martedì 1 febbraio 2011

WHITTLING - UN MESTIERE (seconda parte)




Il film iniziava con la protagonista che arrivava in bicicletta dal fondo della strada e alzava lo sguardo sul muro. La cinepresa staccava con una soggettiva in camera car che percorreva l’intera scritta.
Io, il protagonista maschile, ero lì, sul cancello d’ingresso del giardino. La sceneggiatura non prevedeva spiegazioni al fatto che lei intuisse che ero l’autore della crepuscolare affermazione.
Mi chiedeva perché, chissà cosa rispondevo io.
Stacco.
Interno.
Casa mia.
La mansarda della marchesa a lavori finalmente ultimati. La tana del lupo travestito da agnello: cucina macrobiotica, arredamento d’essenzialità monastica, moquette acrilica, travi in legno a vista sul soffitto spiovente, manifesti e flani di “Baci rubati”, “Corvo rosso non avrai il mio scalpo”, “Easy Rider” e persino di “A noi le inglesine !”


















Il trasloco era avvenuto ai primi di giugno. La stagione dell’albergo Fontana si era conclusa senza rimpianti.
Nelle stanze accanto alla mia, nel sottotetto, erano venute a vivere un paio di ragazze. Una esuberante, l’altra laconicissima. Erano sempre piuttosto eleganti, ma troppo spesso il loro sguardo era vitreo, i loro andirivieni incerti.
Erano tossicodipendenti, costeggiavano la piazza perché lì avevano i loro fornitori e per il resto perseguivano i loro maneggi con un ammirevole volontà di tenere un profilo alto.
Erano ex commesse di boutique, sapevano vestirsi, truccarsi, anche se a volte il trucco era sbavato senza che se ne fossero accorte e il passo, anche se fasciato d’abiti costosi, aveva la cadenza d’un giocattolo elettrico difettoso.
I sorrisi vacui e semiconsapevoli che mi rivolgevano quando le incontravo nel corridoio angusto del sottotetto, mi mettevano a disagio. E non mi andava di dover condividere lo stesso bagno.
Le riprese di “Incontro”, che poi, per inevitabili ragioni, assunse il titolo di “Incompiuto” favorirono però solo in parte lo scopo per cui erano state organizzate.
L’abbandono durante i baci di scena mi aveva autorizzato a contare sulla disponibilità della mia musa indifferente, ma il paio di incontri clandestini che  aveva accettato avevano rivelato la sua propensione ad un’esasperante tergiversazione erotica.
Era sopraggiunta l’estate. La piazza era al culmine del suo fulgore, sventolavano bandiere rosse e gonne zingaresche. Io mi commuovevo per le prime e – come sempre – assecondavo un’irresistibile curiosità per le seconde.
Il Movimento probabilmente disapprovava ma ora mi importava meno.
Qualche mese prima, il 5 marzo del ’77, c’era stata una grande manifestazione a Roma.
Da ogni parte del paese erano confluite sulla capitale decine di migliaia di persone. Da Parma, nella notte tre il 4 e il 5, si era mosso un pullman.
Gruppi di compagni erano venuti a salutare i partenti. Io ero tra quelli a bordo. Animato da uno spirito di gitante insurrezionale, eccitato più che arrabbiato, come invece erano molti dei passeggeri.













Su quel pullman c’erano autonomi che non avevo mai visto prima, una piccola delegazione di fricchettoni un po’ fatti, qualche indiano metropolitano e, infine, una minoranza di figure ragionevolmente ideologizzate, cui istintivamente mi aggregai. Saremmo arrivati a Roma all’alba.
Lungo l’autostrada, poco oltre il valico appenninico, si decise una sosta ad un autogrill.
Sul piazzale del parcheggio altri pullman stavano scaricando proprio in quel momento un variegato e cospicuo numero di passeggeri. Non era possibile che fosse un appuntamento ma ne aveva tutte le caratteristiche.
Dai mezzi targati Bergamo, Cremona, Padova scendevano persone che non avevano bisogno di una divisa per essere identificate come appartenenti alla stessa armata. Le manifestazioni di entusiasmo, di fratellanza improvvisata, sul quel piazzale crudamente illuminato nel cuore della notte, erano state emozionanti. C’era un tipo di Bergamo che passava da un capannello all’altro e abbracciava tutti, mezzo stritolando - grande e grosso com’era – i destinatari delle sue effusioni.
I pochi automobilisti che entravano sul piazzale parcheggiavano a distanza, con un infallibile istinto borghese di conservazione.
Invademmo l’autogrill. Io andai alla cassa per ordinare un cappuccino. Mi precedevano un paio di tipi assonnati. Dietro di me non si formò nessuna coda.
Poi la cassiera interruppe il suo robotico conteggio. Alzò lo sguardo e se ne stette lì, basita.
Alle mie spalle era iniziato un esproprio proletario in piena regola.
Non ne avevo mai visto uno, così il mio sguardo, all’inizio, non dovette essere molto diverso da quello della cassiera.
Al bancone i baristi sulle prime non avevano capito cosa stava succedendo, avevano tentato qualche ruvido “Scontrino alla cassa” prima di impallidire di fronte alla rapidità con cui l’impensabile si stava verificando.
Cominciarono a soddisfare gratuitamente le richieste, occhieggiando con discrezione il saccheggio sistematico cui i banconi di esposizione venivano sottoposti.
Prosciutti, dolciumi, musicassette, bagnischiuma, bottiglie di vino e pupazzi di pelouche, ombrelli e formaggi. Tutto venne debitamente asportato in ordinata baraonda, satura di selvaggia rivalsa, di onesta riconquista del maltolto.
Ancora oggi sono convinto che quel gesto sia stato legittimo, anzi, oggi che so qualcosa di più su come e da chi sono amministrati quegli spazi, mi auguro di ritrovarmi ancora ad assistere a qualcosa del genere. A un risveglio.
Quelle ragazze e quei ragazzi stavano vendicando le madri e i padri che sgobbavano senza speranza e scioperavano a comando. Là dentro nessuno comandava, tantomeno il direttore, ammesso che ce ne fosse uno, e che comunque si guardò bene dal farsi riconoscere.
I due avventori che mi precedevano alla cassa si svegliarono all’improvviso e se la filarono terrorizzati. Uno dei due, poco prima dell’uscita, si infilò furtivamente sotto il giaccone una confezione regalo di cioccolatini.
Credo d’averlo visto soltanto io. Soltanto io che mi dicevo: eccolo lì il nemico, quello vero, quello che non sconfiggeremo mai, quello che ha l’esercito più numeroso.
Restammo io e la cassiera.
Io che volevo pagare il mio cappuccino e lei che rifiutava i miei soldi, mentre alle nostre spalle impazzava finalmente il contrario di quello che in genere, supinamente, si pensa debba accadere. Non c’è nulla che non si possa rinegoziare. Neanche all’autogrill.
Ancora mi chiedo perché cercai di pagare quel cappuccino.
Ci deve essere stato un momento in cui ho sentito il bisogno di sottolineare una differenza. Sono con loro, ma non proprio come loro.
Ed era vero.
Io avevo più cose da perdere, ero un borghese travestito, come in qualche occasione mi era stato rinfacciato da alcuni dei militanti più duri di Autonomia. Forse era davvero così. Eppure nulla in quel momento mi rendeva più felice del vederli all’arrembaggio.
Non so se altri abbiano desiderato, come me, che i dipendenti dell’autogrill capissero, solidarizzassero. Sicuramente sono stato l’unico a commuovermi, proprio lì, accanto alla cassiera, cercando di far in modo che non si accorgesse che avevo gli occhi lucidi di gioia, orgoglio e profetica nostalgia.
Sulla giornata romana, su quel 5 marzo del’77 e su tutto quel che ne seguì, pressoché tutti hanno detto pressoché tutto. Quello che resta però per me incomprensibile è che di quelle decine di migliaia di giovani vertiginosamente dialettici e - chi più chi meno - rivoltosi, non sia rimasta traccia, che si sia approdati ad un presente così monodico, rumorosamente monosillabico, e che frammenti dei rituali espressivi d’allora, veri e propri cascami, adulterati e irranciditi, siano recuperati solo negli stadi o di fronte ai pontefici, indifferentemente.
Quel 5 marzo del ’77, che era cominciato col sole, cambiò umore nel corso della giornata.
L’attesa estenuante della formazione del corteo era durata ore. Un contrordine sul percorso da seguire aveva costretto ad un dietro front collettivo.
Invece che lungo via Nazionale si sarebbe discesi lungo via Cavour.
E il gruppo cui ero aggregato, che si trovava poco dietro la testa del corteo, si ritrovò così in coda.
Autonomi, indiani metropolitani e fricchettoni si erano dispersi non appena scesi dal pullman, scomparendo tra la folla sterminata, dove comunque avrebbero riconosciuto i loro gruppi di riferimento.
Quando ci mettemmo in marcia le piccole squadre che fluttuavano, rapidissime e agili, fuori e dentro il corteo, avevano già fatto terra bruciata sul percorso.
All’inizio di via Cavour, un hotel dove tradizionalmente si svolgevano convegni del Movimento Sociale incombeva sul nostro tardivo passaggio con le sue finestre dai vetri in frantumi, come occhi accecati.
Più si avanzava più si incontravano tracce di barricate improvvisate con auto capovolte, autobus in fiamme, e un suono che pareva un silenzio, che si percepiva al di sopra dei canti, degli slogan branditi dai megafoni, dell’urlo allarmato delle sirene: lo scalpiccìo di decine di migliaia di passi in marcia.
Noi ci eravamo appena mossi e gli scontri più duri, a chilometri di distanza, erano in pieno svolgimento.
Un gruppo di autonomi romani, appartenenti al leggendario e famigerato collettivo di via dei Volsci, aveva aperto le danze a suon di rivoltellate. La città aveva perso la testa.
Più dell’ottanta per cento dei manifestanti non era di Roma e neppure la conosceva. Sfuggire alle manovre repressive delle forze dell’ordine era difficile, se non impossibile. Abbandonare il corteo per defilarsi lungo strade laterali era tassativamente sconsigliato per la presenza di bande di fascisti in agguato, in attesa di fuggiaschi disorientati. Col pomeriggio arrivò la pioggia.
Le notizie degli scontri arrivavano in modo frammentario e confuso, la coda della manifestazione era allo sbando.
Prima di approdare al lungotevere avevo intravisto uno dei nostri sfondare la vetrina d’una pasticceria con un badile raccolto in un cantiere.
Non lo conoscevo, non lo avevo mai visto prima di quel giorno. Era un tipo grassoccio, con una risata stridula sempre in agguato. Mi dissero che era figlio d’un primario ospedaliero. Spazzava i ripiani di cristallo spargendo pasticcini e frammenti di torta con quella sua pala coperta di calcina. Rideva e si guardava attorno come ad aspettarsi un plauso, trionfante.
Dietro di noi vennero a frapporsi all’improvviso una mezza dozzina di figure nuove, furtive.
Sembravano temporeggiare, indifferenti alle soste esasperanti del corteo, apparentemente sicuri nella confusione.
Discorrevano in romanesco. Uno di loro sorrise quando mi voltai a guardarli. Ammiccò. Aveva i denti cariati e i capelli che gli scendevano a ciocche fradice sulle spalle. Aprì le falde del giubbotto a mostrarmi il calcio del revolver che portava infilato nella cintura. Sorrise di nuovo e io ricambiai, con le viscere improvvisamente contratte nel segnale ancestrale della paura. Poi quelli che erano con lui, come in risposta ad un segnale, ci sgusciarono accanto, correndo avanti, lungo il fianco del corteo: nessun servizio d’ordine era più in grado di controllare quelle osmosi.
Anche Armando aveva visto.
Lui era venuto alla manifestazione non in divisa da combattimento, malgrado la sua posizione in Lotta Continua. Non sfoggiava fazzoletti legati al collo né passamontagna ma indossava, con elegante noncuranza, un trench inglese. Sono tuttora convinto che sia stato quel suo aspetto di signorile distacco a salvarci.






