domenica 30 gennaio 2011

WHITTLING - UN MESTIERE (prima parte)

E' stato iniziato il primo gennaio del 1998 e poi abbandonato a più riprese per poi a più riprese essere ripreso. 
Finito a Creta il 16 giugno del 2006 (ore 12.30).






UN MESTIERE


Imparare un mestiere
  e intanto, senza accorgersene,
imparare a vivere.
  




Dicembre 1978



L’uomo delegato ad accompagnarmi era di una 
gentilezza distratta. Era riuscito per tutto il tempo
a non guardarmi mai in faccia.
Durante il tragitto non parlammo, del resto io ero in ostaggio dell’ineffabile sensazione che assopisce cautelativamente i sensi in vista di una meta agognata a lungo che improvvisamente si prospetta accessibile. Un’emozione addormentata.
L’uomo che mi precedeva eseguiva invece un compito di routine. Era buffo, e anche un po’ triste, che non avesse la più pallida idea di star pilotando, per me in quel momento, un cambio di destino.
Una volta arrivati mi guidò nei meandri dello stabilimento fino al teatro numero due.
Ci introducemmo attraverso una porticina minuscola in un ambiente enorme, illuminato in modo innaturale, con aree sfavillanti alternate a pozze d’oscurità.
Ferveva un’animazione intermittente.
L’uomo mi fece cenno di seguirlo e richiamò l’attenzione di un tale piuttosto corpulento. Gli parlò sottovoce: quello mi squadrò per una frazione di secondo e si allontanò.
Attorno echeggiavano rumori d’attrezzeria, voci lanciate a richiamo e su quelle, ogni tanto, un invito tonante a fare silenzio.
Il tale corpulento tornò facendo ossequiosamente strada ad un signore esile, di bassa statura, in giacca e cravatta, con un paio di baffetti sottili e uno sguardo acuto, sgusciante.
L’uomo che mi aveva accompagnato ci presentò. Chiamò Steno “maestro”. Di me disse “Il dottor Formento”. Ero laureato da quattro giorni.
Strinsi la mano che Steno mi offriva insieme ad un sorriso di categorica temporaneità.
L’uomo che mi aveva accompagnato accennò in maniera approssimativa alle ragioni della mia presenza, fece il nome di un paio di dirigenti che probabilmente dovevano fungere da credenziali, e alla fine se ne andò.
Steno venne richiamato verso una lontana parte del set e si allontanò da me seguendo il tipo corpulento, scavalcando cavi e scomparendo dietro una cortina d’andirivieni di figure di cui io non sapevo ancora riconoscere i ruoli.
Ufficialmente, almeno secondo quella sbrigativa presentazione, ora ero un assistente alla regia.
Il “maestro” intanto era sparito ed io stavo immobile a guardarmi attorno con un sorriso di speranzosa disponibilità.
Fui oggetto di qualche fuggevole occhiata di curiosità ma, per il resto, nessuno prestò più attenzione a me.
Mi spostai cautamente, chiedendo scusa ogni volta che risultavo essere d’intralcio a qualcuno, cosa che avveniva con incredibile e irritante frequenza.
Spiai a distanza di sicurezza le manovre organizzative in preparazione alla caduta, da un’altezza di qualche metro, della controfigura di Paolo Villaggio.
Tutti si muovevano come formiche in un formicaio, con la stessa misteriosa ed accanita urgenza competente. Io lo trovavo meraviglioso e non c’era nulla che desiderassi di più che imparare a muovermi nella stessa ordinata baraonda.
Me ne stavo in un angolo a scrutare dal buio verso il cuore del set.
Dietro di me un gruppetto di comparse sedeva su cubi e pedanine, in un’attesa rigorosamente indifferente.
Venne il momento della pausa ed io mi allontanai, imbarazzato. Uscii dal teatro e consumai uno spuntino in un bar. Stavo prendendo il caffè quando entrò il direttore della fotografia. Era famoso. Venne accolto quasi con deferenza da baristi e cassiera.
Quando ero stato presentato al “maestro” lui era a pochi passi, probabilmente mi aveva riconosciuto: si soffermò con lo sguardo su di me per un brevissimo istante valutativo. Era famoso come direttore della fotografia e lo era anche come omosessuale.
Nel pomeriggio, prima un assistente operatore, poi una segretaria di produzione, mi rivolsero la parola. Fuggevolmente, più per cortesia che per reale interesse, ma a me bastò per sentirmi parte della famiglia.
Bivaccai per un po’ attorno al gruppo delle comparse, cui s’era aggregato un tale che non faceva che raccontare aneddoti sulle riprese di altri film. Pareva che avesse lavorato in tutte le produzioni degli ultimi anni. Era borioso, sicuramente millantava in maniera spudorata, ma lo trovavo irresistibile.
Finalmente la scena della caduta fu pronta.
La controfigura ondeggiò su un paio di parallele, le scavalcò con uno slancio, e ne cadde fuori, precipitando nel vuoto.
Paolo Villaggio ed Edwige Fenech erano accanto al “maestro”. Applaudirono con il resto della troupe quando la controfigura si sollevò  dai materassi. Io pensai che quel volo avrei saputo farlo meglio. Steno disse “Ne giriamo un’altra”. Villaggio e la Fenech scomparvero ed il resto della troupe tornò ai propri posti, per il ciak successivo.
Ne girarono ancora una mezza dozzina e, dal momento che non osavo accostarmi al regista, ai suoi collaboratori più stretti, alla macchina da presa, tornai al crocchio delle comparse.
Decisi che non si poteva fare tutto in un giorno, che avrei potuto essere giudicato invadente, che ci sarebbe stato tutto il tempo perché si abituassero a me, mi affidassero qualcosa da fare: quello che un assistente alla regia doveva fare e che non avevo idea che cosa fosse.
La fine della giornata mi trovò accucciato su una pedanina ad ascoltare le chiacchiere romanesche delle comparse.
Il viaggio di ritorno a casa era lungo. Dalla Nomentana a via Clitumno, dove ero ospite di Alessandra, la figlia di Giorgio Fornari, l’uomo che mi aveva offerto quella prima possibilità, dovevo cambiare non ricordo quanti autobus.






