domenica 19 dicembre 2010

WHITTLING - DOMENICHE





WHITTLING
Introduzione
 (9 gennaio 1996)

Benché la vita sia continua e ininterrotta io la conosco solo a frammenti discontinui, e la vita della gente che mi circonda mi é nota in maniera ancora più frammentaria, in briciole, frustoli, brandelli.
Le biografie, la Storia, le arti, la letteratura sono, ancor più dell'autobiografia, pezzetti sparsi che, accostati, danno l'illusione della completezza: ne consegue che noi conosciamo le cose solo a brandelli.

                                                   "Prateria"
                                             William Least Heat Moon





...Aveva cominciato a pensare che il tempo passa solo quando uno é distratto...che avanza a balzi, insinuandosi, quando uno é distratto.

                                                            "I quasi adatti"
                      
    Peter Hoeg 
                                  



Di gente al mondo ce n'é come di stelle in cielo; ma é così breve la vita, così presto gli uomini crescono, si fanno adulti e muoiono, così poco si conoscono l'un l'altro e così presto dimenticano tutto quello che hanno visto e vissuto, che c'é da diventar matti a pensarci come si deve !
                                                                  
                                                                   "Campagna"
                                                                    
Ivan Bunin


I ricordi non si possono governare. Si annidano fino a un preciso momento, vivendo alla rinfusa, ammucchiati, e all’improvviso ci crollano addosso al di fuori di qualsiasi logica e di qualsiasi legame con ciò che in quel momento ci sta intorno.

