giovedì 3 febbraio 2011

WHITTLING - UN MESTIERE (terza parte)








1981/1983



Da quell’estate dell’ottanta doveva trascorrere quasi un intero altro anno prima che trovassi la determinazione e la disperazione necessarie per tentare di riaffiorare.
E ripartii per Parigi, da solo.
Ciò che accadde durante quel soggiorno ho provato a descriverlo, romanzando ampiamente, in un racconto intitolato “Khir”. L’aspetto più significativo fu comunque senz’altro quello del ritrovamento di un’inaspettata energia.
Quando tornai in Italia andai a Parma, dove incontrai Mario Gruzza, che nel frattempo si era fidanzato con Alessandra Fornari e viveva con lei in una nuova casa a Roma.
Partimmo insieme per la capitale, in treno. All’arrivo, nel tratto di strada che da Stazione Termini portava a corso Trieste, attraverso i finestrini dell’autobus intravidi su un cartellone il manifesto di un film di Avati: “Aiutami a sognare”.
Depositammo i bagagli nella nuova casa, un appartamento in via delle Alpi, una zona tranquillissima, come assopita in un’atmosfera di paese, una specie di miracolo, cui allora non davamo peso, distante meno di un minuto a piedi dalla convulsione del traffico romano.
Alessandra non c’era. Con Mario consultammo le pagine degli spettacoli sul “Messaggero” nel bar-latteria sotto casa. Il film di Pupi era all’ultimo giorno di programmazione al Capranichetta.
Non ricordo che effetto sortì su Mario “Aiutami a sognare”. Su di me fu imponente.
Il fatto che Pupi fosse riuscito a realizzare un film italiano nel 1980 nello spirito della commedia musicale americana degli anni quaranta mi aveva stregato.
Il giorno dopo telefonai all’AMA film. Mancavo da Roma da più di un anno.
Oggi può sembrare incredibile, ma dissi chi ero e che desideravo parlare con Pupi e me lo passarono.
Quando il destino decide di giocare in squadra con te gli ostacoli abituali, ed anche quelli eccezionali, svaniscono. La sensazione è quella di essere trascinati da una vigorosa fluidità. A volte non dura che una mezza giornata, altre – molto più raramente -  contraddistingue un periodo più lungo.
Dopo l’opaca prostrazione del mio 1980 uno di quei periodi, per me, stava cominciando. Ne avevo già percepito le avvisaglie a Parigi, ed ora ero lì, che dal telefono a gettoni della latteria sotto casa, chiamavo un regista affermato con il quale non avevo scambiato che qualche parola più di un anno prima, e gli stavo chiedendo se avesse lavoro per me.
Pupi non ricordava che ruolo avessi ricoperto nel film di Vancini. Quando risposi che avevo curato l’edizione disse che ancora non avevano affidato quell’incarico.
      - Passa domani e ne parliamo – concluse.
Era stato tutto così semplice. Rientrai all’appartamento. Alessandra era tornata. Lei e Mario stavano litigando. Furiosamente.
Impiegai del tempo a capire, poi, che si trattava di una componente un po’ patologica del loro modo di amarsi.
In quel momento volevo solo che partecipassero della mia stupefatta allegria e, in qualche modo, riuscii a riappacificarli.
Il giorno dopo ero da Pupi.
Stavano preparando un film per la RAI in tre puntate: “Dancing Paradise”. Una fiaba musicale, un omaggio allo swing e alla comicità surreale, le cose che lui amava e sapeva trattare meglio.
Mi ingaggiarono. Firmai un contratto per qualcosa come dieci settimane di lavorazione. Avrei avuto una busta paga settimanale, una diaria, un vero lavoro. E non solo.
Per i primi tempi Pupi ci riunì nel suo ufficio e lì, con suo fratello Antonio, Gianni Cavina e Carlo Delle Piane, cercavamo di arricchire a più mani l’ordito della sceneggiatura, che era ancora in una fase suscettibile di varianti.
In un negozio di articoli da campeggio avevo comprato una brandina militare smontabile e l’avevo sistemata in una delle stanze semivuote dell’appartamento di Alessandra. Lei era innamorata e infelice, e non riuscivo più a trasmetterle quella spensieratezza complice, che aveva contraddistinto la nostra amicizia fino ad allora.
Mario era imperscrutabile. Riflessivo e distaccato. Tendevano a circoscrivere il loro mondo. Ad isolarsi. Io tentavo di trascinarli con me, di distoglierli dall’ombrosa immobilità di quel primo piano in via delle Alpi, ma loro parevano aspirare a rendersi ostaggi l’una dell’altro, oscillando tra attrazione e risentimento reciproci.
A Roma, in quel periodo, c’era anche Cippo.
Attraverso l’Università di Torino, Rondolino, il Movie Club e non so chi altro, era riuscito ad ottenere un finanziamento per “gonfiare” il suo super 8, “Al riparo da sguardi indiscreti”, a 16 mm., e riconfiguare tutta la parte audio.
Ci accordammo per un appuntamento.
Non so come le avesse conosciute, ma in quel periodo lui frequentava due amiche. La cosa curiosa è che quelle due amiche io le avevo già incontrate a Parigi, anni prima.
Di quella lontana occasione non ricordo nient’altro che la casa dei genitori di una delle due: Matilde. Come ci fossi arrivato e con chi, mistero. Mi resta quest’immagine di soggiorno in penombra, tra mobili antichi, tappeti orientali, soprammobili d’argento, e su una poltroncina d’angolo l’altra delle due amiche, Silvia, bionda come una bambina svedese, incantevole.
Matilde Bocchi era figlia del corrispondente del “Corriere della Sera”, e viveva in Francia da anni, ma la famiglia era originaria di Parma, imparentata con gli Alpi e i Bertolucci.
Ci eravamo quindi incrociati presumibilmente a Parma, in qualche cirscostanza. Silvia era rimasta, invece, nient’altro che quel miraggio assopito, in poltroncina, definitivamente a Parigi. Ed ora, a distanza di anni, eccole lì. Amiche di Cippo.
Scoprii che Silvia era figlia del giornalista Lino Jannuzzi e che lei e Matilde avevano preso casa in affitto insieme, a Roma, vagheggiando imprecise ambizioni cinematografiche.
Quando Pupi decise che i nostri incontri non erano fruttuosi come aveva sperato si avventò da solo sull’elaborazione definitiva della sceneggiatura,  così mi ritrovai con un sacco di tempo libero, prima dell’inizio della lavorazione.
Mi pare si fosse verso la fine di giugno e non avremmo iniziato le riprese che ad agosto, a Bologna.
Cippo era sempre molto indaffarato con il suo film, ma doveva essersi anche innamorato di Silvia, e la corteggiava con una maldestrìa esemplare, fieramente infantile.
Matilde presenziava, sempre un po’ sulle sue, vegliando sull’amica con un’assiduità chioccesca. Silvia pareva non avvertire la tensione di quelle attenzioni incrociate. Eravamo un quartetto male assortito, ma Silvia piaceva anche a me, così stavo nel gioco in apparente distrazione, in attesa. Poi lei lanciò l’idea di andare al mare. Aveva una casa a Scario, in Calabria, dove viveva la nonna, e dove già si trovavano suo fratello e sua sorella, più giovani. Cippo tentò in ogni modo di farle cambiare idea. Non poteva abbandonare il suo film, e comunque non sapeva nuotare.
Lei, sempre sorridente, blandì il risentimento di lui e organizzò la partenza.
Ci ritrovammo un mattino, in uno strano clima cospiratorio, lei Matilde ed io, sulla sua Mini Morris. Poi all’improvviso si materializzò suo padre e ci bloccò. Niente auto. Non so di cosa avesse paura ma fu irremovibile. Saltò fuori che Silvia gli aveva mentito, dicendo che saremmo partiti in treno. Cosa che, a quel punto, divenne obbligatoria.
Scario era un paesino affacciato su un bel mare.
La casa dei Jannuzzi era appoggiata sugli scogli. Ci accolse la nonna, completamente sorda. Ci sistemammo in una dependance, una grande stanza piena di letti disposti secondo una geometria capricciosa, con porte finestre affacciate sul mare. Iniziò la nostra breve vacanza. In assenza di Cippo avevo deciso di tentare un piccolo assedio al cuore di Silvia. Lei continuava a risultare imprevedibile, amichevole e distante allo stesso tempo.
Bevevamo molto, fumavamo un sacco di erba e scorazzavamo per strade deserte a picco sul mare su un dune-buggy che tenevano lì, per l’estate.
A volte comparivano amici napoletani, che ci portavano sui loro motoscafi in giro per cale e spiaggette nascoste. Guidavano a velocità spericolate, costringendoci ad aggrapparci ai bordi, squassati dall’urto dello scafo sull’ onda, esposti, nei nostri pallori metropolitani, ad un sole già ferocemente canicolare.
Matilde era ombrosa, guardinga, e non sembrava gradire che io mi dedicassi, sia pur con apparente ironica leggerezza, al corteggiamento di Silvia.
Taceva, ma il suo atteggiamento protettivo nei confronti dell’amica si era quasi militarizzato. Non c’era momento, di giorno o di notte, che non fosse tra noi. Così, dopo una delle nostre serate di baldoria, nella grande stanza con le porte finestre spalancate sui baluginii argentei della luna sul mare, l’odore di salsedine che fluttuava molle, sorretto da una brezza quieta, il soporifero gorgogliare di piccole onde tra gli scogli, mi dichiarai.
Ad alta voce, complici il buio, le canne e il vino bianco.
Ne seguì un silenzio, rotto inizialmente dal grugnire del riso trattenuto della sorella e del fratello di Silvia, poco più che bambini e che come tali reagivano, di fronte all’esternazione di un sentimento che, a quell’età, favorisce un imbarazzo che il ridere contrasta con efficacia. Poi esplosero. Sghignazzavano con sussulti acuti, incontenibili. Prese a ridere anche Silvia. Mi rassegnai a ridacchiare anch’io, riconoscendomi ridicolo. Non so se abbia riso anche Matilde.
Non se ne parlò più, né l’indomani né il giorno appresso, che era anche quello della nostra partenza.
Approfittammo di mare e sole fino al tardo pomeriggio, poco prima che sorella, fratello e un amico napoletano ci accompagnassero  alla stazione.
Non ricordo che cosa, all’ultimo momento, Matilde si sia ricordata  fare. C’era tempo prima dell’arrivo del treno.
E lei si allontanò.
Poi il convoglio entrò in stazione, io e Silvia salimmo, ancora fiduciosi. Quando il treno partì di Matilde non scorgemmo che la figura affannata sopraggiungere al binario, e rimpicciolire, immobile e costernata, sulla banchina che si allontanava.
Alla stazione successiva un annuncio dell’altoparlante ci invitava a scendere, e ad attendere l’espresso successivo. La voce gracchiante che si rivolgeva a noi ci fece sussultare. L’ingerenza invasiva di Matilde dovette irritare anche Silvia, perché decidemmo di non scendere, accordandoci con una semplice occhiata ed un’alzata di spalle. La prospettiva di trascorrere parte della notte sulla panca di una sala d’attesa decrepita, in una stazioncina deserta, disarmò qualsiasi disponibilità ad accettare l’invito,  che tra l’altro era suonato come un ordine.
Silvia disse che sicuramente Matilde si sarebbe rassegnata a prendere il treno del mattino dopo. Io annuii con convinzione e dedicai il resto del viaggio ad un corteggiamento serratissimo.
Arrivammo a Roma nel cuore della notte. Quando il taxi si fermò sotto casa di lei scendemmo tutti e due. Fino a quel momento Silvia non aveva accondisceso alle mie profferte, si era limitata ad ascoltarmi come se le stessi raccontando qualcosa di buffo. Solo un estremo ottimismo avrebbe potuto interpretare quell’atteggiamento come un assenso. Ora però, mentre il taxi si allontanava, lei infilò le chiavi nel portone, si voltò a sorridermi e rese tutto più semplice.
Gettammo i bagagli in un angolo, ci aggrovigliammo sulla moquette dell’ingresso, spogliandoci come se avessimo gli abiti in fiamme. Dopo esserci affrontati  in qualcosa che era più simile ad un tentativo reciproco di immobilizzarci che non a un amplesso, ci abbandonammo esausti, e in quella stanchezza confortata parlammo a sussurri, un po’ meravigliati l’uno dell’altra.
Quale treno sia riuscita a prendere Matilde non si sa, di quale coincidenza sia riuscita ad approfittare all’ultimo istante neppure, sta di fatto che alle prime luci dell’alba, mentre io e Silvia, inebriati di stanchezza, sonnecchiavamo abbracciati, la chiave nella toppa ci allertò simultaneamente.
Si spalancò la porta d’ingresso e una Matilde come non avevo mai visto, né mai avrei immaginato di vedere, ci si parò dinanzi con uno sguardo di ferocia e di dolore posato su noi due, che ci affannavamo a raccogliere gli abiti sparpagliati attorno, a metterci in piedi, vergognosi ed esausti, e disarmati.
Le cose che disse, o meglio che urlò, mi chiarirono tutti gli aspetti della questione, portandomi a chiedermi come non mi fosse venuto neppure un sospetto.
Si rivolgeva esclusivamente a Silvia. A me non concesse che occasionali sguardi di odio definitivo.
Parlava d’amore: amore tradito, amore tra loro due. Lo faceva con furia e dolore. Silvia teneva lo sguardo abbassato sui piedi nudi, accavallati in una posa infantile. Non rispose mai. Alzò per un istante gli occhi su di me per dire “Tu vai ! vai !…”
Sgusciai tra Matilde e i bagagli, rivestito con approssimazione.
L’occhiata che mi rivolse era insostenibile, intrisa d’avversione e nello stesso tempo si sarebbe potuto dire che nemmeno mi vedesse.
Trascorsero giorni senza che riuscissi a saper nulla. Neppure tramite Cippo che, in qualità di amico mio, aveva subito un parziale ostracismo di cui non si capacitava.
Intanto i preparativi per l’inizio del film di Avati entrarono in una fase di concitazione che, in parte, mi distraeva dal pensiero di Silvia.
Quando ormai non ci speravo più riuscì a farmi arrivare un messaggio. Matilde andava a Parigi. Il giorno successivo anche lei sarebbe partita, per un soggiorno di studio in Inghilterra.
In pratica mi avvertì che avevamo una notte a disposizione, e di quella notte approfittammo.
Occupai, nel letto ad una piazza e mezza, il posto di Matilde con un leggero, inaspettato, disagio. Contrariamente alla nostra prima volta fummo meno concitati. Sicuramente più discorsivi.
Silvia metteva nel fare l’amore una curiosa nota apparentemente dolente, inappagata. Tendevo ad imputarlo alla sua bisessualità, che mi appariva piuttosto confusa, poi le mi raccontò di un suo primo amore, un ragazzo di Milano, un sanbabilino fascista che l’aveva iniziata al sesso in maniera piuttosto brutale, un notte al mare, su un gommone ancorato al largo.
Per quanto nutrisse risentimento per quel tipo, e detestasse il fatto d’esser stata poco meno che violentata, ammetteva d’esserne stata innamorata e anche, malgrado tutto, di non disdegnare, occasionalmente, quel modo di fare sesso.
Prima Lesbo e ora il Fronte della Gioventù. Erano rivali al di sopra delle mie risorse e delle mie capacità di comprensione. Mi augurai che la tenerezza che le stavo dedicando per quella prima, e unica, notte insieme, si incuneasse tra i suoi fantasmi.
Il giorno dopo ci alzammo prestissimo. Dovevo accompagnarla al terminal in macchina e poi depositare la sua Mini nel garage del residence dove vivevano i suoi.
Nel primo mattino romano estivo, ancora parzialmente immune dal caos del traffico, viaggiammo in silenzio. Ci accomiatammo con un piccolo abbraccio. Dissi che l’avrei chiamata al numero che mi aveva lasciato, in Inghilterra. Lei rispose “Va bene” con il tono di chi non ci crede, ma fa lo stesso.
Un paio di giorni dopo lasciavo Roma per Bologna.