Alessandra






Prima di lasciare il teatro di posa avevo orecchiato l’orario di convocazione per l’indomani. Non avevo osato fare domande, m’ero accontentato di quel “Domattina alle sei e mezzo” scambiato tra un paio di tecnici.
Mi ero convinto che presentarmi all’indomani in orario, senza aver fatto domande, potesse dimostrare un’intraprendente capacità d’inserimento.
Il giorno successivo, all’alba, viaggiai verso i teatri della Dear, sballottato su autobus semivuoti.
Al teatro numero due quello che c’era di diverso non era chiaro ma immediatamente percettibile.
Passarono Gianrico Tedeschi e Renato Zero seguiti da un codazzo di gente.
Avvicinai un tale che stava lì, appoggiato ad una scrivania, con un berretto a visiera a fissare il vuoto.
Dissi che ero un assistente di Steno e che mi aspettavano sul set del “Dottor Jackill e gentil signora”.
Lui mi osservò con perplessità.
-   - Nun ce sò, oggi. Se ne sò iti – disse.
Io non mi capacitavo.
-   - Oggi qquà stanno a girà “Ciao Nì” de Renato Zero…
continuò l’uomo, sollevandosi il berretto sulla fronte.
-   - L’artri hanno finito. Mo’ sò in esterna. Ma che nun t’hanno avertito, fijo ?
Io balbettai qualcosa, lo ringraziai e me ne andai.
Dunque erano a girare chissà dove, in esterni.
La mia troupe, il mio primo regista. Il passo d’avvio nel mondo cui avevo desiderato appartenere da sempre era stato compiuto.
Avevo trascorso un’intera giornata ad osservare uno stuntman mediocre, ad ascoltare chiacchiericci irrilevanti di gente altrettanto irrilevante, non avevo osato avvicinarmi a quelli che facevano ciò che desideravo imparare, non avevo aperto bocca, non avevo scambiato che intimiditi monosillabi con gente frettolosa.
E adesso ero stato miseramente dimenticato come, date le circostanze, era inevitabile che accadesse.
Il magico mondo del Cinema aveva spalancato le sue porte.  