 
Qui Armando Chitolina  è con Rosaria Guacci e  
Luisa Cevese ("Due canzoni")...




Tornammo sui nostri passi, intraprendendo un’Anabasi a due, senza deviare dal percorso principale, in direzione di Stazione Termini, dove ci auguravamo di ritrovare il nostro pullman.
Incrociavamo piccoli nuclei di poliziotti in assetto antisommossa che ci scrutavano da dietro le celate trasparenti degli elmetti. Ogni volta che credevamo di esserne fuori, di avercela fatta, ecco che il falò di un’auto in fiamme, un posto di blocco improvvisato da forze dell’ordine furibonde, ci diceva il contrario.
E ogni volta Armando animava la nostra conversazione come se fossimo stati due gentiluomini a passeggio nella campagna inglese. Lui e il suo trench.
I poliziotti ci lasciavano passare e io leggevo nei loro occhi, per il breve istante in cui la curiosità mi spingeva all’imprudenza di incrociarli, il sospetto, la transitoria indecisione se fermarci o no. Armando intanto parlava di Wagner e della Carmen.
Era stato lui ad iniziarmi all’ascolto della musica lirica, nella sua casa oltretorrente. Era un grafico molto bravo, un esponente di Lotta Continua che disegnava per Vogue. Lo faceva con una tale naturalezza, con un così pacato senso dell’umorismo, che nessuno si sognava di vederci qualcosa di contraddittorio. Era molto gentile: una persona comprensiva e cortese. Mi piaceva pensare a lui come a un fratello maggiore, ma non gliel’ho mai confessato.
Arrivammo a Termini.
Rintracciammo il pullman nel caos piovigginoso della sera romana. Attendemmo a bordo fino a che anche gli ultimi, esausti, fradici compagni di viaggio furono imbarcati. E si tornò a Parma.




da sinistra (ovviamente) Armando, Roberto e Pit





Amavo il Movimento, condividevo l’aspirazione di molti alla rivolta, ma il mio anelito era acquarellato d’una connotazione romantica, sicuramente anacronistica. E poi io volevo soprattutto fare i miei film.
Volevo scrivere, rubare sguardi e gesti con la cinepresa, raccontare di piccole cose a margine del grande flusso, volevo proprio quella vita lì, che stavo conducendo, ma aspiravo all’armonia, alla giornate divise tra l’università e la Piazza, con amici che quelle giornate me le arricchivano e ragazze che me le addolcivano.















I giorni che vennero, quelli di Bologna e radio Alice, furono gli ultimi condivisi con le frange politiche del Movimento.
Guardavo alcuni di quei ragazzi e mi chiedevo dove riuscissero a pescare tutto quell’odio, quel desiderio ancestrale di infierire. Mi pareva che coniugassero un misterioso recupero di ferocia tribale con problemi personali banalmente contemporanei. Sospettavo che avrebbero odiato comunque, che  sarebbero riusciti ad esprimere la violenza che li animava, in un modo o nell’altro, indipendentemente da un’idea di giustizia sociale.
Scoprii allora che molti esseri umani, i maschi in particolare, sono così. Moltissimi. Forse, in circostanze eccezionali, tutti.
Ma esserlo a tempo pieno e a freddo andava al di là della mia possibilità di condividere.
Osservavo Andrea, seduto in Piazza, con la giacca militare, gli stivaletti, i baffi sottili, gli occhi di ghiaccio, e qualcosa riuscivo a spiegarmi.
A. mi detestava. Senza mai avermi rivolto la parola.
Era uno dei rappresentanti più autorevoli di Autonomia Operaia. Un bel ragazzo, con un’andatura fiera, quasi esile ma noto per la sua temerarietà e pericolosità. Lo divorava una furia di risentimento proletario che non si attenuava mai. E, a poco più di vent’anni, a divorarlo ci pensava anche un’ulcera feroce.
Aveva spinto un figlio della borghesia a lanciare un ordigno esplosivo nell’androne della Questura, facendolo finire in galera per un bel po’ di tempo. Tra i suoi seguaci non annoverava amici – non credo che gli occorressero – ma complici, che avrebbe sacrificato senza indugio né rimorsi, attirandoli sul versante oscuro al limitare del quale conduceva la sua esistenza tormentata e cacciandoli giù alla prima occasione, guardandoli annaspare in quel buio dove lui badava bene a non scivolare, e nel quale quelli, a tentoni, avrebbero trovato il modo di rovinarsi la vita. Che fosse con la lotta armata o con l’eroina a quel punto faceva poca differenza.
A. era nato da una madre nubile e quello che si mormorava fosse il padre – un sussiegoso intellettuale di provincia – non lo aveva riconosciuto.
Ogni tanto si incrociavano in Piazza, padre e figlio, a volte persino scambiavano qualche parola.
A. lo faceva in modo scontroso. Mi pareva che in qualche modo fosse fiero di parlare con lui, con il suo papà, e che forse, confusamente, gli sarebbe piaciuto ricevere un abbraccio, e abbracciarlo a sua volta, e nello stesso tempo capivo che gli sarebbe stato molto più facile e congeniale rifilargli invece una coltellata, sussurrandogli “Da parte della mamma”.
Non odiava solo me, ma il mondo intero, e in buona misura anche se stesso. 
A. 
E tutti gli altri come lui, con la P.38, chissà cosa nascondevano in testa. Rossi e neri alla mattanza. Per saldare conti freudiani o accondiscendere a progetti di figure nell’ombra. Forse la rivoluzione chiede anche questo, un passaggio torbido dove le idee di giustizia, eguaglianza, solidarietà diventano appendici, elementi secondari, temporaneamente sacrificabili.
Chiamarmi fuori era inevitabile, e neppure difficile.













