martedì 24 aprile 2012

LE FINESTRE DI DESTRA, PROPRIO SOPRA L'INGRESSO (seconda parte)







Si riscosse dalla languida autocontemplazione e con gesto istintivo aprì le antine di un pensile dove era certa di trovare qualcosa che facesse al caso suo.
In quella casa erano passate una mezza dozzina di signorine che del trucco avrebbero potuto fare un mestiere, quindi era più che probabile che qualcosa avessero lasciato; non c’erano però che schiume da barba, gel, colonie maschili, aspirine e ansiolitici.
Renata si piegò sulle ginocchia ed ispezionò il mobiletto che era sotto il pensile ed effettivamente, in un cestino di paglia relegato in un angolo, si accumulavano alla rinfusa le matite per gli occhi, i rossetti, i tubetti di fard e il rimmel che si aspettava di trovare.
Senza sapere perché, allungò la mano oltre il cestino, sul fondo dell'armadietto, tastando una borsa gommata per il ghiaccio che pareva avvolgere qualcosa. Ne ruzzolò fuori un vibratore di proporzioni cospicue che riproduceva in dettaglio estremamente realistico un fallo maschile in erezione, con tanto di turgore di vene in rilievo.
Renata si affrettò a coprire l'oggetto con la borsa del ghiaccio in preda ad un panico improvviso: riaffiorò allo specchio scoprendosi uno sguardo stralunato e approssimò il ritocco degli occhi.
Le voci degli amici stavano assumendo volume d'allegria; qualcuno mise in funzione l'impianto stereo e le note di una vecchia canzone dei Mamas & Papas fluttuarono fino a Renata che stava pensando - Ma guarda un po' Agostino... chissà come lo usano... -
Per un attimo ebbe la tentazione di indagare l'oggetto con maggior attenzione, ma resistette e si precipitò fuori del bagno.
Il salone aveva una propaggine palafitticola e terrazzata che si protendeva verso il lago appoggiandosi su rassicuranti colonne di cemento armato.
Ora in quel salone gli amici si stavano assiepando.
Alcuni si erano adagiati con esausta soddisfazione sui divani color panna che l'arredatore adolescente - figlio di una ex di Agostino - aveva disposto secondo una geometria invasiva e un po' incongrua; altri stavano affacciati, e temporaneamente meditativi, alla grande vetrata che guardava il lago e le luci che vi si riflettevano tremule.
Agostino, che dirigeva queste occasioni d'incontro con l'accuratezza e l'irriducibilità di un regista hollywoodiano, aveva predisposto su un tavolino vassoi con fette di limone, ciotolette di sale e bottiglie d'una tequila a suo dire speciale, e costringendo tutti al rito complesso del leccare bere succhiare come inevitabile e coerente continuità con la cena messicana.
-    ... strano che non abbia sombreri per tutti... - udì Renata, e riconobbe il sussurro arrochito che pareva sempre un invito erotico persino se forniva informazioni sugli orari dei voli per Londra.
Mirella Tazzòli in punta di piedi, afferrata all'avambraccio di Del Poz, gli si premeva addosso in studiata mancanza d'equilibrio.
Con le labbra praticamente appoggiate ad un suo orecchio  stava probabilmente sussurrando battutine asprigne come quella che aveva afferrato Renata. Stando accanto allo stipite che immetteva al corridoio lei era arrivata alle loro spalle protetta dalla penombra.
Del Poz ridacchiò compito, ritraendo impercettibilmente il capo con gesto infantile sotto lo stimolo solleticante delle parole che Mirella aveva usato più per titillarlo che per farlo sorridere.
Renata osservò il dorso vigoroso di lui, abbassò gli occhi e pensò che aveva un bel sedere, poi spostò lo sguardo a quello di Mirella e dovette ammettere che anche il suo era di qualità.  Del resto era universalmente apprezzato anche perché Mirella Tazzòli conosceva tutti gli espedienti per sfoggiarlo, trasformandolo in un ipnotico centro d'attenzione che distraesse dal suo viso, delicatamente vaiolizzato dall'acne giovanile che aveva disperato la sua adolescenza. Il brutto anatroccolo non si era poi trasformato in cigno ma si era agguerrito di tattiche spregiudicate  che sdraiavano nel suo letto tutti gli uomini che decideva di scoparsi, compresi fidanzati e mariti delle sue migliori amiche.