1970/1977



Per arrivare a quel giorno avevo percorso un itinerario non breve, fitto di distrazioni e, per quanto riguardava il Cinema, fondato sull’idea fuorviante che, per mettersi dietro una cinepresa e raccontare una storia, occorresse niente di più che il desiderio di farlo.
Probabilmente tutto si sarebbe arenato sulle secche dell’impraticabilità se non fosse accaduto che, dopo aver visto Easy Rider - il 14 marzo 1970 - il 25 aprile approfittando della giornata di vacanza, del fatto che alcuni dei miei amici possedevano motociclette di grossa cilindrata, che Renato Bertrandi fosse disponibile a trafugare temporaneamente la cinepresa 8mm di suo padre, che tutti noi si avesse in guardaroba qualche capo hippie, organizzai delle riprese nel parco della casa in collina di Paolo Ferrando e, in un pomeriggio, girammo “Flowers & Knives”.
Senza nessuna nozione sintattica, competenza tecnica, possibilità di associare una ripresa audio, mi divertii e, credo di poter dire, li divertii. Ci furono, certo, defezioni, alcuni interrompevano senza preavviso il ruolo di hippies o hell’s angels per andare a giocare a foot-ball nel campetto sopra il set, ma altri si aggiungevano estemporaneamente, compensando i vuoti.
L’idea narrativa era semplice. Una pacifica e bucolica comunità hippie viene individuata ed aggredita da una banda di motociclisti. Nello scontro gli hippies hanno la peggio, i bikers si portano via le loro donne come trofeo, il film finisce.




             Pit Formento, Danila Siravegna e Patrizia Genovesi





Di mezzo c’erano scenette di amore agreste, beati fumatori di canne, spietatezze convulse da cinema muto, rivoltellate, troppo rapidi passaggi motociclistici.
Il finale, con i cattivi che hanno la meglio, mi pareva essenziale per un tocco d’autore.
Martino Oliva, morto di overdose molti anni dopo, guidava l’Electra Glide sottratta clandestinamente a suo padre, lo affiancava Vincenzo Natta, in sella ad una Norton Atlas e con in testa un elmetto nazista recuperato chissà dove.






Martino Oliva, Pit e Rodolfo Schieroni
in una pausa della lavorazione





Vincenzo Natta




Tra i rincalzi improvvisati della comunità hippie ad un certo punto, provvisto di un vistoso orecchino e di disegni psichedelici sul viso, passa di fronte alla cinepresa Roberto Certani, che si è suicidato anche lui da molti anni ormai e che neppure sapevo che fosse lì, quel giorno.
Avevamo tutti meno di vent’anni.
Per quanto riguardava il trattamento della pellicola, a quel tempo la prassi era piuttosto macchinosa.
I rullini, che erano di pellicola invertibile 16mm., trattata per essere impressionata su ambedue i lati per una metà – 8mm. appunto - venivano imbustati in una confezione che faceva parte della dotazione d’acquisto, quindi consegnati al proprio negozio di fiducia o spediti direttamente al laboratorio di sviluppo della Kodak che, se non ricordo male, era in Svizzera.














Poi iniziava l’attesa, quasi mai inferiore alla decina di giorni, prima che il girato rientrasse, sviluppato e arrotolato in una bobinetta del diametro di sei o sette centimetri che, proiettata, forniva immagini per qualche minuto.
Su quelle cineprese non era previsto nessun automatismo. Fuoco, diaframmi, zoom – quando c’era – andavano azionati e controllati manualmente. La velocità dello scorrimento della pellicola di fronte all’otturatore era determinata dal preventivo caricamento a molla, che, in coda alla bobina, tendeva inevitabilmente a rallentare, come quella di un carillon, producendo poi, in fase di sviluppo, quegli effetti di accelerazione, con i movimenti delle persone simili a quelli del cinema muto.
Sarebbe stato complicato persino se si fosse saputo quello che si stava facendo.














Tra l’altro, prima della comparsa del super 8 in bobina chiusa, il vecchio 8mm, per poter essere impressionato su ambedue i lati, richiedeva un’apertura del vano pellicola della macchina a metà della ripresa, per capovolgere la bobina che, durante l’operazione, veniva inevitabilmente esposta alla luce, determinando quegli improvvisi sbalzi di sovraesposizione di cui non ci capacitavamo.