1978


Nei primi mesi dell’anno, tramite un amico torinese, avevo conosciuto un gruppo di ragazze estranee alla Piazza.
Erano rampolle della buona società, affaccendate attorno a cose che avevo quasi dimenticato, complicità da collegiali, feste dei diciott’anni con cartoncini d’invito, tiepidi amori un po’ insulsi, tutti aspetti di un mondo che non mi ero lasciato alle spalle da molto, e che forse proprio per questo, desideravo scombinare.
Alcune di quelle ragazze erano però inaspettatamente pronte al cambiamento, curiose di attuarlo, disponibili.
Le portai in Piazza. E la cosa, contrariamente alle previsioni, funzionò. Nessuna di loro lanciò mai una molotov, ma si muovevano con disinvoltura tra gente inizialmente ostile, o comunque molto guardinga.







            Alessandra Fornari e Paola Goffrini





Aprirono le loro case ad artisti, menestrelli, rivoluzionari e pasionarie che si crogiolavano al sole, si tuffavano in piscina, imparavano a ballare e si tormentavano in segreto, con virulenti sensi di colpa, per quei loro cedimenti borghesi.
Un giorno una di queste nuove amiche, la Ciochi, prese a parlarmi di Alessandra appena tornata dall’Egitto fornendomi aneddoti poco rilevanti fino a che fece squillare il campanello di allerta. L’informazione era scivolata tra altre: Il padre di Alessandra Fornari si occupava di Cinema.




"...La Ciochi era, ed è, la più eccentrica di quel gruppo di ragazze.
Dico è perchè ancora adesso, tipo ogni sette otto anni mi convoca 
ad una cena a Parma dove alcune di quelle ragazze, oggi mogli e madri 
di figli adulti, le ritrovo e non sono cambiate.
La sua casa di Bologna è stata il mio rifugio per molto tempo.






 
Pit e Paola Goffrini





 
A casa di Paola, Pit, lei e Vanna Comaschi







Alessandra era una ragazza alta, con lunghi capelli corvini e un modo curioso di distogliere lo sguardo conversando, che si manifestava con un abbassarsi delle palpebre arrovesciando il capo leggermente all’indietro, in un gesto che poteva apparire altezzoso. Occorreva tempo per capire che era invece dettato da improvvisi accessi di insicurezza. Alternava, come molti timidi, aggressività ad improvvisi rabbuiamenti, però era dotata di un irriverente, caustico, senso dell’umorismo, che corredava con un ispirato istinto al calembour.
Siamo stati molto amici, occasionalmente amanti, camerateschi come fratello e sorella.
Quel primo giorno volevo far buona impressione, mi giocai le mie carte di seduzione in sequenza spasmodica.
Venni a sapere che il padre  era proprietario di una catena di sale ed aveva interessi nella distribuzione. Con uffici a Roma, dove trascorreva parte del suo tempo.
Riuscire ad incontrarlo divenne il mio obiettivo e fu piuttosto macchinoso.
Nel frattempo stavo  spuntandola in quell’impresa in cui ero stato a lungo l’unico a credere. Mi mancavano pochi esami, avevo già iniziato la stesura della tesi e in assenza di inciampi imprevisti sarei davvero riuscito a laurearmi in due anni in una facoltà che ne prevedeva quattro.
Prima delle sessioni estive, con Alessandra, escogitammo un progetto piuttosto ambizioso, il varo di una sala cinematografica d’essai.
A Parma ce n’erano già altre, tutte con programmi interessanti e attive da tempo, ma questo non incrinò la nostra determinazione.
Tra i locali di proprietà del signor Fornari ce n’era uno accanto al sottopassaggio nei pressi della stazione, il cinema teatro Trento, una sala di terza visione con una programmazione scalcinata. Non a luci rosse, ma con un’indecisa propensione in quel senso: filmacci di Pierini e Giovannone e dame del castello. Quando Alessandra gli chiese di lasciarci provare, lui accettò.
Non si oppose neppure all’attribuzione del nome: Mangiofango Cinestudio. 
Però dovetti spiegare che a Sainte Marie de la Mer, in Camargue, c’era un hotel che si chiamava Mangiofango, termine che, in qualche dialetto vagamente gitano, aveva un significato prestigioso.
La programmazione si annunciava come: “Freewheel. Tutti i film che amate, quelli che vi siete persi allora e quelli che non rivedreste per niente al mondo”. Mi pareva di aver escogitato un invito provocatorio ma irresisitibile.
Finanziati da papà Fornari e coadiuvati da una sua collaboratrice molto esperta, contattammo i distributori, inseguendo i titoli cui ambivamo, ingaggiammo un piccolo spacciatore che era anche un discreto grafico e gli commissionammo locandine originali e a colori in un epoca in cui i programmi delle sale d’essai circolavano su dattiloscritti in ciclostile.

















Facemmo distribuire volantini in tutta la città e, la sera di martedì 16 maggio, inaugurammo  il Mangiofango con “La banda di Jesse James” di Kaufman.
In sala non c’erano più di una decina di persone.
La famiglia Fornari era schierata al gran completo in una delle file di centro. 
Io ero semidisintegrato dall’insuccesso.
Non me ne capacitavo. Mi ero preparato all’idea che la sala non sarebbe stata sufficientemente ampia per ospitare la calca assiepata all’ingresso.
Dov’erano tutti ? Dov’erano gli amici ? Dov’era il popolo del Movimento cui offrivamo una così ghiotta opportunità ad un prezzo meno che politico ?
Non lì. Non quella sera.
Il signore e la signora Fornari si comportarono come se la sala fosse stata gremita. Apprezzarono il film. Se ne andarono con parole di benevolenza, seguiti dai fratelli e dalla sorellina di Alessandra.
Io e lei ci lasciammo, ammutoliti, sull’ingresso del cinema, dopo che le saracinesche erano state abbassate e le luci spente.
Occorse tempo perché il Mangiofango ottenesse l’attenzione dei cinefili. Il padre di Alessandra ci aveva concesso un mese di prova e noi ci eravamo lanciati con entusiasmo ma senza molto costrutto né strategia.
Cambiavamo film ogni giorno e a volte distributori senza scrupoli ci affibbiavano copie spaventosamente mutilate. Toglievamo il film dal cartellone anche nelle rare occasioni di un successo, che avrebbe potuto garantire spettatori per più giorni, come era accaduto con “Lawrence d’Arabia”, “Effetto notte” e persino con “I 600 di Balaklava” di Tony Richardson.
Nel frattempo mi preparavo per gli ultimi esami della sessione estiva e aspettavo la scadenza del contratto d’affitto con la marchesa.
Si prospettava la fine di un’epoca ma ancora non me ne rendevo conto, se non vagamente.
Ero tornato ad impugnare la mia Beaulieu super8, a vagheggiare progetti autoriali che ora parevano assumere maggiori prospettive.
Chiudemmo la rassegna del Mangiofango con “L’ultimo spettacolo” di Bogdanovich.
Lo avevo scelto come gesto simbolico di commiato.
Quell’ultima sera la sala era quasi affollata. 
Il bilancio, a parte i terribili giorni della prima settimana, non era stato male. Il signor Fornari si disse moderatamente soddisfatto. Io raccolsi tutte le forze che mi restavano e rilanciai.
Confessai la mia ambizione registica, chiesi aiuto con una spudoratezza che non mi conoscevo, gli offrii, con un autolesionistico soprassalto d’autostima, di visionare alcuni miei lavori.
Lui mi osservava da dietro la sua scrivania con un atteggiamento di feroce benevolenza. Sapevo che era un uomo di temperamento irascibile, temuto per le sue sfuriate. Anche il suo aspetto fisico incuteva soggezione.
Fumavo una sigaretta dopo l’altra.
Lui rispose “Va bene” e qualche sera dopo, nella loro villa di Ozzano, in biblioteca, allestii una proiezione che, alla luce restrospettiva di oggi, mi pare sia stata la cosa più penosa cui mi sia sottoposto ed abbia sottoposto altri.
Incalzai con una serie di filmetti in un crescendo sconclusionato di pretenziosa incomprensibilità. Il signor Fornari sedeva, sprofondato  in un divano di cuoio color tabacco. 
Si sorbì tutto in silenzio. 
Non fece commenti alla fine della proiezione. Disse solo “Vedrò cosa posso fare” e alle mie orecchie suonò come la promessa di un futuro radioso.
Si era alla fine di giugno. Tornai a Torino.
Conclusi la tesi durante l’estate e finii col dettarla ad una signora che non aveva nessuna esperienza in quel senso, una vedova che mi era stata indicata chissà da chi e che, per qualche tempo, nella sua vita, aveva esercitato una funzione non meglio specificata di segretaria, chissà dove.
Lavoravamo a casa sua, in una zona semiperiferica della città.
Lei mi riceveva nell’appartamentino in cui si era arrangiata dopo la morte del marito, senza però aver rinunciato a nulla dell’arredo della casa che aveva abitato in precedenza.
Il primo giorno aveva cercato di farmi accomodare in quello che chiamava il salotto.
Al centro dell’ambiente c’era un grande tavolo con il ripiano in onice color verde pallido con screziature nere. Il tavolo era circondato da sedie con l’imbottitura ancora rivestita di cellophane.
Attorno a questo primo nucleo si articolava un cerchio assediante di buffet, controbuffet, vetrinette, divano e poltrone rivestiti di chintz floreale, che impediva letteralmente di scostare le sedie dal tavolo. Dopo qualche inutile contorsione lei acquisì il dato con un lieve stupore e optò per il tinello.
Ci accomodammo su seggiole di fòrmica ingraziosite da cuscini all’uncinetto. Lei disponeva la sua Olivetti lettera 32 curandone la posizione simmetrica, controllava la risma alla sua destra, preparava il blocco di cinque fogli separati da altrettante carte copiative con la cautela di un artificiere, poi alzava gli occhi a guardarmi con un’aria così infantilmente zelante e speranzosa che disarmava automaticamente la mia quotidiana decisione di mollarla.
Perché era lenta, faceva un sacco di errori che annunciava con un breve squittìo di disappunto per subito lanciarsi all’arrembaggio con il bianchetto, non conosceva una parola d’inglese e la mia tesi riguardava il cinema americano con i titoli dei film tutti citati in lingua originale e infine, spinta forse da un riflesso della sua esasperata necessità di economizzare, lo faceva anche con la mie pagine, riempiendole quasi ad eliminarne i margini e facendo sì che, anche dopo la rilegatura, la mia finì con l’essere la tesi di laurea più smilza che mai si sia vista in circolazione.