Ora l'avercelo davanti, il generoso culo della Tazzòli, e vederlo affiancato a quello di Del Poz - che pur manifestando per Renata sintomi da innamoramento alla Peynet quella notte si sarebbe inevitabilmente occupato dell'altra - le procurò un imprevisto soprassalto di ingiustificata gelosia, che le si assestò a mezza strada tra la gola e la bocca dello stomaco.
Desiderò, per la prima volta in vita sua competere, sedurre, esporsi, e lo stupore di quel sentimento aggressivo, guerresco e sconosciuto, sommato a quell'altro, malinconico, soffocante e altrettanto sconosciuto che aveva provato sfrecciando in auto davanti agli anonimi edifici di una fabbrica di cui non le importava nulla, la paralizzarono.
Riaffiorò la voglia di piangere, di rabbia e nostalgia insieme, ma questa volta, forse perché la rabbia prevaleva, riuscì a trattenersi.
Fece il suo ingresso nel salone con spavalderia, si sottopose di buon grado al rituale tequila che Agostino officiava implacabile e sedette sul bracciolo della poltrona occupata da Grete.
Accavallò le gambe avviticchiandole come aveva visto fare ad una soubrette televisiva che le aveva meno belle delle sue, e lasciò che la gonna risalisse a scoprirle nude, delicatamente abbronzate e levigate come alabastro: il suo orgoglio anatomico.
Gianfilippo apprezzò con una fischiatina bolsa e Agostino si precipitò ad ammannirle un'altra tequila.
Corrado lanciava brevi occhiatine interrogative che salivano oblique dalla placidità assonnata della fidanzata all'inopinato protagonismo dell'amante. Riccardo parlava di golf con i Genéro  e intanto Del Poz, laggiù, la fissava incupito.
A quel punto Renata si rese conto che il suo repertorio  di donna fatale era esaurito, inoltre la tequila iniziava a sortire effetti sbilancianti e quella posizione precaria sul bracciolo della poltrona la stava mettendo in difficoltà.
Districò le gambe ed andò a cercarsi un posto tranquillo sul sofà d'angolo, che ancora portava un'impercettibile traccia di verde sulla tinta panna dello schienale là dove lei, un anno prima, aveva appoggiato la testa tinta d'uno spray colorante durante una festa di carnevale.
L'idea le era venuta un giorno che Ottavia l'aveva costretta ad accompagnarla in uno di quei negozi punk: musica ossessiva a tutto volume e ragazze e ragazzi dall'aspetto volonterosamente funereo.
Ottavia ambiva incomprensibilmente ad essere come loro e solo le categoriche proibizioni dei genitori avevano impedito che si martoriasse di fori in cui infilare ogni sorta di aggeggi metallici. Riccardo aveva assicurato " Passerà "  e Renata se ne era detta certa.
Ottavia infatti somigliava a loro due: possedeva caratterialmente una pratica vocazione alla riducibilità che permetteva di imputare quel confuso desiderio di ribellione più che altro al turbinìo ormonale dei quattordici anni, transitorio ed inoffensivo.
Renata aveva allora accettato di accontentarla nel suo desiderio di addobbarsi di cuoio, borchie, anfibi e altri ammennicoli, ricorrendo ad una condiscendenza strategica. Così quel giorno si era aggirata tra gli scaffali a forma di bara nel negozietto stretto e lungo come un mezzo pubblico, un po' a disagio nel suo tailleur di Saint Laurent, e all'improvviso aveva risolto il dilemma del costume per l'irrinunciabile festa di Carnevale a tema, che Agostino organizzava ogni anno.
Sotto lo sguardo esterrefatto di Ottavia aveva acquistato per sé pantaloni scozzesi fitti di cerniere, scarponi da commando ed un chiodo cicatrizzato da un numero inverosimile di borchie.
Quando alla fine stavano già per andarsene, cariche di buste di plastica viola sulle quali campeggiava un teschio con cresta moichana, una ragazzina le aveva incrociate entrando. Una ragazzina bassotta che masticava chewing-gum e marciava a passo di combattimento su gambe tozze, inguainate in calze a rete artisticamente sforacchiate sotto una minigonna in latex aderente come un unguento.