Malgrado fossi stato ingaggiato con un’assunzione all’ufficio di collocamento, che mi avrebbe garantito una busta paga settimanale e una piccola diaria, in produzione mi avevano notificato che, per la sistemazione a Bologna, avrei dovuto arrangiarmi.

La troupe romana era alloggiata in un hotel dietro piazza Maggiore. Io ero stato ascritto d’ufficio a quella parte d’organico che faceva capo a Cesare Bastelli, l’aiuto bolognese di Pupi, che raccoglieva attorno a sé aspiranti cinematografari a vario titolo, tutti di Bologna, e ai quali affidava mansioni e ruoli che l’economica ed approssimata organizzazione del circo Avati lasciava vacanti.

Fortunatamente la Ciochi, la mia vecchia amica dei tempi di Parma, si era iscritta all’università a Bologna. Aveva un piccolo appartamento ad un pianterreno di via Riva Reno quasi all’angolo con via S.Felice, vuoto nei mesi estivi della lavorazione del film, e me lo mise a disposizione.

Ero stato assunto come segretario di edizione, ma alla prima riunione, in una saletta del’hotel dietro piazza Maggiore, mi incaricarono, insieme ad un segretario di produzione, di andare a ritirare degli strumenti musicali e in particolare un sassofono, che avrebbe accompagnato Gianni Cavina, uno dei due protagonisti insieme a Carlo Delle Piane, per tutta la durata del film.

Ma non solo. Dopo aver ritirato lo strumento, dovevamo provvedere ad “adeguare” scenograficamente la custodia: il classico catafalco rivestito in similpelle nera. Per farlo avevamo a disposizione dei fogli adesivi plastificati, a disegni floreali, e un paio di taglierine. La raccomandazione – generica ed incongrua, visto il tipo di intervento – era di “fare attenzione”,  perché gli strumenti erano a noleggio, e andavano restituiti alla fine della lavorazione.
Io ero furioso per quell’incombenza ma il ragazzo che, con me, doveva trasformare la custodia del sax in una specie di carpet-bag, aveva reagito senza traccia di stizza, anzi, con pacata professionalità. C’era un lavoro da fare e pareva intenzionato a farlo bene. Tutto lì. Il suo nome era Luca Bitterlin.















Da allora sono passati più di vent’anni. Ci sentiamo raramente, ma penso di poter dire che siamo amici. Di quelli che, anche se si rivedono dopo secoli, non hanno incertezze, riprendono là dove hanno interrotto come se il tempo non fosse passato. Ho lavorato altre volte con Luca. Abbiamo condiviso una stagione piuttosto vivace, e comunque per noi memorabile, della vita del Cinema.
Lui, partendo da quel pomeriggio con i fogli adesivi che si incollavano dappertutto, tranne che sulla custodia del sax, ha fatto strada, fino ai vertici della produzione.
Con lui, in quella troupe, ce n’erano altri che poi sarebbero diventati quelli che, indipendentemente dall’assiduità nel frequentarsi, si possono chiamare a pieno titolo amici. Persone a cui vuoi bene, definitivamente.
La trama del film, come in alcune delle cose migliori di Avati, era fiabesca, a tratti surreale, costellata di occasioni musicali.
Al nostro seguito c’era spesso la dixieland band in cui Pupi aveva militato da ragazzo con il suo clarino, composta ormai da professionisti quasi austeri, che appena potevano sfuggivano ai loro studi d’avvocato o di dentista, ai loro uffici di direttori di banca o alle loro farmacie, per aggregarsi alla nostra carovana zingaresca con lo spirito di ragazzini che tagliano da scuola.
Il film era una specie di road movie, in cui un angelo sgangherato, interpretato da Carlo Delle Piane, accompagna Gianni Cavina alla ricerca del padre sconosciuto, mitico ballerino di tip tap. Il tutto attraverso insospettabili luoghi del bolognese, che grazie all’immaginifica visionarietà di Pupi, ospitavano personaggi comici, grotteschi, a volte perfino commoventi.