Portava i capelli lunghi sciolti sulle spalle malgrado fossero definitivamente grigi, non era brutta ma completamente priva di qualsiasi forma di attrattiva. Era aureolata di pacata, domestica tristezza che a volte, suo malgrado, faceva sfavillare di comicità.
Le succedevano cose incredibili al supermercato, per strada, con i vicini di casa, e le raccontava con una stupefatta meraviglia, come se la cosa non la riguardasse direttamente.
Aveva un figlio iscritto al primo anno di università, alla facoltà di medicina. Un occhialuto saccente, determinato più che mai a farcela – si capiva – per ripristinare le cose come prima. In modo che la sala da pranzo fosse la sala da pranzo e il salotto il salotto. Diventare medico doveva essergli sembrato il percorso più garantito, così si preparava a diventare una specie di dottor Tersilli senza la comicità. Quella era tutta ad inconsapevole appannaggio della madre.
Malgrado tutto, il 4 dicembre del 1978 mi laureai.



















Il 7 dicembre, il giorno dopo il mio compleanno, partii per Roma.
Il signor Fornari mi aveva procurato un posto di assistente volontario sul set de “Il dottor Jackill e gentil signora”.







1979/1980


Mi occorse del tempo per tornare alla carica.
Non avevo intenzione di confessare lo smacco di esser stato dimenticato, ma non sapevo come giustificare le mia resa quasi istantanea.
A Roma ero ospite di Alessandra, che ci si era trasferita senza sapere bene perché. Ufficialmente per riprendere degli studi di pianoforte.
Lei divideva un appartamento con altre due ragazze, un’ infermiera bionda di cui non ricordo il nome e una mora di Perugia che si chiamava Nicoletta, e neppure lei si capiva bene cosa fosse venuta a fare nella capitale.
Io tergiversavo, attanagliato dall’indecisione.
Alla fine Alessandra elaborò una strategia e mi convinse ad applicarla con suo padre. Così, con molta cautela, manifestai al signor Fornari il sospetto che, per uno che aspirava a diventare un autore, esordire in un film con Paolo Villaggio ed Edwige Fenech, poteva risultare  un primo passo nella direzione sbagliata.
Si trattava certamente di un atteggiamento di presunzione insopportabile – e tra l’altro era una menzogna – ma il signor Fornari ascoltò senza alterarsi, annuendo ogni tanto, distrattamente, e concludendo, come già aveva fatto altre volte, che avrebbe valutato la questione.
Ancora oggi mi chiedo che cosa lo abbia spinto ad essere così tollerante e generoso con me. Era un uomo severo, temibile, si spazientiva con facilità ed era abituato all’ubbidienza e all’ossequio. Nonostante mi incutesse timore riuscivo a confessargli aspirazioni e desideri non so neppure io come. 
E lui ascoltava. E provvedeva. 
Un brav’uomo, non c’è altra spiegazione. Sotto quella maschera c’era un brav’uomo che reggeva il gioco ad un tipo di quasi trent’anni con la mentalità di un ragazzino, senza arte né parte, falsamente spavaldo, con ambizioni confuse e poco buon senso.
All’inizio del 1979 mi fece sapere che c’era un posto di assistente alla regia in un film di Florestano Vancini, tratto da un romanzo di Morselli: “Un dramma borghese”.
Io adoravo Morselli, avevo letto tutti i suoi libri, tendevo ad identificarmi con la figura del genio rifiutato, misconosciuto, e consideravo Vancini uno petit maitre, rigoroso e coerente.
Si sarebbe trattato di quattro settimane di lavorazione a Menaggio, sul lago di Como, con partenza ai primi di marzo.
Io fibrillavo. Rilessi il romanzo, presi contatto con la casa di produzione, la AMA film di Minervini e dei fratelli Avati. Parlai direttamente con Minervini. A loro bastava non dover tirar fuori una lira, per il resto ero il benvenuto.






















Il film sarebbe stato quasi interamente girato all’interno dell’Hotel Victoria e nei suoi dintorni. Semideserto per la stagione, avrebbe ospitato sia la troupe che il set.
Arrivai mentre macchinisti ed elettricisti stavano scaricando proiettori, tratti di binario, cantinelle e stativi sul piazzale antistante l’albergo. Le presentazioni furono rapide.
Alla reception ottenni una stanza senza bagno per un prezzo ragionevole.
L’hotel era vetusto, ma a suo tempo doveva essere stato elegantissimo. 
Fantasmi di villeggianti primonovecenteschi in abito da sera si aggiravano tra le palme in vaso, sfilavano senz’ombra nei saloni deserti, accanto alle ampie poltrone dai rivestimenti un po’ lisi. L’atmosfera era straordinaria. Neppure il caos apportato da una troupe cinematografica sembrava poterla intaccare.















Vancini era un bell’uomo, imponente, autorevole. Credo che non girasse un film da parecchio tempo. Non era mai stato un regista di grande successo, ma si era ritagliato uno spazio di autorevolezza autoriale con film come “La banda Casaroli”, “Bronte: cronaca di un massacro” o “Il delitto Matteotti”. Appariva molto sicuro di sé.




 Alfio Contini, direttore della fotografia, e Florestano






Il film aveva sicuramente un budget ridotto ma era stato studiato bene. Il regista aveva provato con gli attori a lungo, prima dell’inizio delle riprese, e le atmosfere dell’hotel Victoria costituivano una location suggestiva.
Il lago d’inverno.
E questa storia sofferta d’un padre e una figlia che faticano ad equilibrare il loro rapporto.
Ad interpretare il padre c’era Franco Nero.
Avevo la sensazione che Vancini lo avesse scelto quasi scaramanticamente, in memoria del “Delitto Matteotti”.
Non era un ruolo per lui, ma cercava di starci dentro, e a volte ci riusciva. C’erano poi Dalila Di Lazzaro nella parte dell’amante, Lara Wendel - acerba e lolitiana - in quello della figlia e soprattutto Carlo Bagno, che interpretava il medico: un ruolo secondario che lui calibrava con una misura da speziale.
L’aiuto regista era Valerio Zecca.