Renata era tornata sui suoi passi ed aveva comprato per sé calze e minigonna identiche pensando a Corrado, che non incontrava da un mese, ed al fatto che Riccardo fosse a Vancouver.
L'effetto complessivo si era rivelato pirotecnico: i gel e gli spray di Ottavia, il trucco che le aveva distribuito sul viso con una competenza che l'aveva sorpresa, avevano trasformato Renata fino all'irriconoscibilità. I capelli verdi irti in enfasi multidirezionale si sposavano ad occhi affondati nel bistro ed alla bocca disegnata con crudeltà d'un color petrolio.
Ottavia le aveva prestato una sua canottiera a disegni leopardati dalla quale il seno tendeva a sgusciar fuori ad ogni movimento e la minigonna, sulle sue gambe eccellenti, era decisamente spudorata.
Le Roasènda, che erano passate a prenderla, avevano uggiolato d'entusiasmo vedendola apparire con il chiodo sulle spalle, le ginocchia che spuntavano dai buchi nelle calze, e quella faccia " proprio da puttana", come aveva detto con ammirazione Clara, mentre Adele annuiva incredula.
Il tema della serata era "Rock'n'roll forever" e riguardava una delle ossessioni ricorrenti di Agostino, che aveva trasformato un breve e marginale episodio della sua vita nell'icona inconfutabile del suo essere - come diceva citando Bob Dylan - forever young.
In realtà, come tutti quelli che continuava a frequentare fin dall'adolescenza, era stato perennemente aggrappato al suo milieu. Era geneticamente reazionario, nemico acerrimo di ogni intervento esterno che congiurasse contro l'equilibrio piccino delle sue complicità opportunistiche, che lui travisava in maniera più o meno consapevole spacciandole per amicizie consolidate.
Ma aveva trascorso, a vent'anni, una vacanza studio a Londra. Durante quel soggiorno si era scatenata in lui un curiosa pulsione centrifuga: un giorno aveva inaspettatamente abbandonato gli spezzati in tweed acquistati in Bond Street a favore di sgargianti addobbi hippie.
Si era lasciato crescere i capelli, che aveva crespi e caduchi, ottenendo un risultato inoppugnabile dal punto di vista geometrico ma debole dal punto di vista estetico: in pratica una testa a triangolo rettangolo, una capannuccia che sfoggiava sotto un cappellaccio moscio.
Si era accompagnato per un certo tempo a nuovi amici, ebbri come lui d'una libertà confusamente interpretata, aggirandosi per concerti e discoteche, fumando erba ed impasticcandosi, ma soprattutto scoprendo il rock acido e visionario dell'epoca. Questo aveva sommato a quello melodico di cui era già cultore, allargando smisuratamente la propria discoteca con impegnativi e febbricitanti acquisti da Virgin, che allora non era che un negozietto ad un primo piano dalle parti di Oxford Street. Poi, saturo, era rientrato in Italia come reduce vittorioso di un conflitto eroico. Naturalmente senza aver imparato l'inglese.
Si era poi, dopo poco tempo - da un giorno all'altro - riaddomesticato ai moduli di sempre: tagliati i capelli, riposto in naftalina il montone afgano, archiviato l'uso di sostanze illegali. Ma al rock, a quel brandello d'intuizione che gli era baluginato di fronte durante un'estate lontana ormai quasi trent'anni, s'era aggrappato con la pervicacia d'una piovra agonizzante.
E il rock tornava sempre, condito di quei settarismi che di Agostino erano la caratteristica più vistosa: quasi nulla che andasse oltre la metà dei settanta meritava d'esser preso in considerazione, allora si ballava così, e Eric Clapton senza i Cream non vale un cazzo, e Steve Winwood quello sì e così via, con una competenza esangue e ripetitiva cui gli amici - alcuni troppo giovani altri da sempre ignari di tutto - riservavano il rispetto appassito che si nutre per le erudizioni professorali.
Naturalmente odiava il punk e Renata - che senza averlo mai confessato pubblicamente, proprio per non incorrere nelle requisitorie di Agostino, ascoltava con una certa simpatia la musica che Ottavia lasciava filtrare da dietro la porta barricata di camera sua - con il suo travestimento contava di togliersi la soddisfazione di rifilargli un vaffanculo ben dissimulato.
