. Adulti di cui, allo stato di veglia, avevo imparato a riconoscere, dietro la facciata sorridente, la radicale indifferenza che nutrivano per me - adulto da venire - e che nel sogno mi osservavano con lo stesso sorriso di sempre, FINGENDO di non accorgersi del pericolo che correvo.
La campana di fine mattinata suonò come una grazia; guadagnai il mio banco con passo incerto, infilai le matite nelle fibbie elastiche del portapenne, riposi cannuccia e pennini, chiusi la cartella e mi allineai diligentemente in fila per due nel corridoio, accingendomi a marciare fino all'uscita.
Dietro di me D'Aprile, che era un poco balbuziente, si sporse sulla mia spalla.
- Fo...Fo...Forme, te non ne sai un tu...tu..tubo di De...De...Devi Crochet... - mormorò in uno sghignazzo sommesso.
Io non trovai, nell'enormità dell'equivoco, parole con cui controbattere.
In fila accanto a me avevo Edimond, misteriosissimo compagno di cui conoscevo solo i silenzi e gli sguardi neutri.
Sedeva in un banco diametralmente opposto al mio e già questo lo metteva nella posizione di uno che abiti in un altro quartiere, si aggiunga che di lui non si sapeva nulla perché di nulla ci si interessava a suo riguardo.
Era in grado di tenere la posizione braccia conserte - passione ordinatrice del maestro Vignola - con un'imperturbabile continuità zen, i pon pon del suo fiocco ricadevano sempre in un'immobilità plumbea. Forse Edimond, a ripensarci adesso, aveva già saldato qualche conto di considerevole entità col mondo degli adulti, e la sua timidezza altro non era che tattica precoce. Non lo saprò mai.
Quello che so é che quella mattina, in allineamento in attesa di avviarci all'uscita, si infilò una mano nella tasca del montgomery, ne estrasse una tavoletta e prese a scartocciarla senza abbassare lo sguardo, che teneva fisso sulla nuca del compagno davanti.
Gesto, il suo, estremamente trasgressivo innanzitutto perché quando si stava in fila bisognava stare in fila e null'altro, ma anche perché lui ora addirittura si apprestava a mangiare, contravvenendo ad una raccomandazione materna basilare quanto incomprensibile, e cioé quella del non "rovinarsi l'appetito " sgranocchiando qualsivoglia alimento dopo il canonico spuntino di mezza mattina.
Edimond aveva liberato la tavoletta dalla stagnola e, sempre fissando la nuca di Biselli, la sporgeva con gesto impercettibile nella mia direzione chiedendo con un filo di voce " Vuoi ?".
Se mi avesse offerto una sigaretta  la mia meraviglia non sarebbe stata maggiore. Assaporai quel boccone di cioccolato e riso soffiato scoprendovi un sapore che non ho ritrovato mai più.
D'Aprile si sporse in avanti.
- E...E...Edi, pa...pa...passa un pezzo, dai !
Edimond foraggiò anche D'Aprile, che non doveva essergli simpatico ma che, di fronte ad un rifiuto, lo avrebbe immancabilmente "consegnato".
Il maestro Vignola attaccò con il suo  "Unò, dué ! unò, dué ! " e noi ci si avviò a passi cadenzati verso l'uscita, in pieno assetto di riconciliazione grazie a quel sapore d'ambrosia che si scioglieva contro il palato: un centimetro quadrato di Ciocorì.








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