 Pit e Valerio



Il suo contratto accludeva una clausola che lo vincolava anche al ruolo di segretario di edizione, ruolo che lui non aveva nessuna intenzione di accollarsi, così che il mio arrivo gli parve un dono del cielo. Mi impartì frettolosamente, ma con chiarezza, un piccolo corso, che illustrava i compiti dell’edizione. Mi caricò di blocchi di bollettini, fogli di diari di lavorazione, mi procurò persino un cronometro.








Valerio al ciak, Vancini e Franco Nero





A me il ruolo piaceva, mi sentivo investito d’una certa autorevolezza, più di quanto non mi sarei sentito ricoprendo un incarico vago di assistente alla regia, senza compiti specifici.
Il fatto che gli ambienti fossero pochi e pochi gli interpreti mi facilitava il lavoro, ma ero continuamente costretto ad arginare la mia inclinazione alla distrazione, all’incantamento nell’osservare i gesti di un macchinista che millimetrava con morbidezza l’arrivo di un carrello o quelli di un attore che si preparava alla sua battuta. Malgrado tutto, però, tenevo la situazione sotto controllo.
Mi ingegnavo con schemi, disegnini, appunti a margine della sceneggiatura, verificavo ossessivamente la disposizione degli oggetti sul set, sfiancavo l’assistente operatore per sapere quanti metri di pellicola rimanessero in macchina per poi calcolare – io che ero sempre stato negato per l’aritmetica – se fossero sufficienti per la scena che avevo preventivamente cronometrato.















Ogni tanto, però, ancora mi incantavo. 
In una di quelle occasioni il truccatore riuscì a smaltarmi di rosso le unghie di una mano senza che me ne accorgessi.
Qualche giorno prima i macchinisti si erano liberati di un’incombenza insegnandomi a battere il ciak. Io ci andavo pazzo e loro potevano dedicarsi, senza interruzioni, ai movimenti del carrello che Vancini elaborava. Quel giorno, quando l’operatore urlò “Ciak in campo !” mi precipitai a piazzare la tavoletta davanti al viso di Franco Nero, impugnandola con la mano dalle unghie smaltate.
Stavo girando il mio primo vero film, ricoprivo due ruoli che mi erano stati scaricati addosso da persone che li consideravano un fastidio e lo stavo facendo bene, con entusiasmo, e adesso stavano tutti ridendo di me.
Dopo il primo istante di smarrimento e mortificazione provai una specie di inatteso sollievo: ero stato iniziato, ero in squadra, lo capivo.
Le loro risate, invece di ferire, all’improvviso confortavano: erano il segno di un’accettazione.
E in effetti l’atteggiamento di tutti cambiò, anche se impercettibilmente. Sentivo che nel loro modo di vedere non ero più, o non soltanto, il pivello neofita.
Alessandro, l’assistente operatore, lanciava a cadenze regolari, nella confusione delle voci prima delle riprese, un “Quaranta metri !” o un “Cambio chassis ! Spezzone da venti” e io sapevo che quel messaggio era per me, lo decifravo automaticamente tra le altre parole che si intrecciavano. Molte piccole cose come questa mi inorgoglivano.
L’hotel mi pareva una specie di castello incantato. Le camere erano antiquate, persino scomode secondo parametri moderni, ma  intrise di trascorso.
Si pranzava in una grande sala dai soffitti altissimi, in stoviglie che conservavano tracce dorate dei loro originali arabeschi zecchini, le posate erano d’argento, scalfite e levigate come vecchi arnesi d’artigiano.
Pioveva spesso e la luce ingrigita del cielo, riflessa dal lago che lambiva la mezzaluna di un belvedere proprio fuori dell’hotel, al di là della strada, si riverberava in quegli ambienti dimenticati come la conferma di un commiato.
Non so come, un bel giorno, lo scenografo/costumista sia venuto a conoscenza della stanza dell’inglese.
Era disabitata da mesi e la vecchia signora che se l’era riservata fissa, per anni, era sparita.
In genere, durante i suoi frequenti viaggi, faceva pervenire con regolarità i pagamenti alla direzione. Per qualcosa come vent’anni si era concessa il lusso di tenere la stanza anche quando stava via per mesi. Una stanza senza bagno. Identica alla mia, un piano più su.
Ora la direzione non sapeva come comportarsi, perché la camera era stipata all’inverosimile di oggetti di proprietà della vecchia signora. Non sapevano chi contattare per segnalare la situazione, ma non ci si erano ancora disposti a immagazzinare alla rinfusa in qualche ripostiglio il contenuto della camera, probabilmente nel timore di veder riapparire all’improvviso l’ eccentrica, ineccepibile e ventennale cliente dell’hotel.
A quel punto, in direzione, devono aver pensato che un piccolo contributo, in attesa del decidere sul da farsi, inaspettatamente ottenuto noleggiando alla produzione qualcosa che servisse alla scena, rappresentasse una scorrettezza veniale.
Così, un sabato, mentre il resto della troupe affrontava il pomeriggio di cielo coperto e vento umido con partite a scopone nelle malinconiche verande dell’hotel, io penetravo nel santuario. Al seguito dello scenografo che mi aveva precettato per dargli una mano.
La camera era stretta e lunga, esattamente come la mia, ma piena come un magazzino.
Due grandi armadi, un cassettone, uno scrittoio; pareva che, tranne che per il letto, la dotazione della stanza della vecchia signora inglese fosse stata, col tempo, raddoppiata.
E quegli armadi, quei cassetti, si rivelarono la più preziosa e struggente delle miniere per chi i tesori li cerca nelle pieghe delle vite umane.
Mentre lo scenografo/costumista si inebriava d’un guardaroba che forniva capi adatti alla Gloria Swanson di “Viale del tramonto” così come altri, perfetti per miss Marple, io frugavo con liturgico rispetto nel mondo di quell’anziana, sconosciuta signora.
Il numero di lettere, cartoline, vecchie fotografie su cartoncino era praticamente sterminato. C’erano poi rubriche, agende, diari fitti di una calligrafia precisa e indecifrabile, e ancora curiosi soprammobili, oggetti di cui si poteva solo supporre la funzione, vecchi dischi di bachelite a 78 giri, una cornamusa.
Sullo scrittoio, semisepolta sotto un cumulo di romanzi con i titoli in oro sul dorso della copertina, c’era una scatola.
Una banale scatola di legno, lunga una trentina di centimetri e piuttosto stretta.
Non so perché abbia attirato la mia attenzione: tutto quanto mi circondava era a portata di mano e molto più suggestivo, però sta di fatto che la liberai dal carico di libri e spinsi il gancetto infilato nell’anello che la teneva chiusa.
All’interno, separate tra loro da un dovizioso lavoro di scansie ad intreccio, c’erano delle piccole lastre di vetro rettangolari. Ne estrassi una e la osservai in controluce. Erano fotografie. O meglio, era la stessa immagine riprodotta due volte, appaiate, su vetro.
Avevo letto da qualche parte di quel procedimento antiquato che permetteva una visione stereoscopica dell’immagine,  qualcosa che somigliava al principio dei miei wiew-master di bambino. E proprio ripensando a quei miei dischetti dell’infanzia immaginai che doveva esserci anche un visore.
Era in fondo ad uno dei cassetti.
Due lenti come di binocolo incassate in una scatolina di legno pregiato, con una targhetta in rilievo che portava i nomi dei fabbricanti londinesi e una fessura in cui infilare le lastre.
Puntando il visore controluce e impugnandolo, per l’appunto, come un binocolo, le immagini in bianco e nero comparivano in un’inattesa prospettiva tridimensionale.
C’erano uomini e donne in abiti ottocenteschi, giardini, cani, spiagge, c’era probabilmente molta della giovinezza della vecchia signora, che mi convincevo di individuare qui e là, tra quei fantasmi di sconosciuti che raccoglievano la luce del pomeriggio triste sul lago di Como per guardarmi austeri, o sorridermi, dal Sussex, dal lago Turkana o da Jaipur.
Nel frattempo lo scenografo aveva trovato quello che gli occorreva. Lo aiutai a trasportare tutto al suo quartier generale.
Quando, verso la fine della lavorazione, mi occupai di riportare le cose nella stanza della vecchia signora e risistemarle al meglio, da solo, in quella desolata tenerezza d’abbandono, mi appropriai del visore e delle lastre e mi rifugiai, con l’affanno di un rapinatore di banche, in camera mia.
Non mi limitai a contemplare le lastre nei momenti liberi, con deliberata fraudolenza le tenni definitivamente per me.
Non so se la vecchia signora inglese sia più tornata all’hotel Victoria, suppongo di no, e immagino che tutto ciò che quella stanza conteneva sia poi finito chissà dove, chissà a chi. Così ho confortato i miei saltuari ed affranti sensi di colpa per quel furto dicendomi che, se non altro, quel frammento di memoria era in buone mani.
Dopo qualche anno – in uno di quei momenti in cui decido di svuotare la stiva, liberandomi di molto di ciò che mi appartiene, intenzionato a cambiar vita, luoghi, relazioni e convinto dell’opportunità del “viaggiar leggero” – ho regalato il visore e la scatola delle lastre ad uno dei miei più cari amici di allora, Speedy, forse il meno equipaggiato emotivamente a comprendere la pregnanza di quegli oggetti, ma nello stesso tempo così legato a me da farmi supporre che sarebbero stati custoditi come reliquie.
Non ci vediamo, per mia scelta, da moltissimi anni.
So che è molto cambiato, è diventato ricco ed ha investito tutte le sue risorse nel proteggere ed esibire questa ricchezza. Mi auguro che il visore e le lastre non abbiano fatto le spese del suo nuovo status e del mio essermi allontanato, ma se così fosse sono certo che la vecchia signora avrà tutto compreso e perdonato.