Nel bailamme rievocativo fitto di pantaloni scampanati, stivaletti, stivaloni, mini pull, hot pants, bandane su parrucche dello Studio Teatrale Chiamparetto, in quell'affollamento che pareva la sequenza di un ipotetico "Woodstock secondo il mio commercialista", Renata era comparsa fendendo la folla d'amici che l'aveva accolta con un brusio ammirato per il suo coraggio sacrilego, ma incerta se intonare immediatamente il peana del consenso.
Le Roasènda, infagottate in gonnelloni multicolori come due esauste reduci di qualche comune californiana, le fungevano da damigelle con una certa malcelata fierezza.
Agostino aveva alzato il sopracciglio destro con quella sua smorfia di disapprovazione altezzosa, ma aveva abbozzato; si era  limitato a qualche battuta scontata e poi, quando Renata verso le quattro del mattino, esausta e un po' brilla, si era assopita sul divano macchiandolo con il verde della tintura dei capelli, aveva detto che non era nulla, togliendola elegantemente dall'imbarazzo.
Ora, appoggiando il capo su quell'impercettibile alone residuo di un  anno prima, Renata si concesse un lungo momento di tregua.
La serata procedeva secondo clichés sperimentati: ognuno si era assestato nel proprio territorio di conversazione abituale.
Quando decise di fare un giretto in terrazzo per prendere una boccata d'aria Renata si rese conto che la tequila aveva seguito un percorso imprevedibile, condizionandole un poco la libertà di movimento.
Si sollevò dal divano al secondo tentativo, controllando che nessuno s'accorgesse dei suoi tentennamenti, e scivolò guardinga, simulando una leggera noia, fino alla vetrata. 
Uscì e si appoggiò alla ringhiera, fissando lo sguardo sulla gibigiana dei fari delle auto che scorrevano laggiù, sulla provinciale, apparendo e scomparendo dietro le quinte nere del fogliame dei platani.
In fondo al terrazzo, dove questo si allargava in una specie di piattaforma angolare, erano disposte nel buio alcune chaises longues, residui di ponte di prima classe di un transatlantico disarmato che Agostino era riuscito a saccheggiare grazie ai buoni uffici di un suo cliente.
Renata si diresse verso quell'angolo dopo essersi sfilata i mocassini. Prima di accomodarsi lanciò uno sguardo d'insieme alle sdraio disposte in cerchio e vide che una era occupata da un grumo affannato, che si districò non appena lei, lasciandosi cadere seduta, provocò uno scricchiolìo da pontile.
Mirella e Del Poz si sganciarono dall'abbraccio come due estranei che su un autobus siano stati sbattuti l'uno contro l'altra da una frenata. Mirella ricacciò indietro i capelli con gesto volubile senza riabbottonarsi la camicetta e disse con voce neutra " Ah... sei tu..." mentre Del Poz taceva, seduto con una compostezza da collegiale.
Nell'oscurità Renata non riusciva ad accertarsene ma aveva la sensazione che non avesse fatto in tempo a ritirare nei pantaloni ciò che la Tazzòli ne aveva estratto.
Disse " Scusate ma la tequila...avevo proprio bisogno di un po' d'aria".
Mirella emise una risatina, scoprendo nelle parole di Renata il tono della complicità. Si alzò, abbottonandosi finalmente la camicetta.
Del Poz non accennò a muoversi, sconcertato. Renata allungò le gambe sul materassino, appoggiò le mani sui braccioli e si illanguidì serafica.
- Noi andiamo ? - disse la Tazzòli a Del Poz che annuì senza alzarsi.
- Allora ti precedo - concluse lei con un velo d'irritazione per quell'indecisione bambinesca di lui, che sedeva con le mani giunte tra le cosce serrate, immobile nel buio. Si avviò verso la luce lontana della vetrata e Renata le riservò un'occhiatella sorniona, mentre dentro di sé sentiva crescere l'animosa visceralità d'una baccante.
Erano protetti dal buio, con un controllo completo e frontale su qualsiasi possibilità d'avvicinamento estraneo, notò Renata.
Lei con il vantaggio d'una studiata indifferenza, lui con l'handicap della confusione dettata dall'esser stato sorpreso in indaffaramento sessuale con un'altra da quella cui riservava attenzioni angelicanti, e probabilmente ancora con gli attributi en plein air.