Quando, dopo questo calvario, si era finalmente rientrati in possesso del proprio film, suddiviso in esigue bobinette, si procedeva al montaggio, su moviole con uno schermo poco più grande di un pacchetto di sigarette, azionate da un paio di manovelle grazie alle quali, con bilanciata attività rotatoria di mano destra e sinistra, avanti e indietro un’infinità di volte, si cercava il punto dove “tagliare”.














Dal momento che tutte e due le mani erano occupate ogni fuoriuscita della pellicola dalla sua sede di scorrimento rappresentava un rischio, perché quello stesso scorrimento era garantito dalla rotazione di un piccolo tamburo dentato che agganciava la perforazione laterale della pellicola, trascinandola.
Il più penoso degli incidenti di scorrimento era che i dentini lacerassero la perforazione, nel qual caso era inevitabile sacrificare il frammento lacerato. Il proiettore infatti, che aveva un meccanismo di trascinamento analogo a quello della moviola, al passaggio di una perforazione non perfetta scatenava l’inferno nel suo ventre, facendo insalata del film.









I frammenti della pellicola si univano con una giuntatrice a scotch. Il taglio doveva essere preciso, le due estremità degli spezzoni combaciare perfettamente. Era roba alta otto millimetri, che tendeva perfidamente a sgusciarti tra le dita. Era pellicola invertibile, vale a dire di cui non esisteva il negativo, nessuna possibilità di averne una copia, quello che avevi era tutto lì, era opportuno cercare di farne il miglior uso possibile, sbagliare un taglio significava buttar via, non c’era una seconda occasione, niente appello.












I miei primi, balbettanti, tentativi sono stati tutti arrischiati in queste condizioni e, dal momento che erano le uniche praticabili, non mi parevano così micidiali come ora che ne scrivo.
Sette od otto sconclusionati cortometraggi sono stati il risultato della semplice spinta al divertimento di quel periodo.
Il fatto che intorno ai diciott’anni fossi stato fortunosamente ingaggiato per interpretare dei film pubblicitari per “Carosello” avrebbe potuto in qualche modo rivelarsi utile, sfruttabile per agguerrire le mie competenze, ma ero troppo sciocco ed eccitabile per discernere le occasioni d’apprendere.
Per me si era trattato di un’esperienza più equestre che cinematografica. Comparire a “Carosello” e negli intervalli pubblicitari nei cinema aveva corroborato energicamente la mia vanità senza mai però spingermi ad osservare il lavoro del regista o dei tecnici.















In qualche modo, comunque, “Flowers & Knives” venne ultimato, raffazzonato in un’approssimazione di montaggio e proiettato muto, con l’ausilio di una colonna sonora musicale registrata su cassetta e attivata a parte, sempre sfasata rispetto all’avvio della proiezione della scena, in modo che credo mai si ebbe un’analoga concomitanza di eventi visivi e suono.
Le proiezioni domestiche furono contraddistinte da più repliche, il consenso entusiastico. All’improvviso il numero di persone disposte a partecipare alle riprese di un film, anche così scombinato, crebbe incontrollabilmente.
Stabilii in fretta e furia un piano per le riprese di un film di gangsters. Azzardai riprese quasi tutte in interni, senza il minimo sospetto riguardo all’obbligo di una certa luminosità d’ambiente.
Nessuno voleva rappresentare le forze dell’ordine e quindi, interpretando tutti gangsters di bande rivali, la confusione sul piano della comprensibilità pareva notevole, ma non me ne preoccupai neppure per un istante, mi bastava vedere tutti quei bravi ragazzi chiusi nei doppiopetti che si erano fatti confezionare un anno prima, affascinati dal successo cinematografico di “Borsalino”, con in testa lobbie sottratte ai guardaroba dei nonni, in bocca sigari fortunosamente trovati in casa Ferrando, tutti che sparavano a tutti incongruentemente, con i potenti scacciacani allora in libera vendita.
Dopo un domenicale pomeriggio di riprese spedii i miei pacchettini di bobine alla Kodak e mi attestai in spasmodica attesa, fantasticando di successi e trionfi.
Non si saprà mai se e come ci sarebbero stati, e quale film ne sarebbe scaturito, perché le bobinette sviluppate, che arrivarono con la posta qualche tempo dopo, proiettarono sullo schermo un buio compatto, interrotto occasionalmente da fugaci primi piani in forma d’ectoplasma o silenti e fulminee fiammate in cui si riconosceva l’effetto degli spari degli scacciacani. Nient’altro.
La mia delusione fu annichilente, quella degli amici di più.
Occorsero cinque anni prima che ci riprovassi.
Nel frattempo l’industria della cineamatorialità era passata definitivamente dall’8mm al super 8, le cineprese ora erano alimentate a batterie, tenevano con costanza il passo dei ventiquattro fotogrammi al secondo, gli zoom erano azionati da un pulsante ed avevano un’estensione mai sperimentata prima, la pellicola era incapsulata in un contenitore stagno che evitava improvvide esposizioni alla luce, la misura della perforazione laterale era stata ridotta a favore di quella del fotogramma impressionabile, era aumentata la sensibilità, così come la luminosità degli obiettivi.
Cominciai ad usare un cavalletto fotografico ed un illuminatore al quarzo che facevo reggere, grazie ad una specie di maniglia, a qualche volenteroso.
Ma le cose veramente importanti erano accadute alla mia condizione di spettatore.
Mi ero iscritto a Medicina ma seguivo le lezioni di Storia del Cinema di Aristarco e Rondolino a Magistero e Lettere.
Il contagio, allora diffusissimo ed epidemico, del morbo della cinefilia si cronicizzò in me, coadiuvato dalla diffusione delle sale d’Essai, della nuova critica, delle cinematografie emergenti, dei fraintendimenti praticabili dietro lo scudo della “politique des auteurs” a favore della propria presunzione creativa.
L’ indiziarietà indecifrabile, la metafora criptica divennero per me sistemi espressivi di riferimento.
Ingoiavo dosi massicce di Godard e Straub, ma anche il cinema sperimentale più insulso poteva contare sul mio consenso.