DIGRESSIONE


Nel frattempo il legame affettivo con Speedy si è solidamente ricostituito e lui mi ha dato una lezione riguardo a quelle lastre e a quel visore. Semplicemente con una fotografia.



 

 FINE DIGRESSIONE




In quel di Menaggio, comunque, l’attività ferveva senza sosta.
Era arrivato un nuovo assistente alla regia, Francesco Rognoni, nipote d’un ministro d’allora, fresco di laurea, spiritoso e devoto, che inaspettatamente mi metteva nella posizione di avere un subalterno.
Poco dopo il suo arrivo andammo ad effettuare delle riprese a Lugano.
Il mattino della trasferta, in attesa della partenza, mi ero attardato ad osservare la carta geografica sbiadita, incorniciata in fondo all’ingresso dell’hotel. E all’improvviso lo sguardo si era posato su Friburgo.
La mappa era circoscritta alla zona dei laghi e ad una porzione di territorio svizzero corrispondente. Friburgo era lì, neppure molto distante.
E Caroline, un indimenticato amore parigino che risaliva a quasi dieci anni prima viveva lì.
Me lo aveva detto sua madre qualche tempo prima, quando in un soprassalto di inebriata nostalgia, avevo chiamato il suo numero di Malakoff.
La madre aveva aggiunto che a Friburgo Caroline ci viveva con un marito e un figlio ma questo, per me, allora, non rappresentava né un ostacolo né una remora.
Non ricordo come fossi riuscito ad estorcere il numero di telefono, comunque avevo chiamato Friburgo.
Lei era stata dapprima guardinga, poi, via via, si era quasi entusiasmata per quella mia ricomparsa.
Si era fatta promettere che mi sarei ancora fatto vivo, che avremmo cercato di rivederci.
Quello sguardo sulla carta geografica diceva che era venuto il momento di mantenere la promessa.
La chiamai il giorno dopo, a mezzogiorno.
Lei manifestò la stessa sorpresa un po’ artificiosa della nostra prima telefonata.
Le dissi dov’ero e cosa stavo facendo.  Aggiunsi che non eravamo lontani, che io ero libero dal sabato pomeriggio alla domenica sera.
Mi chiese di richiamarla entro un’ora. E dopo un’ora aveva programmato tutto. Aveva sistemato marito e figlio con non so quale stratagemma, e mi annunciò l’orario d’arrivo del suo treno a Domodossola.
Ci saremmo incontrati a metà strada.
Trascorsi il tempo che ci separava in preda ad un’eccitazione della quale il mio segretariato di edizione risentì non poco. E finalmente, un sabato all’una, senza neppure aver pranzato, partii.
Arrivai a Domodossola in anticipo, mi piazzai in cima al binario, ma quando il treno entrò in stazione non resistetti e mi avviai lungo la banchina, scrutando col batticuore le passeggere che scaturivano dai portelloni.
Io non ricordavo né il viso né la voce di Caroline.
Non possedevo sue fotografie ed avevo sovrapposto al ricordo adolescenziale che sbiadiva, un’icona forse arbitraria, dove riccioli neri e occhi azzurri s’armonizzavano a un giaccone afghano, a un paesaggio innevato, ad un paio di canzoni.
Così, in quel momento, mi resi conto con angoscia che non avevo elementi per riconoscerla.
Mi stavo maledicendo per non aver pensato di stabilire tra noi un accordo atto ad individuarci reciprocamente. Tipo un fiore bianco all’occhiello,  o una copia del Times sotto il braccio.
Quando la signora mi si fermò accanto mi ero ormai rassegnato all’idea che io e Caroline non ci saremmo riconosciuti.
La signora mi rivolse la parola e, con un impercettibile accenno interrogativo, pronunciò il mio nome.
Io, dunque, ero riconoscibile.
Lei no.
La donna che avevo di fronte era avvolta in un mantello foderato di pelliccia, sfoggiava un corto taglio di capelli molto accurato, indossava una sofisticata montatura d’occhiali da vista, che non impediva allo sguardo di rivelare più curiosità che emozione.
Ci abbracciammo con un po’ d’impaccio.
Io cercai di non scrutarla troppo, disarmato dalla sensazione di trovarmi di fronte ad una persona che, in base a ciò che restava del mio ricordo, non avevo mai visto prima.
Mi appropriai con enfasi cavalleresca della sua borsa da viaggio griffata e la scortai alla macchina.
Non avevo piani. Mi ero affidato completamente alla certezza che, una volta ritrovati, il mondo sarebbe di nuovo stato nostro come in quel lontano inverno del ’69.
Così girovagai per strade che non conoscevo, allontanandomi frettolosamente da Domodossola come se, mettendo spazio tra noi e il luogo dell’incontro, potessi esorcizzare quell’estraneità che mi sedeva accanto e conversava con entusiasmo.
Parlò quasi sempre lei: rievocò il suo trascorso praticamente a partire dal momento in cui ci eravamo separati, ad una stazione della metropolitana di Parigi.
“Non sono stata carina con te” disse con un accenno di risatina complice, liquidando quell’istante lontano.
Accennò con agile noncuranza al naufragio del suo matrimonio, ancora in corso d’opera, ebbe parole di tenerezza per il figlioletto Mathieu e introdusse il tema della grande svolta della sua vita.
Intanto scendeva la sera. Con questa era calata una nebbia che si infittiva sempre di più, ed io non avevo la più pallida idea di dove ci trovassimo e dove stessimo andando.
Approdammo, dio sa come, al lago d’Orta.
Dal nebbione impenetrabile in cui stavamo naufragando senza che Caroline se ne rendesse conto, comparve all’improvviso l’isola luminosa di un approdo: l’insegna di un hotel.
Il conforto di un rifugio insperato mi liberò dallo sconcerto in cui tutta quella nebbia e tutta quella donna mi avevano precipitato.
Una volta in camera ripresi il controllo della situazione. Si sarebbe cenato  entro un’ora e il ristorante dell’hotel pareva che godesse di una certa notorietà. Caroline non aveva esitato di fronte alla scelta di una stanza matrimoniale.
Si liberò del mantello. Indossava scarpe coi tacchi alti, un tailleur elegante, calze velate nere.
Non tergiversammo.
Mi riservò la sorpresa di un formidabile apparato di biancheria intima sexy.
Ci avventammo sul letto e lei iniziò a farneticare, offrendosi, invitandomi a prenderla come se fosse la ragazzina vergine di quando ci eravamo conosciuti e che, quando ci eravamo lasciati, vergine lo era ancora. 
Feci del mio meglio, ma anche a distanza così ravvicinata, di quella ragazzina non trovai traccia.
Caroline era una bella donna, con un fisico attraente, ma in quello che stavamo praticando, improvvisamente, si insinuò qualcosa di malinconico, persino di un poco ridicolo, insomma di malincomico.
Lei simulò un orgasmo con ammirevole virtuosismo, io raggiunsi il mio distratto dall’oscillare tumultuoso dei suoi orecchini.
Nella tregua del dopo, azzardai qualche tentativo di rievocazione dei nostri giorni andati, a Parigi, ma soprattutto a Sauze d’Oulx.
Io avevo eletto quel periodo a pietra angolare della mia esistenza. Non mi aspettavo che lei avesse fatto altrettanto, ma neppure ero preparato alla distaccata approssimazione con cui aveva conservato frammenti nebulosi di quell’epoca.
Non si ricordava di Giorgio, liquidò la sua amica Virginie con un inciso al vetriolo definendola sostanzialmente una stronza, e alla fine mi parve che fosse un poco tediata da quel mio insistere nel tentativo di ricondurla là dove non aveva nessun interesse a tornare.
Mi blandì, cercando di distrarmi con qualche tenerezza erotica, e tornò ad insinuare nella conversazione il tema della grande svolta della sua vita.
Che fu quello sul quale argomentò per il resto della serata, durante la cena e fino a prima che, tornati in camera, si rintuzzasse la manovra erotica, come ragionevole intervallo prima di tornare all’argomento principale.
Vale a dire Scientology.
Caroline era un’adepta.
Mano a mano che il suo discettare ci distanziava ancora di più, mi rendevo conto che la sua smemoratezza, riguardo al nostro passato, era il risultato del suo fanatico abbraccio alla setta.
C’era stato, nella sua vita, un prima, trascurabile, e un dopo, con il pensiero ossessivamente proiettato in un’unica direzione.
E la prima sensazione, già di per sè un po’ mortificante ma accettabile, che fosse lì con me per distrarsi temporaneamente dalle pastoie matrimoniali, si trasformò nella quasi certezza che fosse venuta a fare opera di proselitismo.
Dalla borsa griffata, assieme ad un baby-doll trasparente per la notte, estrasse una serie di pubblicazioni: una biografia di Ron Hubbard, libri scritti da lui, persino una storia di Scientology a fumetti.
Erano regali per me.
Mi rifugiai nel sonno.
Il mattino dopo restai per un’ora a mollo nella vasca da bagno, risolvendomi a fingere interesse nei confronti di Scientology. Le assicurai che avrei letto tutto e che l’avrei richiamata. Lei confessò che stava iniziando le pratiche di separazione dal marito. Me lo confidò come a suggerire un’ipotesi di relazione futura tra noi che mi fece rabbrividire. Per un momento mi vidi da qualche parte in un condominio svizzero a impratichirmi nella teorie delle nostre origini aliene.
Chi era quella donna ? E che ne era di Caroline Kobel ?
Tornammo a Domodossola. L’accompagnai al treno. Ressi la parte fino in fondo, come del resto era inevitabile. Le lasciai il mio indirizzo e il numero di telefono, entrambi falsi, aspettai la partenza e la guardai sparire dietro i riflessi del finestrino in movimento.
Ricordo che durante il viaggio che mi riconduceva all’hotel Victoria avevo pensato di aver affrontato qualcosa per cui valeva la pena di piangere, e mi pare anche di averci provato, ma non sono sicuro d’esserci riuscito.