“Il quinto angolo”
Izrail’ Metter









DOMENICHE















A ripensarci ora é difficile dire se sia stato per una stagione o per un anno o forse più.
La sensazione é quella che siano durate a lungo, per tutto il tempo di mezzo tra la fine dell'infanzia - diciamo a partire dagli undici anni - e le avvisaglie dell'adolescenza, approssimativamente prima dei quattordici, quindici.
Le domeniche in città.
Solitarie, in stagioni diverse, sempre intermedie, sempre irrimediabili.
Le ragioni di queste solitudini sono irricostruibili.
Dopo - a partire pressappoco dai quindici anni - il mondo mi riconquistò, assorbendomi in un branco scomposto di amici e compagni di scuola, allora le domeniche tornarono ad affollarsi d'eventi da inseguire in motorino con smaniose accelerate gementi che puzzavano di olio di ricino.
Ma cosa sia accaduto prima, per quali motivi improvvisamente ad un certo punto io mi sia ritrovato solo, senza amici in un tempo in cui é difficile immaginarsene privo, non so.
Risulta un periodo vago, memorabile per certi dettagli limpidissimi e sfuggente nei suoi confini.  Facevano eccezione le lunghe parentesi estive, durante le quali raccoglievo un'abbondante provvista di giochi, acerbi innamoramenti e titubanti approcci alle sensazioni e alle emozioni del mondo adulto. Per il resto dell'anno ero come mutilato, abbandonato.
Una probabile ragione  é che in quel tempo associavo ad una timidezza patologica una completa incapacità organizzativa.  Credo di poter ritenere che allora non mi rendevo conto della possibilità di conservare quelle amicizie una volta tornato in città. Le relegavo nel luogo dov'erano sbocciate, immalinconendole con le prime allarmanti nostalgie ed affrontando l'autunno, l'inverno e la primavera da solo, confortato esclusivamente da qualche intensissimo rapporto epistolare. Scrivevo lettere in cui fantasticare su di me, regalando menzogne suggestive riguardo alla mia vita a qualche amico od amica generosi nell'ascolto.
La scuola non forniva aiuti ma traumi.
Il passaggio alla medie era coinciso con una diaspora che aveva polverizzato il cameratismo fragile, nato in cinque anni sui banchi di legno a due posti, quelli con il buco per il calamaio ed i cigolanti sediletti ribaltabili.
Seduto nel mio nuovo banco singolo, dalla struttura metallica e con il ripiano rivestito di misera fòrmica verdolina, mi ero guardato attorno - il primo giorno nella nuova scuola - annientato dall'indifferenza di quei ragazzi che parevano tutti più anziani di me.
Nell'intervallo, nei corridoi affollati, avevo incrociato qualche vecchio - vecchio ? - compagno dell'Alfieri, ma in quella confusione, in quella incapacità di capacitarsi, mi erano mancate le parole, le ispirazioni per un tentativo di ricucire lo strappo.
Così era passato un anno, tutto dimenticato tranne che per alcune delle sue domeniche.
L'anno successivo, con un nuovo cambio di sezione ed una nuova infornata di facce sconosciute nei banchi intorno a me, sempre più sottili nell'agilità dello scherno e selvagge nella volontà di prevaricare, era decollata anche la mia cocciuta incapacità allo studio e all'apprendimento.
Mia madre, di fronte all'uragano di insufficienze che aggredivano la mia inebetita indifferenza, optò per la soluzione consigliata da un'amica, madre di quattro figli tutti piuttosto somari e tutti più o meno salvaguardati dal rigore indulgente che i Padri Rosminiani applicavano al loro metodo d'insegnamento.
A metà dell'anno scolastico, in seconda media, escogitando fandonie in Provveditorato, era riuscita a trascinarmi via dal propedeutico bailamme della scuola pubblica per collocarmi nel porto sicuro della seconda B, al Rosmini.
Lì il mio latino lievitò inaspettatamente dal quattro al sei ed altrettanto, se non di più, fecero l'italiano, la storia, le scienze.
I miei nuovi compagni erano tranquilli, e anche se molti di loro parevano ancora più anziani di me, alcuni dimostravano invece la mia età, vale a dire qualche anno di meno di quelli che avevano in realtà.
Nella scuola pubblica quasi tutti i compagni erano pronti alla vita: ripetenti incalliti o piccoli geni del calcolo e della traduzione latina vestiti con gli abiti smessi dei fratelli maggiori, famelici di tutto, spudorati, con ombre di peluria sul labbro superiore che li collocavano automaticamente in segmenti di pubertà frettolosa, incontinente. Al Rosmini erano invece tranquilli, curiosi al più di quelle rivistine che ci si passava sotto il banco con emozionati sotterfugi: "Mascotte", con attricette in costumi succinti, o più raramente giornaletti d'importazione svedese, con nudi integrali da batticuore.
Vestivano appropriatamente, si incolonnavano  in silenzio ed in fila per l'uscita, non brillavano per intuizione o dedizione allo studio ma nemmeno s'ingaglioffivano nell'abitudine provocatoria all'impreparazione. Appartenevano a famiglie di professionisti, commercianti, benestanti di tutte le categorie, aristocratici compresi, rappresentati in numero di due o tre per sezione, dalla prima elementare alla terza liceo. Perché al Rosmini allora liceo voleva dire liceo classico.
Il giorno del mio trasferimento dalla Pascoli - avventuroso come una fuga - venni introdotto nell'ufficio del preside dopo una breve attesa, durante la quale mi incantai ad osservare il tabellone degli orari delle lezioni per le varie sezioni: un diagramma a lettere e numeri mobili multicolori seducente come un gioco.