Carlo Delle Piane, Pit e Caterina Sylos Labini







Eravamo in Emilia Romagna, ma attorno a noi palpitava una specie di Alabama, certe figure ricordavano quelle tratteggiate dalla penna dalla McCullers e dalla O’Connor. Mi piaceva molto.
L’intreccio non lo ricordo per nulla, malgrado il mio ruolo mi costringesse a tenerlo costantemente sotto controllo. Pupi si atteneva alla sceneggiatura con parecchia libertà. L’improvvisazione era sempre in agguato. Estenuati dalla canicola gli attori non prestavano attenzione alla continuità, confondendo spesso i costumi. Gli oggetti di scena comparivano e scomparivano come sotto il tocco di un prestigiatore, eppure tutto sembrava funzionare.
Nella squadra di assistenti c’era Paolo Cottignola, un ragazzone allegro che sapeva fare tutto: il fonico, l’operatore, il montatore, l’elettricista, e poi Vittorio Bagnasco, scrupoloso assistente operatore di Firenze. Loro con Bitterlin e Bacchi divennero i miei amici.






...e qui ci tocca anticipare questa foto della troupe
del film girato l'anno dopo - Zeder - perchè ci sono
tutti. Cottignola il primo a destra, accucciato,
Bacchi a torso nudo dietro Gabriele Lavia, Bastelli
seminascosto sulla destra, in piedi, Bagnasco 
sorridente al centro in piedi, e poi Pupi e suo fratello 
Antonio quarto in piedi da sinistra...




Nella fase di preparazione a Roma un giorno avevo incontrato una ragazza sul portone d’ingresso dell’AMA film. Adesso era lì, con un ruolo di segretaria di produzione. Avevo sentito parlare di lei.
Cecilia era figlia di quel Paolo Valmarana, dirigente Rai, aristocratico appassionato di Cinema, al quale si doveva l’avvio della partecipazione della televisione alle produzioni cinematografiche.
Oggi pare scontato che un film si possa vedere in T.V. poco dopo il suo passaggio nelle sale, ma prima dell’intuizione di Valmarana i film, in Italia, arrivavano al piccolo schermo anche dopo anni dall’uscita, alla fine di estenuanti percorsi di seconde e terze visioni.
In pratica un film o lo vedevi al cinema o era perduto, per anni.  Cecilia doveva sobbarcarsi il peso di cotanto padre.
L’ho sempre vista intenta a dimostrare di meritare i ruoli che ricopriva, di non averli ottenuti per nepotismo, tesa ad espletare i suoi compiti meglio degli altri, in una specie di gara spossante.
Certo tutto questo non mi è stato chiaro da subito.
All’inizio ci limitavamo a sorprenderci l’un l’altro, mentre ci osservavamo di soppiatto. Poi l’avevo invitata a cena. Era venuta nell’appartamento della Ciochi. Prima di andarsene aveva detto che il giorno dopo avremmo dovuto comportarci come se tra noi non ci fosse stato nulla.







da sinistra Cecilia, Antonio, Pit, Pupi
e Cesare Bastelli in piedi.





Preferì tornare in albergo da sola.
Nei primi giorni ci comportammo come aveva stabilito, fingendo, sul set, un’indifferenza reciproca persino un poco esagerata. La sera facevamo i fidanzati a casa della Ciochi.
Fu lei a decidere, senza preavviso, la sospensione della pantomima pubblica. Un giorno mi concesse delle effusioni inattese, di fronte a tutti. Restai lì, un po’ basito. Nessuno diede segno di meraviglia, la nostra relazione fu accolta con simpatia.
Un mattino, da una cabina di quelle sedi SIP che oggi non esistono più, chiamai Silvia a Londra. Scambiammo poche parole piuttosto malinconiche, almeno per me, senza mai dichiarare il nostro distacco ma affermandolo nella nostra sollecitudine a voler por termine a quella conversazione, così tristemente formale. Non ci dicemmo né che ci saremmo risentiti né che ci saremmo rivisti. Poco dopo il set di Dancing Paradise prese il sopravvento sulla malinconia.
Mentre sul set di Vancini l’ appartenenza alla troupe bastava da sola a soddisfare la mia ambizione, e l’ansia da prestazione mi costringeva a concentrarmi soprattutto sui miei compiti, nel film di Pupi l’orizzonte si allargò.
Avati possedeva una notevole abilità nel farti sentire parte di un clan, di una famiglia allargata, che intraprendeva una specie di viaggio esplorativo, vagamente iniziatico, in spazi riconoscibili che si esotizzavano sotto il tocco  del suo immaginario. Ogni giorno giravamo un pezzo del suo film ma eravamo anche dentro un film, dentro una storia che si dipanava in parallelo a quella raccontata e nella quale, almeno per me, era inevitabile sentirsi attori. I personaggi che i due protagonisti incontravano nel loro periplo, a volte si aveva l’impressione che ci capitassero di fronte per caso, e non in ragione di un piano di lavorazione. Pupi sceglieva attori che non avevo mai visto né sentito nominare, e che spesso realizzavano là per là performances imprevedibili, sollecitati dalla spinta provocatoria del regista o dal loro dilettantismo stralunato.











C’era sempre musica.
Sempre qualcuno che stava suonando un clarino o una tromba. Che fosse di scena o no. Bambini che ballavano il tip tap e sembravano usciti da una foto scattata durante la Depressione in Louisiana.















Faticavamo come muli, arroventati dall’estate emiliana, ma ogni giorno era ricco di sorprese. Avevo nuovi amici e una fidanzata, che a volte mi metteva a disagio, durante il giorno, per il suo efficientismo manageriale, distaccato, ma di notte fiammeggiava  a casa di Ciochi.
Mi capitarono anche ospiti imprevisti. Prima Ronci Zeller, che si fermò per un paio di giorni.
Venne accolta con cortesia da Pupi e dalla troupe, ma si rivelò imprevedibilmente disorientata. Abituata ad essere al centro della sua piccola corte, in quelle torride giornate, tra campi di mais e strade sterrate, boccheggiava un po’ stordita, imbarazzata dal suo essere sempre tra i piedi nella formicolante attività del set.
Poi arrivò anche mia madre, di ritorno da una vacanza al mare, al sud.
Di lei fu meno facile liberarsi. Fraternizzò con gli Avati, improvvisò un costume adamitico con foglie di fico per Cavina, risolvendo un problema al costumista e alla sarta, si adattò per affinità all’efficiente confusione della compagine. In pochi giorni era diventata parte dell’organico. Faticai a convincerla che mio padre poteva sentire la sua mancanza.
Pochi giorni dopo, a sorpresa, sul set capitò Luisa.  Anche lei reduce da non so quale vacanza. Era abbronzata e stanca.
Cecilia drizzò le antenne, la trattò con distacco un po’ altezzoso, io la presentai come una mia vecchia amica. Alla fine della giornata l’accompagnai alla casa di Ciochi. Cecilia si rifiutò di venire con noi, accampò ragioni di lavoro, cose di cui parlare con Pupi a cena, telefonate a Roma. Baciandomi ringhiò, in un sussurro sorridente “Domani deve essere partita”. Io risposi di sì.













Luisa attendeva, a pochi passi di distanza.
Poco più di un anno prima ero stato innamorato di lei in modo così infantile ed eccessivo che, a ripensarci, provavo imbarazzo.
Adesso, che camminavamo affiancati per le strade semideserte, mi meravigliavo di quel sentimento così virulento. Cautamente cercavo, in via sperimentale, di rievocarne frammenti, senza riuscirci.
Preparai la cena mentre lei si concedeva una lunghissima doccia.
Riapparve avvolta nell’accappatoio, ristorata.
Mi rivolse uno sguardo che mi sembrò di riconoscere.
Sapevo farla ridere. Non era una cosa che mi riusciva con tutte. Starle vicino, non so perché, stimolava il mio senso dell’umorismo, una certa componente autoironica che la divertiva moltissimo. Era un aspetto di cui andavo piuttosto fiero. Era stato così anche all’inizio, al tempo del mio forsennato innamoramento. Adesso, libero da quel sentimento ingombrante e rissoso, riuscivo a fare anche di meglio.
Fu una bella serata. Prima di addormentarci le dissi di Cecilia.
Lei capì. Partì il giorno dopo, nella luce vitrea e nel silenzio dell’alba. Io mi incamminai verso l’hotel, lei verso la stazione.
Cecilia inalberò per tutta la giornata una specie di broncio sospettoso, che sconfissi mentendo sapientemente.
Con una gradualità impercettibile, o almeno che io non avevo percepito, lei aveva stabilito che il nostro rapporto meritava una stabilità, un’opportunità di consolidarsi, e senza inizialmente farmene partecipe, si era attivata per fornirla, quella possibilità.
Cecilia era volitiva. La sua infanzia e la sua adolescenza erano state contraddistinte dalla separazione dei genitori, dai loro rispettivi nuovi matrimoni, dalla nascita di sorellastre.
Malgrado il privilegio di casta, che la collocava ben al di sopra della media delle persone comuni, aveva dovuto battagliare sin da piccola per ottenere quello che un bambino, in genere, riceve gratis, e cioè affetto in un mondo familiare, rassicurante, equilibrato.
Dal momento che aveva deciso che io ero adatto al suo scopo, e che probabilmente aveva individuato in me la debolezza del lasciare le cose al caso, alla fine della lavorazione mi mise spavaldamente di fronte al fatto compiuto.










Aveva subaffittato a Roma l’appartamento di Lidia Ravera,  trasferitasi per qualche tempo sul litorale, con marito e figlio. Disse che avremmo potuto andarci a vivere insieme.
Si trattava di un passo che non solo non avevo mai affrontato, ma nemmeno preso in considerazione.
Mi spaventava e tentava quest’abdicazione al mio modo di vivere.
C’era però il ritorno a Roma, il lavoro nel Cinema, una compagna molto determinata, un po’ formale nella vita pubblica ma con caratteristiche, nell’intimità, che per molto tempo dopo la nostra separazione rappresentarono un riferimento privilegiato per le mie fantasie masturbatorie.
E poi l’appartamento che avremmo occupato era in via degli Zingari al 50. Un indirizzo irresistibile, un numero civico che corrispondeva al mio anno di nascita.
Così scesi a Roma per la seconda volta.