Quache anno prima un figlio di papà americano, a nome Conrad Rooks, aveva ricevuto un leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia con una boiata intitolata “Chappaqua”.  Non ero dunque il solo a farneticare.
Nel 1975, finalmente equipaggiato autonomamente con una Canon 814, realizzai “Realtà sogno e passione di un amico ospite della casa di cura di P.”







               Pit e Antì




L’intenzione narrativa era quella di denunciare, con un approccio metaforico piuttosto temerario, l’assetto concentrazionario dell’istituzione psichiatrica. Naturalmente, tranne l’aver orecchiato qualcosa qua e là, non sapevo nulla a riguardo, ma lo spirito di nebulosa, indignata denuncia che scalpitava addosso ai miei vent’anni agguantava bersagli a casaccio.
E’ curioso che poi, ancora iscritto a medicina, circa un anno dopo sostenessi un esame di Igiene Mentale con Basaglia, allora docente a Parma, e, poco dopo, ottenessi un posto di assistente volontario in un reparto di neuropsichiatria infantile al Regina Margherita di Torino, per qualche mese, e che infine, dopo un provvidenziale cambio di facoltà, scoprissi l’antipsichiatria – Cooper e compagni – sostenendo esami che contemplavano lo studio di testi psichiatrici in una facoltà umanistica.
In quella primavera del ’73 tutto questo, comunque, anche se sarebbe accaduto non molto tempo dopo, mi era assolutamente estraneo e lontano.
Per il paio di giorni di riprese di “Realtà sogno e passioni di un amico ospite della casa di cura di P.” erano bastati dei camici, qualche stetoscopio, l’atmosfera aristocraticamente decrepita della casa di campagna di Giulia Sarti, una nuova cinepresa e la mia gioviale presunzione.







              "...la parte che mi ero riservata..."