Padre Remo Besséro Belti ricevette me e mia madre con una cortesia ottocentesca ed una benevolenza assolutamente rassicurante.
Disse "Buongiorno Pier Maria, benearrivato" ed io lo fissai stralunato.
Non ero mai stato chiamato con il mio nome da nessuno fino a quel momento. In famiglia e tra gli amici ero passato da un nomignolo all'altro fino al Pit definitivo.  Nelle scuole precedenti quel Maria doveva essere parso ai miei insegnanti un vezzo discutibile e quindi regolarmente - con mio indicibile sollievo - cassato.
A partire dalla prima elementare ero stato costretto ad imparare a scrivere che mi chiamavo Piero, che non solo era uno menzogna ma anche, tra tutti i nomi propri a disposizione, quello che mi piaceva meno. E all'apprendimento di questo falso ero stato forzato con l'ulteriore e stupida mortificazione dell'uso della mano destra, perché per qualche misteriosa ragione i mancini come me  venivano a quell'epoca corretti, "curati" come malati.
Così, per un periplo che ha attraversato elementari medie e liceo, ad ogni intestazione di quaderno, di protocollo di compito in classe, di sottoscrizione di partecipazione alle gare regionali di sci o altro, io ho scritto con la mano senza istinto, quella addomesticata, che non saprebbe mai essere il primo pugno, un nome falso e non scelto al posto di quello vero, che comunque  avrebbe implicato l'imbarazzo di un'illegittima altisonanza.
E ora in quello studio in cui fluttuava discreto un aroma di buona colonia maschile, una vaghezza d'incenso e cera e  qualcos'altro che poteva essere un odore di legno e di libri, all'improvviso diventavo quello che ero davvero, almeno anagraficamente, vale a dire Pier Maria.
Sapevo per esperienza che non appena l'identità celata fosse affiorata ci sarebbe stato qualcuno pronto al dileggio del "Maria! Maria!", al quale un tal Beréra una volta, durante un intervallo di doposcuola, aveva aggiunto l'incongruo e indimenticabile "La vacca di mia zia !", ma a sentirlo così, sulle labbra sottili di quell'uomo rinfrancante, bonario ed inarrivabile, mi parve per un attimo la via più semplice e ragionevole per la riconquista della mia identità. Nonostante ciò tornai poi ad essere per comoda vigliaccheria uno scolastico Piero.
Mia madre intanto stava di nuovo mentendo sulle ragioni di quel trasferimento, adducendo come sempre motivi di incomprensione tra me e insegnanti ottusamente intransigenti. Padre Remo Besséro Belti riascoltava con sorriso episcopale tutta la manfrina ed io  incantavo gli occhi sul ripiano di un tavolinetto a muro di fronte a me.
Disposti in ordine semicircolare, a richiamare il posizionamento di un coro, una mezza dozzina di chierichetti in ceramica stavano lì, a boccuccia spalancata, alti una spanna, con le tuniche rosse e le sopravesti bianche con i bordi di pizzo, immobili, luminosi di riflessi tranquilli: statuine delicate che offrivano un accenno di infantile allegria all'austerità dello studio.
In quel momento non desideravo tanto possederli quanto essere uno di loro, per sempre.
Padre Besséro Belti ci congedò e un nuovo limbo mi assorbì in quotidiani rituali scolastici, senza più apprensione. Tutto ricominciò a fluire indistinto, i giorni a sommarsi ai giorni, giochi svogliati e solitari a contraddistinguere quel passaggio in cui in un'età già ingrata di per sé ti accorgi che non sai più giocare, che far correre quell'automobilina o manovrare quel soldatino non ti porta più via, in un mondo a parte, ma ti lascia lì a compiere il gesto meccanicamente, senza incanti.
Questo passaggio il caso ha voluto che io lo affrontassi da solo.
Forse condividendolo si sarebbe stemperato facilmente nel nuovo, essere ragazzino con la voce che cambia e la timidezza palpitante che guida gli approcci maldestri col mondo si sarebbe rivelato laborioso ma naturale, brevemente transitorio.
Ma da soli, senza mai ridere o sguaiare con gente come te, nuova al mondo, era più difficile.