Via degli Zingari è un budello di quel quartiere, compresso tra via Nazionale e via Cavour, che sembra paese, con bottegai lì da sempre, gente che in quelle strade c’è nata, nel cuore di Roma e lontanissima dal suo essere metropoli. O almeno così era quando ci approdai in quell’ottobre del 1981.
La casa era a due piani, con un ingresso cui si accedeva direttamente dalla strada, senza marciapiede. Dal pianterreno, oscuro e poco invitante, saliva una scala che conduceva a due ballatoi, sul primo si affacciava il nostro appartamento, sterminato e perennemente in penombra, al secondo abitava la padrona di casa, nonché fonte di molti guai per il tempo – neppure un anno – che restammo in quel posto.
Lidia ci aveva infatti subaffittato l’appartamento, omettendo di segnalare un dettaglio che a lei doveva esser parso irrilevante, e cioè che era sotto sfratto, ai ferri corti con la proprietaria e con altre pendenze che affiorarono col passare del tempo.
La padrona di casa ci procurò la visita di vigili urbani, carabinieri e non ricordo quali altri rappresentanti delle forze dell’ordine. Noi, tardivamente ammaestrati da Lidia, ci dichiaravamo ospiti. Manifestavamo meraviglia e inconsapevolezza.
Il contenzioso procedette senza che io e Cecilia rinunciassimo a ricevere ospiti e organizzare feste. Tutti i pavimenti erano ricoperti d’una moquette marrone, riccioluta e restia ad arrendersi ai nostri volonterosi passaggi di battitappeto.
Le pareti erano rivestite d’una tappezzeria floreale, incombente ed ipnotica, incerta nel disegno tra il provenzale e lo psichedelico, orrenda in tutte le tonalità che andavano dal beige al testa di moro.
Però era la nostra casa, la prima casa di una coppietta che si avventurava nella convivenza senza istruzioni sul da farsi.
In camera da letto avevamo una libreria che occupava un’intera parete ed arrivava al soffitto. Gremita di libri che Lidia e suo marito Mimmo avevano lasciato lì, apparentemente senza rimpianti. Disponemmo anche di un pianoforte, almeno fino al momento in cui se lo portarono via gli uscieri del tribunale.
Nel complesso le cose non erano per niente male. L’unico neo era che il tempo passava e non spuntavano occasioni di lavoro all’orizzonte. Non per me, almeno. A Cecilia andava meglio, lei era quasi sempre attiva. Ma c’era l’affitto da pagare, le spese della vita romana. Riuscii fortunosamente a vendere un sassofono tramite Valerio Zecca, l’aiuto di Vancini che avevo ripreso a frequentare dopo il mio arrivo, poi fu la volta di una catenina d’oro di peso sufficiente a garantire quasi un mese di sopravvivenza. Alla fine accettai l’offerta che mi era arrivata, tramite Cecilia, dal secondo marito della seconda moglie di suo padre. Un architetto che si occupava dell’allestimento di mostre per il Comune di Roma. Quella che aveva in preparazione riguardava gli ori degli Etruschi. Ai Fori Imperiali.
Mi presentai all’appuntamento. L’architetto fu cortese ma non affabile. Pareva temere le conseguenze di una possibile familiarità d’atteggiamento che – certo non poteva saperlo – io mi sarei fatto seppellire vivo piuttosto che tentare.
Fino a quel momento non mi ero chiesto, neppure per un istante, quale ruolo mi sarei visto offrire. Ero fiducioso, un po’ stordito, distratto. Così, anche dopo che fu chiaro, continuai per un poco a non capacitarmene. Non ero neppure mortificato, ero silenziosamente sbalordito.
L’architetto mi accompagnò nell’ampio salone che sarebbe stato teatro della mostra, mi presentò al caposquadra e se ne andò. Il caposquadra non si perse in convenevoli. Mi disse di presentarmi al pomeriggio, dopo la pausa del pranzo.
Tornando a casa, che per fortuna si raggiungeva con una passeggiata - foriera in quell’occasione di desolate riflessioni – mi fermai in una bottega di abiti usati dove acquistai una salopette Osh Kosh B Gosh di un paio di taglie più grandi della mia, due camicie di flanella scozzese, una felpa dell’Università del Colorado. Da un pizzicagnolo comprai prosciutto, pane, una vaschetta d’insalata russa. Una volta a casa consumai il pasto appoggiato su un angolo del tavolo di cucina, fissando la porta scrostata del frigorifero. Alle due, infagottato nella mia divisa improvvisata, mi presentai al caposquadra.
Gli altri, tutti ragazzi sui vent’anni, avevano già ripreso il lavoro. Mi rivolsero brevi occhiate, apparentemente distratte. Dopo un paio di giorni realizzai che quelle occhiate di sguincio avevano nascosto una curiosità probabilmente divertita. Non sapevano nulla di me, tranne che era evidente che non avevo nessuna esperienza e che ero stato presentato dal boss in persona, elementi sufficienti a fare di me un estraneo definitivo, cui non era necessario esprimere solidarietà, anzi.
Così mi appiopparono il soffitto.
Si trattava di riverniciarlo tutto, putrelle a vista comprese. A smalto.
Lo smalto andrebbe escluso dalla categoria vernici ed ascritto a pieno titolo alla categoria colle.
Nella categoria degli spazi da verniciare niente è così estenuante come un soffitto. Il novellino, cioè io, era cascato a fagiolo. Il soffitto era sterminato.
Mi dotarono di scala, pennelli, latte di colore e intrapresi così il mio lavoro di imbianchino.
Lo praticai in silenzio e scrupolosamente, per giorni. Nella pausa pranzo tornavo a casa, ad ingurgitare un panino che avrei potuto consumare tranquillamente sul posto, evitandomi una scarpinata, forse aprendo uno spiraglio di comunicazione con i “colleghi”. Ma non lo feci.
Cecilia mi pare fosse, allora, a Bologna, sul set di un film di Bellocchio. Ogni tanto, la sera telefonava. Mi chiedeva come andava. Io rispondevo che andava bene. Avevo la schiena a pezzi, il collo indolenzito, i muscoli delle spalle e delle braccia rigidi come tralicci. Lei non si era meravigliata che la generosa offerta del secondo marito della ex seconda moglie di suo padre consistesse in un lavoro d’imbianchino o, se se ne era meravigliata, lo aveva dissimulato a meraviglia.
Cecilia era un po’ così. Legata ad un concetto di clan cui concedeva piene e aprioritarie assoluzioni, e alla cui appartenenza, pur volendomi bene, credo ritenesse dovessi accedere previ rituali di asservimento iniziatico.
Io abbozzai, determinato a ricostruirmi la vita di prima.
Rintracciai Silvia. Ci rivedemmo. Poi cercai una vecchia conoscenza di Torino, trasferita da alcuni anni a Roma.
A Torino non ci eravamo frequentati un granché. Molti anni prima avevo vissuto un fulmineo ed evanescente flirt con sua sorella, con lei, invece, avevamo più che altro duettato in canzoncine a casa d’amici. Due voci, due chitarre. Lei aveva una tonalità esile ma molto intonata, sicura. Era minuta, pareva fragile, ma mi metteva, chissà perché, un po’ a disagio.
Dopo appena qualche anno la distanza tra noi si rivelò ancora più profonda. Non avevamo niente in comune e stentavamo a raggiungere non solo un grado accettabile di confidenza, ma addirittura di comunicazione. Eppure, in quei giorni d’inverno romano abbandonato, diventammo amanti. Con incontri saltuari, pressoché muti.
Morì suo padre ed io non la cercai, non tentai neppure un gesto di formale partecipazione. Mi nascosi.
E lei, comprensibilmente, non me lo perdonò.
Quando provai a farmi vivo, mesi dopo, come se nulla fosse, mi impartì una lezione su quanto una vocina tenue possa risultare ferma, risoluta, e quanto severe possano essere le parole che può trovare per farti capire, con rammarico, che miserabile pezzo di merda tu abbia saputo essere.
Portai a termine il mio lavoro di imbianchino e simulai riconoscenza nei confronti dell’architetto al punto che la moglie di lui – nonché ex moglie del padre di Cecilia – mi offrì di lavorare all’inventario del magazzino del suo negozio di antiquariato.
Così trascorsi parecchio tempo in uno scantinato stipato di arredi e suppellettili, etichettando doviziosamente, compilando in stampatello cartellini che ricopiavo dai precedenti, ingialliti ed accartocciati.















Terminò comunque anche quella breve esperienza. I miei, da casa, forse intuendo che non navigavo in acque tranquille, avevano cominciato a foraggiarmi con una certa generosità. Ricominciai quindi a guardarmi attorno, per cercare ingaggi cinematografici. Cecilia aveva visto delle foto che avevo scattato anni prima e, per parte sua, aveva iniziato a promuovermi come fotografo di scena. Lei viaggiava e io tenevo la postazione in via degli Zingari.
Per un certo periodo quell’appartamento divenne punto d’incontro per un gruppetto che avrebbe meritato, forse, maggior fortuna.
Valerio Zecca, il mio mentore sul set di “Un dramma borghese”, viveva con Marilù Prati e con il figlio di lei, un ragazzino imbronciato di nome Carletto.