Tornare sul set fu sbrigativamente terapeutico. Non avevo nessuno cui confidare ciò che avevo sperimentato. Così misi da parte.
Ultimammo le riprese a Varese, nella villa di Morselli in stato d’abbandono.
Presto il nuovo proprietario l’avrebbe trasformata, forse abbattuta.
Mi affacciai in ogni stanza deserta, immaginai l’uomo, i suoi passi su quei pavimenti, il suo stupito tormento di fronte al rifiuto sistematico di tutta l’editoria italiana nei confronti dei suoi libri.
Il un angolo, tra calcinacci, trovai una piccola chiave di foggia antiquata. Me la infilai in tasca. Il film era finito.
Tornammo a Roma.
La chiave, da qualche parte, ce l’ho ancora, i libri di Hubbard no.








Quando Vancini iniziò a montare, alla Fono Roma, mi capitava di andare a trovarlo in moviola.
Mi ci intrufolavo dopo aver chiesto con le dovute cautele di poter assistere, ogni tanto.
Nel buio della salette stavo in disparte, arretrato, scrutando i gesti essenziali e rapidi del montatore, rivedendo con iniziale meraviglia le scene girate.
Un giorno, durante la pausa, in mensa sedemmo insieme ad Avati e al suo montatore. Pupi era, con suo fratello Antonio, socio di Minervini, e quindi produttore del film di Vancini. Di suo stava montando qualcosa di televisivo, mi pare.
Era simpatico, brillante, con la goliardica allegria del miracolato. In effetti i suoi esordi erano stati così anomali e poco promettenti che la sua condizione attuale pareva davvero una distrazione del destino.
A me i suoi film piacevano. Al di là dei risultati ne percepivo l’energia, la spinta espressiva che li aveva guidati, magari barcollando, ma senza indugi.
Oggi che i suoi film non mi piacciono più e che la sua esuberanza guascona è stata soppiantata da una saccenteria pedante, ho nostalgia dei giorni pieni di invenzioni che ho conosciuto con la banda Avati. Giorni che in quell’occasione, alla Fono Roma, erano ancora lontani.
Pupi fu così gentile che, qualche tempo dopo, mi sentii autorizzato a sottoporgli una mia sceneggiatura: “La luna in tasca”.
La lesse Antonio. Disse che la storia gli era piaciuta , che per certi versi aveva dei tratti comuni a quelle che mettevano loro in cantiere, ma che, per il momento,  loro due producevano solo lavori di Pupi.
Tornai a Torino verso la fine di aprile.
Avevo venduto la Beaulieu e l’avevo sostituita con una Canon 1014 nuova.
Mi lanciai nella realizzazione di due cortometraggi in super 8, convinto che l’esperienza sul set mi avrebbe permesso di ottenere risultati più convincenti del precedenti.
“Concertino” e “Maggio” avevano in effetti qualcosa in più dei loro precursori, perlomeno dal punto di vista della comprensibilità, ma mi conforta sapere che oggi ne esistano solo copie mutilate e frammentarie. La loro eventuale visione, in queste condizioni, può sempre far supporre che i lavori, nella loro interezza, non fossero male.




 Giorgio Oggero e Antì Stoppelli in "Concertino"



 Antì, sempre in "Concertino"


Nell’allora piccolo mondo degli aspiranti registi che si arrabattavano con il passo ridotto vigeva una specie di orgoglio di casta. Noi eravamo quelli che si arrangiavano, senza mezzi né capitali. “Io sono un autarchico” di Nanni Moretti era il nostro vessillo.
E proprio allora nascevano modeste occasioni di visibilità.
Un antesignano nell’individuarle e cercare di sfruttarle era stato Vincenzo Badolisani.
Vincenzo era un prolifico realizzatore di cortometraggi in super 8, che firmava con lo pseudonimo di Castrenze Scrudato, e aveva inoltre fondato un simulacro di struttura distributiva, la Ruggiu Film, per tutti quei lavori senza destino, se non domestico, che erano i nostri.
Grazie a Vincenzo “Maggio” venne selezionato al 1° Festival Cinema Giovani di Torino, nel 1982...











...e inserito nelle rassegne dei “Punti Verdi”, organizzate dal Comune l’anno successivo.
La realizzazione di “Maggio” era stata piuttosto eccitante.
Riccardo Donna, che aveva trovato lavoro come cameraman al GRP, una delle neonate televisioni ”libere” di allora, fungeva da operatore di macchina; un suo collega, Salvatore Collarino, si assunse il ruolo di direttore della fotografia, ingegnandosi con qualche illuminatore al quarzo.
Il set era la casa di campagna dei fratelli Oggero, a Villafranca d’Asti. L’edificio ottocentesco si affacciava da un poggio si declivi sereni di vigneti e boschetti. All’interno conservava tutta la decadente e suggestiva usura d’un tempo che pareva essersi fermato all’epoca dei loro nonni e bisnonni.






Dei due fratelli Roberto fungeva da anfitrione mentre Giorgio era, con me e Speedy, uno dei protagonisti maschili del film.
La troupe, di proporzioni modeste ma significative per un’occasione del genere, bivaccava su brande allineate in una grande stanza dell’ultimo piano.
Dietro suggerimento di Riccardo avevo noleggiato, in un negozio di articoli sanitari, una sedia a rotelle per invalidi che permise carrellate di inattesa efficacia.
Roberto aveva una fidanzata, Rossella, molto espansiva e con un viso che ricordava quello di Liza Minnelli. La scelsi come protagonista femminile.
Inaspettatamente Torino non sembrava più un luogo improduttivo da cui fuggire.
Corrado Franco, detto Cippo, stava realizzando un film in super 8 – “Al riparo da sguardi indiscreti” – con impavide energie e un dispiego di mezzi mai visto.
La storia era per buona parte ambientata all’interno del Movie Club, storica sala d’essai dell’epoca, ospitata all’interno di un edificio curioso, di proprietà di qualche congregazione religiosa e che, sotto la sala nascondeva una cripta, con una cappella sconsacrata. Vi si poteva accedere, attraverso un periplo macchinoso ma non impraticabile, direttamente dal cinema.