Renata improvvisò uno sbadiglio con gemito sommesso, come a volersi accomiatare e Del Poz accennò un "...Sono mortificato...non immaginavo... voglio dire, lei non deve pensare che..."
Renata lo interruppe sorprendendosi di sé.
- Senta Del Poz io non penso proprio niente, però se dovessi pensare qualcosa in proposito difficilmente lo potrei fare senza tener conto di quello - e allungò mollemente un braccio in direzione delle cosce contratte di lui.
Del Poz emise un suono sordo, una specie di singulto ingoiato. Renata non poteva vederlo nell'oscurità ma era certa che doveva essere paonazzo. Lo sentì completamente in balia sua e la sensazione la imbaldanzì.
- Se non si decide a ritirarlo finirà col fargli prendere freddo - aggiunse con un sorriso sarcastico, meravigliata del suono delle sue parole.
Del Poz, che nel frattempo era riuscito a ricomporsi, mormorò un
" Non...io, voglia scusarmi, non vorrei lei equivocasse..." e intanto si alzava tenendosi di profilo.
- Se ne va ? - lo interruppe di nuovo Renata sempre più stupita di sé. Lui restò interdetto.
- Venga qui un momento Del Poz - disse con una certa autorità, e lui non poté fare altro che quei due passi per fermarsi di fronte a lei che allungò una mano a saggiare la patta aperta.
- Mi pareva ... - disse, e alzò lo sguardo su di lui che era una sagoma nera contro il cielo, immobile.
- Non vorrei che lei equivocasse Del Poz... - mormorò Renata senza trattenere una risatina allegra e affondando la mano a frugarlo tra le gambe.
- Ha un preservativo ? - chiese mentre si assestavano al riparo delle sdraio come dietro una barricata.
- No... - rispose incerto lui.
- Allora non se ne fa niente, mi dispiace ma sa com'é, io non la conosco e con i tempi che corrono, certi rischi...
Renata, nonostante impugnasse ancora saldamente l'attributo rilevante di Del Poz, aveva riesumato un comportamento che ricordava quello che assumeva sua madre di fronte alle referenze claudicanti di certe donne di servizio. Lui annuì  impacciato.
Disse " Hai ragione, ma dobbiamo rivederci, ti desidero da morire tu non sai da quanto !" e così dicendo si chinò come implorante a baciarle i piedi, le ginocchia e poi su, lungo le cosce.
Renata si appoggiò alla ringhiera lasciando che Del Poz le sfilasse le mutandine e lappasse con ritmo da crampo mandibolare.
Corrado era in fondo al terrazzo, con un braccio intorno alle spalle di Grete.
Renata lo fissava dal buio come a volerne attirare lo sguardo e lui finalmente si voltò.
Scrutò incerto, percependo qualcosa: una figura eretta e qualcosa di raggomitolato ai suoi piedi. Fu tentato di muovere qualche passo verso di loro ma la presenza di Grete, che non si era accorta di nulla, lo trattenne. Guardava verso il loro buio con una curiosità sfacciata, leggermente ansiosa. Renata ad un certo punto ebbe la certezza d'esser stata riconosciuta e la cosa le procurò una scossa d'eccitazione convulsiva.
Disse " Vengo " con l'impeto di chi sta impartendo un ordine. Del Poz mise ancor più energia impugnandole con fermezza i glutei e Corrado, che sicuramente aveva sentito, si ritirò, trascinando una Grete recalcitrante e inconsapevole, scomparendo nel bordo di luce della porta finestra.
Il giorno successivo Renata telefonò a suo padre e lo convinse a lasciarsi accompagnare in una gita estemporanea.
- Ti invito a pranzo all “Aquila Reale” - disse, ricordando all'improvviso la simpatia che lui nutriva per quell'antica locanda isolata nella forcella d'un bivio, non molto lontana dallo stabilimento.
- Mi pare che abbiano cambiato gestione... - rispose lui, ancora incerto se abbandonare la tranquillità del salotto in penombra e le cure assidue della signora Chiamberlando, ma Renata non si arrese.
Si accordarono per il giovedì, giornata in cui Ottavia e Federica erano occupate autonomamente e Riccardo alle prese con un consiglio di amministrazione che lo avrebbe impastoiato fino a notte.

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