Marilù






Marilù era attrice, amica di Monica Scattini, attrice anche lei, e che avevo conosciuto sul set di “Dancing Paradise”, dove aveva sostenuto una piccola parte. Monica era a sua volta amica di Francesca Marciano, protagonista del primo film di successo di Pupi: “La casa delle finestre che ridono”, e che ora, incerta di fronte alla prospettiva di un futuro d’attrice, era attratta piuttosto dalla scrittura, scelta che ha poi abbracciato con successo negli anni successivi.
In quell’inverno a cavallo tra l’81 e l’82 eravamo ancora tutti scalpitanti ai blocchi di partenza. Valerio aveva trovato parte dei finanziamenti per un suo film, Monica e Francesca erano da poco rientrate da New York, dove avevano condiviso un appartamento con Stefania Casini, in cui raccontavano d’aver ospitato, tra gli altri, un aspirante regista squattrinato e fanatico che si chiamava Oliver Stone.
Ogni tanto, di pomeriggio, ci si trovava tutti in via degli Zingari e si pensava a qualcosa da realizzare insieme. Più che altro Valerio strimpellava al pianoforte – prima che gli uscieri del tribunale venissero a sequestrarlo – il fidanzato di Francesca, Italo Spinelli, se ne stava appartato e ombroso a fumare e noi si chiacchierava. Fino a che, in uno di quei pomeriggi, feci trovare loro il trattamento per le prime due puntate di un progetto seriale televisivo. Un road movie con tre protagoniste componenti di un gruppo punk, che viaggiano attraverso il paese affrontando avventure e concerti.
Valerio e le ragazze ci presero gusto.
Non ricordo cosa non funzionò. Forse Valerio iniziò il suo film, forse le ragazze vennero scritturate, forse doveva andare così e basta.
Nel frattempo Francesca mi aveva messo in contatto con una rivistina, alla quale collaborava saltuariamente, una pubblicazione di poche pagine patinate che fungeva da inserto del periodico “La settimana a Roma”.
Trattava di spettacolo e addentellati, aveva qualche pretesa grafica, veniva finanziata da quel colosso che rivelò presto i suoi piedi d’argilla che era la Gaumont Italia e da Savelli, che attraversava allora una fase di interregno editoriale, poco dopo aver abbandonato le pubblicazioni “militanti”, cui facevano riferimento ampie frange della sinistra extraparlamentare.
La redazione della rivista, che si chiamava “Tuttospettacolo”, occupava un grande appartamento non lontano da viale Mazzini e vi si respirava un clima al quale non era difficile ambientarsi: ottimisticamente radicalizzante, cautamente spregiudicato, allegro e fiero di ottenere risultati dalla confusione, dal ritardo cronico, dal saper balzare al volo sul predellino dell’ultimo treno della notte.
Il caporedattore era Mario Canale. Brillante ma inafferrabile, con una dentatura scandalosamente abbandonata ai guasti della carie, inseguiva gli eventi a bordo di una 126 gialla targata Repubblica di S.Marino.
Al nostro primo incontro mi disse che, francamente, non aveva nulla da offrirmi, che il suo organico era al completo, anche per le collaborazioni saltuarie.
Solo alla fine aggiunse, come indulgendo ad un’ipotesi assolutamente improbabile, che se fossi riuscito ad “inventarmi” qualcosa, o a fornire pezzi particolarmente interessanti, li avrebbe presi in considerazione.
Proprio in quei giorni ospitavamo, per decisione strategica di Cecilia, un tipo piuttosto strambo, figlio di un inventore ticinese e che faceva il fotografo a New York. Edo Bertoglio.



Edo e una sua modella



Non so che cosa si fosse inventato suo padre, ma doveva trattarsi di fior di brevetti, dal momento che, grazie al loro appannaggio, Edo poteva permettersi di vivere in un loft di Bleeker Street, frequentando le notti newyorkesi e fotografando.
Ci aveva regalato un paio di stampe 30x40 dei suoi scatti.
Era un ritrattista. Il suo metodo consisteva nel piazzare i soggetti pericolosamente in bilico sul cornicione di qualche tetto e scattare figure intere o primi piani, con lo sfondo metropolitano indistinto ma riconoscibile, in orari di passaggio dal giorno alla notte e viceversa.
Col tempo tra i suoi soggetti avevano cominciato a comparire personaggi conosciuti.
Una foto a Debbie Harry gli aveva fornito l’opportunità di scattare le immagini per la copertina di un disco dei Blondie. Da quel momento in poi, per Edo, la strada – ammesso che mai fosse stata diversa – s’era fatta felicemente in discesa.
Invaghito del talento di Basquiat aveva progettato un film su di lui. Come ci fosse entrato Elio Fiorucci forse Cecilia me lo deve aver spiegato, ma l’ho dimenticato. Così come ho dimenticato in che modo finì con l’entrarci pure lei.
Si incontrarono a Roma, poi a Milano, poi convocarono in Italia Edo, che risultava essere animato da uno spirito acuto ma pericolosamente puerile, e quindi andava tenuto a balia. In via degli Zingari.
Una volta addirittura, in assenza mia e di Cecilia, aveva gestito, con il supporto smarrito del mio amico Speedy, appena arrivato da Torino per una mia festa di compleanno, l’ennesimo blitz organizzato dalla padrona di casa.








Speedy, Cecilia e Pit nella cucina
di via degli Zingari





Vigili Urbani, o Carabinieri che fossero, avevano lasciato il campo disorientati da quel folletto allampanato che sembrava intenzionato a trattenerli, con munifica cortesia.
Edo aveva con se i provini in polaroid di alcuni suoi scatti significativi. Scrissi un pezzo su di lui, allegai le immagini e tornai alla redazione di “Tuttospettacolo”. L’articolo uscì la settimana successiva.











...usavo ancora il nome anagrafico,
l'ho fatto per anni, anche nei titoli
dei miei primi film...





Sempre in quel periodo avevo rivisto Vincenzo Badolisani, il promotore delle pionieristiche avventure torinesi in super 8, primo e storico “distributore” di film a passo ridotto. Era a Roma per qualche misteriosa ragione, naturalmente legata al Cinema. Scrissi anche di lui e anche quell’articolo funzionò, ma ciò che desideravo era di poter contare su una certa continuità, senza dovermi arrabattare per trovare argomenti che troppo spesso non si discostavano da quelli dei redattori ufficiali. Aspiravo inconsapevolmente ad una rubrica, e un giorno ci arrivai.
















Se l’intero apparato di “Tuttospettacolo” non fosse stato così stralunato, forse non avrei osato presentarmi con i primi due articoli dei “Taccuini di Manfred P. Fango”.
In sostanza mi ero inventato questo apprendista giornalista, inviato di un settimanale di pettegolezzi nella Los Angeles degli anni a cavallo tra i ’30 e i ’40. I taccuini erano una specie di diario personale di Fango, che descriveva i retroscena delle sue avventure a caccia di stars hollywoodiane.
Manfred era un giovanotto appena arrivato da Sausalito, con ambizioni letterarie e nessuna dimestichezza con il mondo che tallonava per mestiere. Le sue inchieste erano spesso dei fiaschi, ma le cose che non poteva, o non voleva, raccontare, erano l’essenza dei taccuini.
Scrivevo utilizzando spudoratamente uno stile hard boiled school, mutuato dalle integrali letture di Chandler e Hammett. Davo libero sfogo al mio immaginario rendendolo attendibile con precisi riferimenti storico/geografici.
Una laurea in Storia del Cinema e una mappa dettagliata di Los Angeles, che mio padre aveva riportato da un suo viaggio di lavoro in California, nel 1954, guidavano, su una traccia inoppugnabile, le mie balle su certi episodi della vita privata di Humphrey Bogart o di Jean Harlow.
Edo mi fotografò sullo sfondo vetrato del lungo corridoio di casa, con indosso i suoi occhiali da vista e una coppola come quella di Sean Connery negli “Intoccabili”.











Ero Manfred P. Fango.
E Mario Canale approvò.
Non saprò mai a quale destino mi avrebbe condotto quella rubrica.






...all'inizio avevano 
sbagliato il nome...















...poi, finalmente, ci hanno preso...





Dopo appena due o tre numeri la promozione di Cecilia sortì un risultato inatteso. Venni convocato dalla produzione di “Colpire al cuore”, un film che avrebbe girato Gianni Amelio, e mi offrirono il ruolo di fotografo di scena. Abbandonai Manfred P. Fango all’oblio e firmai il contratto.
Non conoscevo nessuno della troupe e, complessivamente, mancava l’atmosfera goliardica del set di Avati. Anzi, l’ombrosità spesso funerea di Amelio e l’austera supponenza dello staff di produzione mi creavano qualche difficoltà di relazione.
Il direttore della fotografia era Tonino Nardi, un uomo tormentato, morto giovane, il cui sarcasmo aggressivo mi metteva a disagio.
Gli equivoci furono significativi fin dall’inizio.
Avevo affidato la prima partita di rullini per il laboratorio di sviluppo ad un assistente di produzione che si era dimenticato della consegna. L’inaspettata urgenza di foto di scena, per non so quale articolo promozionale, scatenò l’inferno.
Chiesero chiarimenti a me, che ovviamente non ero in grado di fornirne, ma nella produzione c’era la volontà di “coprire” il loro addetto, quindi iniziò un ambiguo palleggiamento d’assunzione di responsabilità,  nel tentativo, non così palese ma nemmeno così dissimulato, di scaricarla su di me.
La stizza di Amelio peggiorava le cose, e non si era che alla fine della prima settimana di lavorazione.
La questione si chiarì e io, che non avevo alternative, mi adattai, tenendomi a distanza.
Feci qualche scatto interessante durante il periodo romano della lavorazione, e finirono col lasciarmi in pace. Intanto ero riuscito a farmi un amico. Inigo Lezzi, l’aiuto regista.
Poteva contare su una vasta esperienza internazionale e su una pazienza invidiabile – forse il riflesso dell’avere un padre psicoanalista – ed era provvisto anche di un altruismo che magari non è la qualità specifica che ci si aspetta da un cineasta, ma che nel nostro mondo piccino fa sempre la differenza.
Non terminò la lavorazione.
Quando ci trasferimmo a Milano, per il proseguimento delle riprese, spiegò alla produzione che ad Amelio un aiuto regista non serviva. Lasciò la lavorazione con eleganza e in silenzio, e fu tutto.
Nel frattempo la padrona di casa era riuscita a trionfare nel suo contenzioso con Lidia. Dovemmo abbandonare frettolosamente la casa di via degli Zingari, ma Cecilia non era il tipo da farsi sorprendere impreparata. Non so come, e tramite chi, scovò un bell’appartamentino in piazza di S. Maria in Trastevere. Di proprietà di un inglese, ad un affitto ragionevole, arredato con sobria eleganza british.
Le due porte finestre del soggiorno erano affacciate sulla piazza.





