Venivano così le domeniche ed io me ne andavo per la città - in realtà aggirandomi sempre più o meno nello stesso quartiere - compiacendomi di quelle solitudini e nello stesso tempo angustiandomene.
Mi attraevano le vie tranquille, residenziali, praticamente prive di negozi, che si intersecavano nella vasta area intorno a piazza Bernini.
La domenica, di prima mattina, in quelle vie regnava un silenzio come di città abbandonata, il lontano sferragliare di un tram in via Cibrario o in corso Francia era un suono di congedo, per il resto ogni tanto una figura sbucava da un portone per portare il cane a pisciare o per andare a comprare il giornale.
Era un quartiere borghese. Le case quasi tutte d'una sussiegosa architettura umbertina, esprimevano la quintessenza della discrezione. Nulla si intuiva o si intravedeva dietro quelle alte finestre velate di tendine e tutto quindi si poteva supporre. Io in genere immaginavo abbandoni d'anticaglie, tepori di penombra, sopori di mezza età.
In una di quegli appartamenti, in via Morghen, ero stato accolto appena due anni prima per ricevere ripetizioni in vista dell'esame di quinta elementare. Il maestro Franzosi, un uomo alto, pelato, imperscrutabile, mi aveva addestrato per un mesetto al primo confronto ufficiale della mia vita.
Io sedevo nella semioscurità, senza arrivare con i piedi a toccar terra, ad un tavolo dalle gambe a torciglione, in una sala da pranzo stretta tra l'imponenza del buffet e del controbuffet.
Il maestro era più severo di quello al quale ero abituato, la sua richiesta di attenzione e di rapidità reattiva era estenuante, eppure io riuscivo a distrarmi su certe conchiglie che stavano sul piano del buffet e su fotografie incorniciate che ritraevano soldati in divise di guerre coloniali.
Luigi Franzosi era stato prigioniero in un campo di concentramento e da lui appresi che quando si viene liberati non bisogna assolutamente ingozzarsi di cibo fino alla sazietà, ma riabituare il proprio stomaco con lentezza esasperante, con un titanico sforzo di volontà.
Quelli che appena fuori si erano gettati su animali, macellandoli sommariamente e divorandone le carni, erano tutti morti: li aveva visti lui.
Lui che invece si era accontentato all'inizio di pochi bocconi cauti, e si era ripreso.
Io non facevo che figurarmi quei suoi compagni di prigionia che inseguivano mucche nei campi e ne tagliavano via fette di carne, azzannandole, mentre gli animali mutilati fuggivano muggendo di terrore e dolore.
A distanza di due anni, durante le solitarie domeniche, passavo ogni tanto anche in via Morghen.