Riccardo Donna, che sarebbe diventato molti anni dopo un affermato regista televisivo e che allora aspirava più ad essere cantautore, aveva composto una colonna sonora di tutto rispetto, orchestrata con il suo gruppo degli Aries.
Anche di quel filmetto oggi non rimangono che frammenti, ma è con quello che si può dire sia cominciato tutto.
Dopo i precedenti tentativi, a nessuno era passato per la testa che io aspirassi a trasformare in un destino quel giocare con la cinepresa. Tantomeno a me.
Dopo “Realtà sogno e passione di un amico ospite della casa di cura di P.”, in maniera larvata, episodica, ma con sempre maggiori aspettative, io cominciavo ad essere, per amiche ed amici, quello che avrebbe fatto il “regista”.
A volte ho come l’imbarazzante impressione che siano state quelle loro supposizioni a decidere della mia vita, che io mi sia avviato per la strada sulla quale sono a tutt’oggi un viandante, non in ragione di un richiamo irresistibile, d’una vocazione, ma per non mandar deluse le loro aspettative.
La sensazione era comunque, come per tutti gli adolescenti, che mi attendesse un destino superlativo, ed era una sensazione che si corroborava di certezze accanite. Non ne decifravo i contorni, non mi attardavo ad immaginare logiche successioni di eventi, mi limitavo a suppormi al centro di un successo ottenuto grazie a qualcosa che avrei fatto. Che cosa, non lo sapevo.





             Buky Barberini.




Mi cimentavo su parecchi fronti. Scrivevo racconti, soggetti, canzoni. Arpeggiavo su temi malinconici, raccontando frammenti d’esperienza nello spirito di Leonard Cohen o arrischiavo ballate a mezza strada tra Dylan e Guccini. Ero prolifico, un poco stonato, digiuno di studi musicali. Mi arrabattavo autarchicamente  con la manciata di accordi appresi negli anni adolescenziali.
Nel settembre del ’74 mi era persino riuscito di far avere una cassetta dimostrativa  ad un dirigente della Cetra, padre di una mia conoscente e, circa due anni dopo, a Parma - grazie alle discutibili relazioni di un disc jokey - ad essere sottoposto ad un provino improvvisato, in una specie di ufficio sul retro della discoteca Astrolabio. Due esperienze prevedibilmente senza seguito ma che non per questo mi disarmarono.
Ero in grado di dimenticare – rimuovere sarebbe più esatto ma dimenticare somiglia di più a quello che sapevo fare: un talento anche quello, in fondo – gli episodi frustranti con grande rapidità e totale mancanza di recriminazione.
Ovviamente l’accumularsi di sconfitte, delusioni, fraintendimenti, soprattutto in ragione delle mie iperboliche aspettative, ha sgretolato la prestanza del mio dimenticare, così oggi spero con moderazione e rimugino e  recrimino in modo molto articolato.
In quei giorni l’idea del cinema non s’era comunque attenuata. Dopo “Realtà sogno e passione di un amico ospite della casa di cura di P.” affrontai il western con “On the border”, un pasticcio in cui il dato saliente avrebbe dovuto essere l’attrazione omosessuale di Pat Garrett nei confronti di Billy the Kid.
Insistetti poi con “I relitti”, anch’esso senza capo né coda, con un gruppo di personaggi improbabili accampati ai margini di una palude.
Lo girammo a Parma, nella tenuta abbandonata di Giacomo Carega, rampollo di una famiglia principesca decaduta, un giovanotto alto quasi due metri, con un profilo da condottiero rinascimentale, mezzo romano, mezzo parmense, generoso e stravagante, a tratti miracolosamente infantile, dotato di un senso dell’umorismo surreale, fuoricorso alla facoltà di veterinaria, ospitale e soprattutto – e credo di poterlo dire di poche persone – buono.







Giacomo Carega e Rita Pesenti





Ho nostalgia della sua amicizia, a volte ancora adesso, che son trent’anni che vive da qualche parte in Uruguay, al confine con il Brasile in una hacienda sterminata dove alleva bestiame.
E proprio a Parma era in agguato la prima grande svolta della mia esistenza.
Dopo essermi attardato più del legittimo alla facoltà di medicina, con un colpo di mano dettato forse più dalla disperazione che non dalla riflessione, cambiai facoltà.
Giacomo aveva una morosa, la Rita Pesenti, molto carina, iscritta a lettere, che lavorava a tempo perso in una boutique e che ha poi finito con lo sposare un giocatore di base-ball italoamericano, allora in forza al Parma, seguendolo negli Stati Uniti alla fine del suo ingaggio.
Rita mi aveva spiegato che nella sua facoltà  si insegnavano le cose di cui io parlavo in continuazione. Alla fine aveva concluso, con naturalezza incoraggiante, “ Ma cambia, no ?”
Non eravamo molto amici.
Io la consideravo troppo superficiale e credo che lei mi vedesse un po’ come un ragazzino. Eppure mi ha offerto una prospettiva inedita.  Inconsapevole strumento del Fato, mi ha cambiato la vita.
Mi piace, e mi dice molto sullo stare al mondo, che si possa essere profondamente riconoscenti a qualcuno che neppure ha idea di cosa sia stato portatore, e che a spiegarglielo forse neppure si capaciterebbe.
Mi succede di augurarmi d’aver avuto almeno una volta un ruolo del genere per qualcuno. Qualcuno che non sapeva di star aspettando un estraneo ad indicargli la via.
Ascoltai Rita ed espletai le pratiche per il cambio di facoltà.