Cecilia sprigionava energia, io mi trastullavo con un’infelicità dimessa. Era evidente per tutti e due che le nostre ambizioni non avevano tratti comuni. Anzi, in genere lei mi accusava di non averne per nulla, di ambizioni, e in qualche modo questo corrispondeva alla verità.
Non era quella la vita che volevo vivere.
Non a Roma, non in quel mondo e a quel modo.
L’ebbrezza iniziale delle serate mondane aveva ceduto il passo ad una ritrosia desolata. Lavorare tra gente che mi era indifferente, se non antipatica, mi pareva inaccettabile.
Partii per Milano, indeciso tra l’affanno e il sollievo.
L’atmosfera sul set si era fatta sempre più claustrofobica.
Il piano di lavorazione ora prevedeva una sequenza estenuante di esterni notte. Si lavorava fino all’alba, con infinite ripetizioni di ciak.
Un mattino, verso le cinque, di fronte ad un bar di Bergamo bassa, dove avevamo atteso quell’ora di luce speciale sonnecchiando su scomode sedie di plastica, portai l’occhio al mirino e scattai, incerto sull’esattezza della messa a fuoco.
In fondo al marciapiedi Jean Louis Trintignant stava abbracciando Fausto Rossi, che interpretava suo figlio, in una scena cruciale.
L’obbiettivo, un 80/200mm., era sulla lunghezza di focale massima, la profondità di capo annullata, i contorni sfumati dalla tutta apertura del diaframma.
Al centro, quell’abbraccio: le teste accostate in primo piano, lo sguardo di Trintignant intensamente smarrito.
Tutto questo lo vidi solo dopo l’arrivo della prima stampa.
Avevo scattato una bella fotografia. Senza rendermene assolutamente conto.















Diventò il manifesto del film e venne utilizzata per articoli su quotidiani, riviste di Cinema, copertine di mensili.
E non ho difficoltà ad ammettere che si era trattato di una botta di culo, la conseguenza di un gesto meccanico, probabilmente accompagnato da uno sbadiglio.

















O forse perché quel mattino, a Bergamo, non c’era l’altra fotografa a darmi il tormento.
Con l’arrivo a Milano, Gianni mi aveva chiesto se non avevo nulla in contrario che una sua amica fotografa mi affiancasse ogni tanto, sul set. Mi aveva lasciato intendere che si trattava di un gesto di cortesia dal quale non poteva esimersi.
Lei era la moglie di Alberto Farassino, un critico cinematografico della nuova generazione, molto acuto ed elegante, morto prematuramente pochi anni dopo. Potevo capire che Amelio ci tenesse a blandirlo indirettamente, facendo spazio sul set alla moglie e alla sua sofisticatissima attrezzatura nuova di zecca.
Non ricordo come si chiamasse. Quello che invece non ho dimenticato è il momento in cui, inaspettatamente, a bruciapelo, con livore sprezzante, lei mi disse che io occupavo un ruolo che era suo, che le era stato promesso da Gianni mesi prima dell’inizio della lavorazione. Disse anche che lo avevo ottenuto, scalzandola, grazie al fatto che alle mie spalle c’era Paolo Valmarana.
Ero così frastornato, sbalordito, che non trovai neppure le parole per replicare. Ammutolii, e lei forse capì che, da parte mia, non c’era stata nessuna macchinazione, ma questo non la rese più comprensiva nei miei confronti.
Così ebbi modo di realizzare che il fatto che Paolo Valmarana non intervenisse mai a favore di nessuno, neppure delle sue figlie, poteva considerarsi forse un vezzo, dal momento che figure anche di potere, per omaggiarlo indirettamente, arrivavano ad agevolare non solo proprio quelle figlie, ma addirittura il fidanzato di una di loro.
Se poi costui fosse stato così ingenuamente inconsapevole da poter essere mortificato dalla rivelazione di una persona che, intendendo occupare la sua posizione sfruttando gli stessi criteri di nepotismo, se l’era vista sottrarre solo perché la raccomandazione era meno autorevole, be’, questo era un problema suo. Cioè mio.
Può sembrare realmente ingenuo ma fino a quell’istante, di fronte al rancore di una donna sconosciuta, con le sue costosissime macchine fotografiche appese al collo, io non avevo dubitato d’aver ottenuto quel lavoro grazie al fatto che, in produzione, avessero dato un’occhiata alle fotografie che Cecilia aveva mostrato loro, e si fossero detti, più o meno, ecco il tipo che fa per noi.

















Laura Morante







Tornammo a Roma. Il film terminò con una sospensione a sorpresa della lavorazione, durante le riprese di una scena con Laura Betti, il cui personaggio, nella versione definitiva del film, in effetti non c’é.
Il mio amico Pierangelo era arrivato in visita, nostro ospite per qualche giorno, in piazza di S. Maria in Trastevere. Era eccitato all’idea di assistere alle riprese di un film.
Se ne stette tutto il giorno accoccolato sui gradini d’ingresso della scuola, dove avremmo dovuto girare, circondato da una troupe di sguardi mogi, di gente che subodorava guai. Macchinisti ed elettricisti che chiacchieravano sottovoce, l’assistente ai costumi intenta alle parole crociate, lo stato maggiore asserragliato in una delle aule.
Dopo ore d’attesa, il direttore di produzione venne fuori e ci congedò, invitandoci a passare agli uffici nei giorni successivi. Amelio filò via con la Betti, senza salutare nessuno.
Pierangelo era sconcertato.
Tornammo in S. Maria in Trastevere e fece in tempo ad assistere allo scippo ai danni di una turista straniera, mentre se ne stava affacciato a godersi lo spettacolo della piazza all’imbrunire. Disse che il giorno dopo sarebbe tornato a casa e, ancora adesso che sono passati più di vent’anni, ogni tanto ricorda che risposi “Beato te”.








Amelio e Trintignant







Continuai a coltivare la mia dimessa insoddisfazione fino a che Cecilia, un giorno, annunciò raggiante che aveva trovato un ingaggio per tutti e due: lei in produzione e io come edizione, a Milano, per quattro settimane.
Saremmo tornati a lavorare insieme, come quando ci eravamo conosciuti. Il fatto era che nulla stava più come quando ci eravamo conosciuti.
Nei giorni precedenti la partenza passai a trovare gli Avati.
Avevano in progetto un film da girare, come al solito, durante l’estate. Un thriller macabro, altro cavallo di battaglia dell’azienda. Si sarebbe intitolato “Zeder”. Riuscii a farmi inserire nella troupe come fotografo di scena.
Tornare a Bologna, lavorare ancora con Bitterlin, Bagnasco, Cottignola e gli altri mi pareva un sogno. Non avevo un contratto in mano ma, con cortesia, avevo infilato un piede attraverso la porta.
Il film milanese si intitolava invece “Erba selvatica”.
Faceva parte di un progetto ambizioso e forse un po’ troppo ottimistico.
In quegli anni Milano si era attestata in una posizione di spicco non solo dal punto di vista economico/industriale, ma anche sul fronte politico, culturale, artistico.
La sonnacchiosa e blanda Roma deteneva ancora la piena titolarità di un settore, quello cinematografico, che in quella primavera dell’82 Milano pareva intenzionata a strapparle.
Forte del fatto che, da sempre, il cinema pubblicitario era suo appannaggio, con giri d’affari miliardari, competenze, tecnologia, maestranze, registi e sceneggiatori di tutto rispetto, con il valore aggiunto di un’efficienza che non avrebbe mai accettato di riconoscere a Roma, organizzò un esperimento.
Con il patrocinio della potente sede regionale di Raitre, finanziamenti cospicui e l’affidamento alle più prestigiose case di produzione pubblicitaria, si sarebbe realizzata una serie di film, totalmente lombardi, con un occhio rivolto al mondo.
Cecilia aveva scoperto il progetto durante uno dei suoi soggiorni milanesi, ad incontrare Fiorucci. Aveva conosciuto  uno dei patron della Politecne – potente struttura produttiva pubblicitaria d’allora, che oggi non esiste più – e, in qualche modo, era riuscita a forzare l’orgogliosa autarchia che era alla base del progetto.
“Erba selvatica” era la storia di una puttana. La protagonista era Barbara D’Urso, il magnaccia un riciclato Lou Castel. Una pletora di caratteristi, di misconosciuti attori teatrali, di cabarettisti – ad un certo punto spuntò anche un ex componente dei Gufi – fungeva da contorno.



















Franco Campigotto, il regista, mi pare fosse un interno Rai, simpatico, pieno di entusiasmo, sulla mezza età e con di fronte a sé un’occasione insperata.
Aveva regalato al direttore della fotografia un libro su Edward Hopper, per fargli capire che genere d’atmosfera avrebbe voluto per il suo film. Con me parlava del sogno di realizzare un film tratto da Wheeling, di Hugo Pratt.
Quanto mi resta da dire è che l’esperimento non funzionò.
Dopo il disorientamento provocato dalla modesta riuscita dell’impresa, tutti si riprecipitarono sui pre-production meeting, sugli spot miliardari, sui creativi delle agenzie e i loro brain-storming.















Durante quelle quattro settimane io e Cecilia cercammo di vivificare la nostra relazione, senza molto successo.
Tutti e due sembravamo rassegnati all’idea di lasciare che le cose si smorzassero definitivamente, senza traumi.
Lei aveva progetti articolati e strategie per il futuro, un futuro nel quale, mi rendevo conto, avrei finito col risultare quasi un ingombro. Da Pupi non arrivava nessuna notizia.
Ricominciai un poco a vagabondare, giustificando le mie assenze con la ricerca di lavoro. A Cecilia che io ci fossi o meno sembrava importare poco.
Io, come spesso mi accadeva durante i cali d’autostima, negli smarrimenti e nella confusione che cadenzavano inflessibili la mia esistenza, mi dedicavo all’unica cosa che fino a quel momento mi era quasi sempre riuscita bene. Mi lanciavo in avventure sentimentali. Le cumulavo ed intrecciavo con una certa abilità, riconoscevo le disponibilità ad avventurarsi in qualcosa che non dovesse necessariamente durare ma che, non per questo, dovesse esser privo di empatia.
Durante la fase milanese della lavorazione di “Colpire al cuore” Amelio aveva fatto convocare come comparse, per una scena ambientata in un’aula universitaria, gli allievi dei corsi di una scuola di Cinema, l’”Albedo”, diretta da un paio di amici suoi.
Nel gruppo Antonella era abile nel distinguersi.