Spiavo, dissimulando, le finestre del maestro e filavo via nel timore di incrociarlo. Non avrei saputo che dire. Mi sentivo molto più grande di quando, seduto accanto a lui, ripetevo con cadenza da filastrocca la tavola pitagorica, ma non sufficientemente grande per capire che cosa mi stesse succedendo.
Seguivo itinerari ellittici, incalzato da un'urgenza inerte di macinare terreno, di lasciarmi alle spalle strade sulle quali finivo di ricapitare poche ore dopo.
Impiegavo parte del mattino - fino al mezzogiorno - e poi il primo pomeriggio a seguire i miei passi attratto dalla solitudine dei luoghi ed allontanandomene quando anche minimamente si animavano.
Sfilavo davanti alla piscina di piazza Bernini, dagli ingressi sprangati, ricordando le prime lezioni di nuoto, gli echi paurosi degli ordini dell'istruttore, quella luce bianca riflessa sull'acqua in cui io e Francesco Ghiazza avevamo il terrore d'entrare, le nostre madri lassù, su una balconata divisa dalla piscina da un cristallo che le faceva apparire ancora più lontane.
Stavamo a tremare di sconforto sui bordi gelidi, in attesa di doverci scaraventare in acqua aggrappati a preoccupanti tavolette di sughero, storditi dagli echi dei tonfi, da quell'odore acre di cloro e nudità pallide, traditi dai gesti dubbiosi d'incoraggiamento di quelle mamme mute oltre il vetro.
Ma oltre piazza Bernini incamminarsi per corso Francia conduceva ad un piccolo conforto, che si offriva su un angolo a rientrare: una specie di vetrina profonda non più di una trentina di centimetri.
Isolata, non attribuibile ad alcuno dei negozi lì attorno  per via delle saracinesche abbassate, conteneva cinque o sei ripiani sui quali erano esposte automobiline appoggiate sulle loro scatole: per la maggior parte Matchbox, by Lesney, Mercury e Politoys. Dal mio punto di vista sottomarche.
In un negozio non avrei dedicato loro neppure un'occhiata, rivolgendomi immancabilmente ed esclusivamente a Dinky e Corgi Toys, ma su quel muro, la domenica alle due del pomeriggio, di fronte a quella macchia colorata di giocattoli che mi si annunciava di lontano, spiccando nel grigio uniforme delle case intorno - solo là - mi parevano desiderabili, e non me ne capacitavo.
Mi soffermavo per un po’ a spiare oltre la griglia a maglie romboidali che difendeva il vetro, mi assicuravo che fossero davvero quelle stesse che poi altrove mi lasciavano indifferente; mi parevano diverse.
Allontanandomi di qualche passo abbracciavo la vetrina con uno sguardo d'insieme. Loro stavano allineate, offerte solo ai miei occhi, misteriose per l'assenza di elementi che ne indicassero l'appartenenza. Sole come me in una città dove in quel momento tutti parevano essere altrove. Era inspiegabile e un po’ triste, ma bellissimo.
Interrompevo quelle peregrinazioni e tornavo poi verso casa con la sensazione di aver adempiuto ad un dovere, di aver fatto la mia parte. La solitudine dei luoghi e la mia messe in parallelo, coniugate con un impegno artigiano, e con una certa competenza.
I pensieri che accompagnavano i passi erano senz'altro poveri: piccoli progetti immaginari, lievi apprensioni scolastiche e sotto, sempre compresso da volontarie distrazioni e sempre affiorante come un'implorazione, il desiderio, il bisogno di essere con qualcuno.
Il ritorno a casa era schivo, rasente le case. Mi sentivo come se mi si potesse leggere addosso quella mia solitudine e non volevo.
Incrociavo sguardi che sospettavo nascondessero dietro l'indifferenza un sapere qualcosa di me: leggessero sulla mia faccia stanca di camminatore da dove davvero arrivassi, anche se cercavo di darmi il passo di chi ha trascorso la domenica tra amici.
Evitavo l'ingresso principale svoltando per la discesa dei garage.
Su quell'angolo, anni prima, tornando da un giro di spesa in panetteria, avevo imparato a fischiare.
Proprio sulla curva a spigolo prima di posare il passo giù dal marciapiede, con la bocca a fessura per un mio sbilenco zufolare a soffi, la lingua s'era incurvata contro i denti di sotto e ne era scaturito quel sibilo acuto. Ricordo la gioia eccitata di quella rivelazione, lo stupore che me ne venne, e le prove e riprove che feci per giorni, nel timore di dimenticare come si dovesse atteggiare la bocca. Ma alla fine sapevo lanciare un richiamo che era anche più pronto di quelli che altri potevano fare con le dita contro la lingua rovesciata.
Nei ritorni domenicali, però, il ricordo di quella mattina in cui avevo imparato a fischiare non veniva.
Scendevo di slancio la rampa poi affrontavo a tre a tre i gradini della scaletta di servizio e affioravo quasi di fronte alla scala B, sperando di non dover condividere in silenzi imbarazzati la salita in ascensore. Arrivavo alla porta ed aprivo col fragile orgoglio di aver già le mie chiavi di casa.
Mio padre e mia madre non chiedevano nulla; spesso riuscivo a sgusciare in camera mia senza neppure incrociarli. Sentivo le loro voci in altre stanze e mi rincuorava il tono domestico delle loro parole.
Prima di cena preparavo i libri per il giorno dopo ascoltando i dischi e mimando i musicisti.
Ero il capo del complesso: mi bastava un'occhiata nello specchio rotondo, svedese, che era sopra il letto e già mi vedevo sul palco, con la folla in delirio sotto di me.


 seconda fila, seduto, con frangetta



Cambiavo i dischi e fingevo di suonare davanti allo specchio finché arrivava il richiamo per cena.
Qualche volta mia madre mi sorprendeva in quell'atteggiamento di muta sciempiaggine imitativa.
Faceva finta di nulla ma io ci rimanevo male.
Mi facevo rabbia ma poi, come a voler negare che fosse una cosa sciocca, riprendevo a dimenarmi con la mia immaginaria chitarra a tracolla.








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