Per Cippo era una manna. L’opportunità di sottolineare il rapporto metaforico tra liturgia religiosa e laica, tra la chiesa dei fedeli tout court e quella dove si officiavano le novene di Bergman, Bresson e Bunuel lo spingeva all’impostazione di un vertiginoso andirivieni dalla sala alla cripta e viceversa, macchina da presa a mano, con il pubblico che, essendo lo stesso nell’un luogo e nell’altro, doveva precedere la macchina, secondo un disegno complesso di rincorse affannate.
Avevo fatto parte di quel pubblico per un intero pomeriggio, ripetendo all’infinito la stessa scena. Io e Antì Stoppelli impersonavamo i fidanzati che si baciano nell’ultima fila. Che cosa ci toccasse fare in chiesa non ricordo.
La meticolosità di Cippo era esasperante, ma lui era buffo. Accettai la sua proposta di andare insieme al Festival di Venezia.






“Un dramma borghese” di Vancini era stato selezionato per la rassegna e per me si presentava l’occasione di partecipare ad un festival importante con una ragione che non fosse dettata dalla mera cinefilia.
Ci installammo in una pensione al Lido.
Cippo mi presentò ad altri che, come noi, aspiravano a quel mondo. Alcuni fingevano di disprezzarlo, ostentavano originalità imbarazzanti, tentavano di intrufolarsi con un’incredibile faccia tosta a feste e proiezioni riservate. Tornare a casa fu un sollievo.
In autunno incontrai una vecchia conoscenza, Marco Casalegno. 







Lo convinsi a seguirmi, in realtà piuttosto recalcitrante, per un fine settimana a Parma.
Mi piaceva, volevo che fosse mio amico, aspiravo alla sua considerazione, in qualche modo credo volessi esibirlo, ed esibire a lui i miei amici di Parma.
Tra loro una mia vecchia fiamma ospitava in quei giorni una ragazza di Milano, Luisa, reduce da un viaggio in centro america.






Me ne innamorai come, forse, non mi era mai accaduto prima: con disperazione e capriccio. Mi buttai alle spalle la storia con Antì, senza tener conto neppure per un istante della sofferenza che potevo infliggere, accantonai i progetti di ritorno a Roma, rinunciai a coltivare l’amicizia con Marco.
Assediai Luisa nella sua casa di via Andrea Verga, a Milano, e quando finalmente si arrese mi dedicai completamente ad accondiscendere ai suoi progetti, che erano diametralmente opposti ai miei.
Mi dimenticai del Cinema.
Alla fine del ’79 vendetti la casa che i miei mi avevano lasciato a Torino e finii a Londra, inseguendo un sogno sciocco, immaginando una definitiva trasferta oltreoceano con lei.
Quando Luisa decise che per noi due, insieme, non c’era futuro e partì da sola per gli Stati Uniti, io tornai in Italia.
La lunga stagione d’inerzia disperata che ne seguì si protrasse per più di un anno, fino alla primavera del 1981.
Durante la primavera dell’ ’80 mi cimentai con una nuova sceneggiatura.
Ci trasferii la mia sconfitta nobilitandola con le connotazioni di una scelta volontaria ed attribuendola ad un protagonista laconico e seducente. In un lungo periplo motociclistico estivo il mio giovanotto pellegrinava in luoghi del cuore ritrovando amori e amicizie cui impartire, con distacco zen, provvidenziali insegnamenti di vita. Un delirio.
In estate il mio amico Speedy si preoccupò di rintracciarmi a casa dei miei, a Rueglio, dove mi ero rintanato a coltivare la mia ciclotimia.
Mi trascinò a Varigotti e mi presentò a Ronci Zeller, una signora ebrea che, secondo lui, grazie alle sue conoscenze, poteva essermi d’aiuto.
Ronci era una persona cortese, con cortissimi capelli grigi, un menàge familiare indecifrabile, tre figli adulti, una nipotina di nome Panda.
Una sera, chiacchierando sulla spiaggia, se ne uscì dicendo che la sua amica Monica – solo dopo qualche minuto capii che si riferiva alla Vitti – lamentava una certa prevedibilità nei copioni che le sottoponevano. Disse che lei aspirava a ruoli nuovi, originali, svincolati dai clichés della commedia all’italiana.
Tornai alle montagne e scrissi “Morning Star Point”, una sceneggiatura pensata con la Vitti come protagionista, ambientata in una zona remota del South Dakota, drammatica, piena d’azione e suspense.
Quando, dopo neppure un mese, la sottoposi al giudizio di Ronci lei si limitò a dire “Monica ha paura dell’aereo”.
Non entrò nel merito della storia. Non espresse giudizi.



 ...a casa sua in campagna, a fine d'anno...


Decise che non poteva presentarla alla sua amica perché comunque lei non sarebbe mai salita su un aereo per raggiungere le Grandi Pianure.
Malgrado questi inciampi un po’ surreali e la radicale assenza di prospettive, cercavo di non soccombere definitivamente.
Con il mio amico Pierangelo, che in quel periodo non era messo meglio di me, decidemmo di andare a Parigi per il 14 luglio.
Mi era sempre piaciuto andare a Parigi. L’avevo sempre inteso come un gesto  catarchico,  vagamente salvifico.
Partimmo.
Io portai con me Teresa, che avevo appena conosciuto e che mi era anche un poco antipatica, ma che mi attraeva come chiunque non appartenesse al mondo piccino in cui mi ero rincantucciato come in un rifugio temporaneo che, in realtà, si stava rivelando un’inumazione.






A Parigi non fece che piovere per tutto il tempo.
Teresa si rivelò ancor più tetragona di quanto non avessi sospettato.
Un pomeriggio, che pareva di novembre, andammo a vedere “The Long Riders”. In lingua originale, mi pare addirittura senza sottotitoli.
Una folgorazione.
All’uscita trascinai Pierangelo e Teresa fino Alla Western House di avenue de la Grande Armée dove mi comprai uno spolverino impermeabile che mi arrivava fino ai piedi. Perfetto per quei giorni di pioggia insistente e, soprattutto, dopo la visione di quel film.
Ad una FNAC trovai la colonna sonora scritta da Ry Cooder.
Il giorno seguente tornammo a casa.
Sul treno, stracarico di turisti, Teresa sedeva accanto al finestrino con aria imbronciata. Pierangelo cercava di tagliare l’aria tra noi, senza successo.
Mentre fumavo in corridoio dallo scompartimento accanto al nostro fece capolino una ragazza.
Sbuffò per il caldo e mi sorrise.
Si lamentò della temperatura della carrozza. Parlava correntemente francese con un accento inconsueto.
Si liberò del pull-over con delle movenze così sinuose  da apparire studiate.
Nello sfilarlo dal collo la maglietta che indossava sotto si sollevò per un istante fino al seno, senza che lei facesse nulla per trattenerla.
Riemerse dal golf allegramente.
Si chiamava Andrée, era canadese del Quebéc.
Intendeva raggiungere Firenze, Roma, Napoli poi, forse, la Grecia.
Scese dal treno con noi all’alba, e si fermò da me per un mese.





























2 commenti:

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  2. il mio commento , caro Pit e' che a Roma avevo le idee chiare. L'entusiasmo me le avevi passato tu in parte tu e inoltre oltre ad averla vissuta da bambina, da ragazzina insieme al papà Roma rappresentava per me la Libertà perchè finito il Movimento studentesco tutti rientravano nei soliti ruoli borghese, le corti, i pettegolezzi. Tutto quello che detestavo sen da piccola, avendo passato gran parte della mia vita in campagna, sugli alberi, nel fiume, con i mezzadri a pestare l'uva e a raccogliere le piccole mele piu' buone. A cavallo sulle colline tra i pioppi vicino agli argini di un fiume; e la sera con gli amici di campagna a rincorrere le lucciole. Roma a quell'epoca, era come se fosse ancora negli anni 70. "L'estate romana " di Nicolini fu qualcosa di grandioso, irripetibile. Teatrini off con ancora Carmelo Bene e Leo e Perla di sera che a Villa Borghese improvvisavano i loro spettacoli. Schermi sparsi in tutta Roma, dai Fori Imperiali a Villa Ada. Tutto era gratuito. Vedevamo i films fino all'alba , dentro al saccoa pelo e sopra di noi un'arcata di stelle. Roma oltre alla scuola di mimo e recitazione che feci e che mi dette una grande gioia , una succursale di quella di Marcel Marceaux, durante gli studi di Filosofia e poi la Laurea in Estetica che voleva dire Cinema, mi riporto' a casa, cioè riapri' quello che vivevi tu ed altri, la mia passione per la sceneggiatura e per la regia. Alessandra

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