Non si poteva considerare una venere ma tutto, nel suo agire, tendeva a convincerti del contrario. Quello che forse era frutto di prove, di studi elaborati, appariva naturale. Si muoveva senza incertezze come Marylin in “A qualcuno piace caldo” e l’effetto, che in altre circostanze e tentato da donne più avvenenti di lei avrebbe potuto apparire ridicolo, risultava davvero quello voluto: si trascinava dietro uno sguardo concupiscente.
Era miope, portava occhialetti di corno da istitutrice inglese, sfoggiava una chioma convulsa, di cui arginava l’esuberanza con strumenti provvisori come matite, pinze per bloc-notes, elastici da cancelleria. In leggero sovrappeso, spiritosa, cinefila accanitissima, capace di legare una citazione di Godard a una battuta allusiva e condendo il tutto con pochi gesti misurati da strip-teaseuse.
Mi si era avvicinata perché ero il fotografo di scena e lei aveva da mostrarmi la sua Leica a telemetro. Un apparecchio splendido, nuovissimo, con l’esposimetro opzionale e un paio di ottiche che, da sole, valevano più di tutto il mio corredo Nikon. Un regalo di suo padre, un dentista spaventosamente ricco.
Parlava di macchine fotografiche ma io sentivo qualcosa del genere “Non ci crederai ma in questo momento non indosso mutandine”. Ci sono donne così. Ti scelgono e, dopo averlo fatto, ti mettono in confusione e a tuo agio allo stesso tempo.
Non ne ho mai incontrata una davvero bella che avesse questa dote. Anzi.
Ci accordammo là per là, per sperimentare.
Dovemmo attendere la domenica e la mia giornata di libertà. Per qualche ragione Antonella non volle che andassimo a casa sua, come poi facemmo in occasioni successive. Viveva con i genitori e una sorella, in un appartamento sterminato, di cui occupava un settore dal quale poteva andare e venire a suo piacimento, fuori da ogni controllo. Probabilmente, per il primo incontro, preferiva una zona franca, così si era fatta prestare le chiavi di casa da un amico, in semiperiferia, con precisi limiti d’orario di ingresso ed uscita.
Ci andammo in tram, reggendoci alle sbarre sopra i sedili su cui donne di mezza età e uomini senza età fissavano il vuoto.
Mi venne in mente il vecchio pistolero interpretato da John Wayne che va al suo ultimo duello proprio in tram. Lo dissi a lei che rise, sussurrando che ci aveva pensato, ma che per noi questo era il primo, non l’ultimo.
Siamo rimasti amici per anni. Ci siamo incontrati per caso al festival di Venezia, ci siamo dati altri appuntamenti mirati, ho ricevuto strane e bellissime cartoline con la sua firma e il suo simbolo tracciato a penna: un occhio in bilico su una stella. Sulle cartoline c’era invariabilmente scritto “Baci”, ma persino in quell’innocua segnalazione, si era tentati di leggere quello che lei non aveva scritto ma doveva sicuramente aver pensato, e cioè dove quei baci intendesse darteli, e con quanta intensità, e fino a che punto, con quei baci, intendesse condurti. Antonella faceva quell’effetto lì.















A Roma frequentavo ancora Valerio Zecca e la sua compagna Marilù. Si andava spesso da un loro amico, Billy Bilancioni, un intellettuale serafico e bonario, che viveva all’ultimo piano di un palazzo ottocentesco in via Nazionale, con Gloria Piccioni, la sua compagna.
Il loro salotto è stato uno dei più accoglienti che mi sia capitato di frequentare. Disponevano di una discoteca sterminata, di stimolanti argomenti di conversazione, erano dotati di affettuoso talento nel mettere gli ospiti a proprio agio.
Billy era un esteta, molto raffinato, quasi calligrafico, orgogliosamente pigro. Occupava questo appartamento dei genitori – il padre era diplomatico, non ricordo in quale continente – armoniosamente stipato di confusione libresca, emergendone raramente. Lui e Gloria se ne stavano rintanati a scrivere, ascoltare musica, fumare erba e ricevere gli amici con munifica bonomia.
Tramite Billy avevo ottenuto un lavoro in Rai, ai servizi radiofonici per l’estero. Scrivevo testi per una rubrica culturale diretta da Fernaldo Di Giammatteo. Bio-filmografie di “petits maitres”, come li aveva definiti lui, del Cinema Italiano. Brusati, Pietrangeli, Zurlini, che già nell’82 parevano esposti al rischio definitivo dell’oblio.
Stavo pestando sui tasti della Lettera 32 di Cecilia una scheda su “La prima notte di quiete” quando chiamò Francesco Guerrieri. Era il direttore di produzione degli Avati. Disse di passare in ufficio.
Mi ci precipitai e mi fecero firmare il contratto d’ingaggio per “Zéder”, come fotografo di scena.
Avremmo girato in parte a Bologna e in parte a Milano Marittima, in agosto.
Telefonai alla Ciochi. L’appartamento era vuoto e a mia disposizione. Un buon risparmio per me, vista l’ esiguità della  diaria. Non so che diavolo di accordo fossero riusciti a strappare invece a Milano Marittima, visto che lì eravamo tutti alloggiati al Grand Hotel, compresi noi, i “ragazzi”.
Pupi ci chiamava fratelli. Questo non gli impediva di sfruttarci, e non per questo diminuiva il nostro affetto per lui.
Telefonai ad Antonella, a Milano, e le passai il lavoro sui “petits maitres”; sapevo che lo avrebbe portato a termine nel migliore dei modi, e così fu.
Quando finalmente partii ero intenzionato a trovare il modo di non dover tornare.
In fondo conoscevo un sacco di persone che riuscivano a sfangarla facendo Cinema o qualcosa di simile a Bologna, Milano, Firenze, persino a Parma e Torino. Ed erano gli unici amici autentici che avessi in quel mondo.
Arrivare alla stazione di Bologna, seguire di nuovo quel tratto di portici fino alla svolta in via Riva Reno, nella città disertata dell’agosto, mi pareva un ritorno a casa.
La Nostra squadra era al completo: Bitterlin, Bagnasco, Cottignola, Bastelli, il laconico aiuto regista di Pupi, e Paolo Bacchi, che era entrato in organico a metà della lavorazione di “Dancing Paradise”. Sempre un po’ fuori di sé, con l’energia di un bambino disturbato, anfetaminico al punto che difficilmente riusciva a camminare. Correva sempre. E, da fermo, tendeva a balzellare da un piede all’altro come un pugile.
Aspirava a fare l’attore, ma gli Avati lo utilizzavano come tuttofare, un runner, e mai denominazione è apparsa più appropriata.









 Bacchi a sinistra, con me e Valeria,
a Milano Marittima




Alla fotografia non c’era Pasquale Rachini, ma il più titolato Franco Delli Colli, con la sua squadra, eccezion fatta per Vittorio Bagnasco come assistente. Per il resto i componenti della troupe erano più o meno gli stessi dell’anno precedente.
Pupi ed Antonio, per ragioni quasi sempre nebulose, tendevano, da un film all’altro, a lasciare qualcuno “in punizione”. Questa volta era toccato a Rachini.
In questo panorama la novità era la segretaria di edizione. Lella Lugli era la regina delle segretarie di edizione. A Milano, in ambito pubblicitario, era addirittura mitica. Perché gli Avati avessero deciso di ingaggiarla era un mistero. Proprio loro, che riguardo all’edizione tendevano ad affidarla ad amici farmacisti in ferie o, nella migliore delle ipotesi, a gente come me, con una ridotta esperienza alle spalle.
Lella era di un’efficienza quasi imbarazzante. Non le sfuggiva nulla. Era lo spauracchio di costumisti, truccatori, assistenti operatori, scenografi, attori. Pupi stesso pareva attendere, a volte, il consenso di lei per decidersi a girare.








 Milano Marittima  3 settembre 1982. 
Lella è in piedi vestita di bianco, 
Luca Bitterlin è accosciato a destra, 
Anne Canovas e Valeria Villani sono sulle
ginocchia di Alessandro Partexano,
rispettivamente a destra e sinistra,
io sono dietro Valeria.







Aveva blocchi edizione personalizzati, progettati da lei stessa, grandi il doppio di quelli normali e configurati in maniera tale che, se compilati con criterio, permettevano un controllo assoluto del film. Ed era simpaticissima.
Malgrado l’esperienza, l’età e il prestigio la collocassero di diritto tra i notabili, finì col preferire la compagnia di noi “ragazzi”.
L’altra novità era un medico.
Dal momento che nel film ci sarebbe stata una bella sfilza di ritrovamenti macabri, morti viventi, delitti con ferite raccapriccianti, la produzione aveva deciso di avvalersi della consulenza saltuaria di qualcuno che avallasse le soluzioni grand-gouignolesche del truccatore.
Molto elegante, con una chiostra di denti perfetti che occhieggiavano tra labbra sinuose in sorrisi frequenti di ragazzina divertita, la dottoressa Valeria Villani, fresca di laurea e specializzanda all’Ospadale Maggiore, sfoggiava anche un fisico che sembrava disegnato da Vargas e una carnagione che pareva quella di una creola.















Durante le presentazioni lasciò a tutti l’acquolina in bocca.
Alla cena d’inizio lavorazione ci ritrovammo seduti di fianco e cominciammo a conversare. Lei era cordiale, apparentemente ingenua, trovava tutto molto divertente. Stentavo a conservare la sua attenzione, sempre richiamata dai continui assalti dalla maggior parte dei maschi della tavolata.
Antonio ci arrivò alle spalle, interruppe la mia cena e mi spedì, con un’auto di produzione, all’aeroporto, a prendere Anne Canovas, la protagonista femminile del film, in arrivo da Parigi.
Diedi un’occhiata al resto della tavolata, dove tutti quelli di produzione stavano ingozzandosi in baldoria, mi rivolsi ad Antonio, che aveva deciso di mandare il fotografo di scena invece di uno di loro, come sarebbe stato nell’ordine delle cose, e dissi “Va bene”.
Valeria parve, per un istante, sconcertata. Mi rivolse un piccolo gesto di commiato. Io le sorrisi e me ne andai.
Un sabato, alla fine della lavorazione, le proposi di trascorrere la domenica in compagnia. Non specificai che io solo avrei costituito la compagnia. Rispose di sì, e quando il giorno successivo ci incontrammo, sembrò non dar peso al fatto che fossimo io e lei soli.
Fu una domenica tranquilla. In città non c’era nessuno. La canicola offriva spazi d’ombra nel centro disertato. Lei sembrava sentirsi in dovere di offrirmi una specie di tour turistico-culturale. La corteggiai con pazienza e una discrezione suggerita dalla sensazione che, ad onta del suo aspetto che invitava ad immaginarla seminuda e scatenata su una carro al carnevale di Rio, fosse in realtà molto convenzionale.
Alla fine della giornata trovammo miracolosamente un posticino aperto per cenare e dopo la invitai a casa della Ciochi.
Lei era curiosa e trovava tutto stravagante. Il mio lavoro, la mia coda di capelli, quella casa dove abitavo, i miei argomenti di conversazione. Credo che intendesse assecondare quella che per lei era un’ulteriore eccentricità da esplorare, quando si lasciò baciare.
Stavamo seduti di fronte, ad un alto tavolo stretto, appollaiati su degli sgabelli, con i gomiti appoggiati al piano.
Mi sporsi in avanti e lei sembrò non capire perché. Mi osservava immobile.
Poche circostanze possono essere più mortificanti, far sentire chi le ha provocate più stupido.
In un impeto definitivamente autolesionistico le feci cenno d’accostarsi, mentre già sentivo la sua voce, raggelata, pronunciare “Va bene, adesso è meglio che vada”. E invece accostò la sua bocca alla mia e si trattenne fino ad un orario ragionevole perché i suoi genitori non si preoccupassero.
Il fatto che fosse così per bene, così vincolata ad obbedienze di carattere familiare, che tra l’altro non le erano neppure imposte, faceva a pugni con quello che, scoprii, era l’aspetto suo più intimo.
L’esuberanza fisica e caratteriale era perennemente controllata da una congerie di buone maniere, di attitudine al perbenismo. Ma non appena finimmo a letto un’altra Valeria balzò fuori dagli abiti firmati.














Il periodo di lavorazione a Milano Marittima fu animatissimo.
Pupi aveva scoperto una ex colonia marina abbandonata, nel bel mezzo di uno sterminato giardino inselvatichito, di fronte al mare. Il luogo era inquietante, denso di presenze fantasmatiche anche senza le suggestioni offerte dal via vai di zombies previsto dalla sceneggiatura.








una mia foto di scena







Non so per quale ragione, poco dopo il nostro trasferimento, ci fu un incidente tra gli Avati e Delli Colli. Così grave da spingere il direttore della fotografia ad abbandonare il film, portandosi via tutta la sua squadra, da un giorno all’altro.
Non restò che il cinico operatore di macchina, Antonio S. L., che aveva assistito con una punta di divertita crudeltà allo scontro, seminascosto dalla macchina da presa, appollaiato sul sedile girevole del carrello, fumando incessantemente e rifiutandosi categoricamente di assumere il ruolo – e la responsabilità – di datore luci.
In pratica si erano verificate le fatali condizioni per un’inevitabile sospensione della lavorazione.
Gli Avati di allora non erano gli oligarchi di oggi, godevano sì di qualche protezione, ma erano esposti con le banche, avevano sciolto da poco la società con Minervini, decidendo di correre da soli. Un’interruzione rischiava di mandarli a gambe all’aria.
Antonio convocò noi “ragazzi” ad uno ad uno accusandoci di non esserci sufficientemente schierati a loro favore e ci licenziò. Noi neppure sapevamo che cosa fosse accaduto.
Un’ora dopo Pupi ci riconvocò ad uno ad uno, ci “perdonò” e concluse affermando che una grande squadra sarebbe riuscita, anche in quelle condizioni, a portare a termine il film.
Non so se ci fosse qualcosa di calcolato in quella doppia convocazione, non credo che fossero così spregiudicati nelle loro strategie, ma funzionò.
Bitterlin, Cottignola, Bacchi, Bastelli, e il sottoscritto moltiplicarono i loro ruoli diventando macchinisti, elettricisti, attrezzisti, sfacchinando come dannati. Ma il capolavoro lo effettuò Vittorio Bagnasco.
Da semplice assistente operatore fu promosso sul campo a direttore della fotografia.








Vittorio tra me e Speedy, due anni
dopo, sul set di "Neve, corvi e turbodiesel"







Bastelli trovò un assistente, tra i suoi accoliti bolognesi, in grado di caricare uno chassis o tenere un fuoco in una panoramica e Vittorio impugnò l’esposimetro, sotto lo sguardo scettico ed il silenzio implacabile di Schiavo Lena.
Portò a termine il film non solo disponendo le luci adeguate alle esigenze drammatiche della trama, ma rispettando l’impostazione originale data da Delli Colli, senza che mai si percepissero delle differenze.
Non mi pare che gli aumentarono il settimanale.
La fotografia – per probabili vincoli contrattuali – venne interamente attribuita a Delli Colli, in bell’evidenza nei titoli di testa. Bagnasco restò in quelli di coda, in nostra compagnia, come assistente operatore. E malgrado tutto ci divertimmo come matti.














Lella Lugli era entusiasta della nostra polivalenza. Disse che c’era un gruppo che si stava aggregando che ci somigliava, in cui tutti sapevano fare un po’ di tutto. Un gruppo che faceva riferimento a Olmi. Disse che si incontravano a casa di un suo amico medico, nel vicentino, dormendo in roulottes.
Ricordai che a Roma, con Cecilia, frequentavamo ogni tanto una coppia, Nicoletta e Giacomo, e che da lui avevo già sentito accennare a qualcosa del genere.
Nicoletta si occupava di pubbliche relazioni e, per un certo periodo, lei e Cecilia avevano accarezzato l’idea di costituire una società di servizi cinematografici, la NICE, acronimo azzeccato ottenuto dalle loro iniziali. Giacomo era l’aiuto regista di Monicelli e una delle persone più determinate che avessi incontrato nel perseguimento del successo.
Là per là mi era parso strano che uno come lui, ogni tanto, si andasse a perdere nelle nebbie del nord-est per “parlare” di Cinema, pur se con Olmi.
Non ci avevo più pensato fino a che la Lugli non entrò in argomento, e neppure in quell’occasione prestai particolare attenzione alla cosa.
Valeria ci aveva raggiunti ed io ero completamente assorbito da lei e dal lavoro massacrante.
La fine della lavorazione mi trovò impreparato all’idea di lasciare Bologna, tornare a Roma, riprendere là dove speravo d’aver posto la parola fine.
Ero frastornato e infelice. Tentai di tenere in piedi la storia con Valeria.
La invitai a casa dei miei per Natale, cosa che non avevo fatto neppure con Cecilia. Permisi alla nostra relazione di superare di qualche mese i confini che le erano naturali. Alla fine fu lei a segnalare, con discrezione, che non c’era futuro per noi.















Lei voleva essere un medico del S. Orsola, senza ammetterlo esplicitamente ambiva al consolidamento di uno status che era il proseguimento naturale del suo percorso, fin dall’inizio. Una specie di vagabondo come me, che si vestiva con abiti usati comprati alla Montagnola, parlava solo di Cinema e non possedeva neppure un’automobile, aveva rappresentato un interessante, affettuoso ed indimenticabile - a suo dire - intermezzo, ma non offriva vere prospettive, non era presente nel suo futuro.
Mi ci rassegnai a malincuore, consapevole del fatto che aveva ragione.
Sotto sotto ero convinto che, saltuariamente, avrei potuto ancora praticare quel sesso pieno di sorprese con lei. In fondo avevo conservato rapporti fugaci ed intermittenti con molte delle mie vecchie fiamme. Ma non andò così.











Alla fine della lavorazione di “Zéder”, Lella Lugli, prima di tornare a Milano, dopo che le avevo confidato delle mie sceneggiature nei cassetti, dei miei progetti un po’ nebulosi, del mio entusiasmo e del desiderio di andarmene da Roma, aveva detto “Dovresti provare da Olmi, se vuoi ti faccio sapere quando si incontrano.”
Io avevo risposto di sì, senza molta convinzione.
Rientrare a Roma era stato fonte di ulteriore estraneità.
Cecilia si era abituata al menàge che contemplava la presenza della nostra ospite latino-americana ma non della mia.
In una delle ormai rare occasioni in cui ci ritrovammo da soli, a conversare senza sarcasmo da parte sua per la mia accidia, né irrisione da parte mia per il suo dinamismo mondano, le accennai a  ciò di cui mi aveva parlato la Lugli.
Fui sorpreso nello scoprire che era informatissima al riguardo.
Mi informò che, da mesi, Olmi, con l’appoggio di suo padre, stava allestendo un progetto produttivo molto originale, patrocinato da Raiuno. In pratica si sarebbe trattato di una trasmissione contenitore, terreno di esperimento e prova per nuovi autori, registi, direttori della fotografia, montatori.
Il progetto era in fase decisamente avanzata. Una pubblica amministrazione locale, probabilmente a Bassano del Grappa, avrebbe messo a disposizione le strutture logistiche, gli spazi per una specie di laboratorio, di còllege sui generis, la Rai avrebbe sostenuto le spese produttive per cortometraggi, documentari, e in seguito – perché no – lungometraggi.
Disse che Giacomo, il marito di Nicoletta, era tra quelli che sicuramente avrebbe esordito alla regia, grazie a quell’occasione.
Mi chiesi, sconcertato, perché non me ne avesse mai parlato, ma non lo chiesi a lei.
A distanza di anni da quella conversazione, rivedendoci alla Maddalena, dove ero stato a ritirare un premio di sceneggiatura al Solinas, lei aveva rievocato il momento in cui mi aveva “convinto”, incerto e recalcitrante, a partecipare agli incontri di Bassano del Grappa.
In quell’occasione avevo sorriso riconoscente, accettando di sostenere la parte che mi affibbiava, rendendomi conto che Cecilia si era davvero convinta d’esser stata lei a spingermi verso quella scelta.  











          

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