Dopo un colloquio memorabile riuscii a convincere il preside ad autorizzare la mia iscrizione al terzo anno anziché al secondo, con l’abbuono di sei esami sostenuti a medicina. In preda ad un’emozione piuttosto incontrollata, mi affacciai a quel nuovo mondo.
Le prime lezioni mi annientarono.
Seguivo i corsi di semiologia di Arturo Carlo Quintavalle e non capivo assolutamente nulla.
La prospettiva di un fallimento cominciava a delinearsi per la prima volta in tutta la sua portata devastante.
Poi accadde qualcosa, che in assenza di elementi per poter dire di più, fu come il semplice gesto di un dito che prema un interruttore.
Tra il 26 novembre del 1976, giorno del cambio di facoltà, e il 4 dicembre del 1978, giorno della laurea, sostenni 14 esami, due nello stesso giorno, il 20 giugno del ’77, e due il 28 settembre del ’78, incassando complessivamente quattro 30 e lode e otto 30.


















Nel contempo scrissi la tesi, dopo aver convinto il professor Campari a fungermi da relatore per “L’immagine del pellerossa nel cinema americano”.
Nelle aule, seguendo bulimicamente lezioni dei corsi più svariati, mi guardavo attorno. Quella gente mi piaceva. Mi occorreva qualcuno che mi facesse da ponte. Scelsi Paola.
Aveva una testa di fitti boccoli castani e uno sguardo da roditore spaventato. Indossava una pelliccetta hippie, stivali di gomma – pioveva, in quei giorni – un lungo foulard a disegni orientali come sciarpa.
L’avvicinai e le spiegai la mia situazione così particolare. Lei annuiva senza smettere quell’espressione tra il meravigliato e il perplesso.
Conosceva tutti. E quelli che non conosceva personalmente sapeva comunque quale ruolo ricoprissero, in quel microcosmo alternativo che io spiavo con una certa avidità.







Paola è la prima a destra, poi c'è un Paolo,
Linda e infine quello che era il protagonista
del film, e Pit non riesce a ricordare
come si chiamasse...





Il mio cambio di facoltà aveva coinciso, pressappoco, con la partenza di Giacomo per il Sud America.
Negli ultimi tempi avevo lasciato l’appartamento di via Corso Corsi ed ero stato ospite suo. Partito lui mi ritrovavo senza casa.
Mi sistemai dietro il ristorante Farini - dove mangiavo abitualmente - in piazzale Carbone, all’albergo Fontana, una specie di locanda che, nel sottotetto, offriva tre o quattro stanze a prezzo modico.












Ero convinto che non si sarebbe trattato che di una soluzione temporanea, forse di un paio di settimane, in realtà ci abitai da gennaio fino alla fine di maggio del ’77.
La stanza era mansardata, una finestrucola a livello terra si affacciava sul piazzale.







Pit dice che la ragazza
con il golf bianco gli piaceva molto
e si chiamava Ebe...





Avevo un letto, un tavolo, un armadio, un paio di sedie, un lavandino in un angolo. Il bagno era sul pianerottolo del piano di sotto.
Non c’era una vera e propria reception. Incontravo il titolare ogni tanto, per le scale.
Si andava silenziosamente d’accordo.
Io ero regolare nei pagamenti, discreto nell’accogliere persone nella mia stanza.
Tutto filava liscio e quella sistemazione miserabile mi faceva sentire perfettamente adeguato ai miei modelli letterari: Fante, Miller, Bukowski, per non parlare di Kerouac e compagnia, avevano alle spalle esperienze abitative di quel genere.












Paola mi aveva presentato un po’ di gente – dei fuori sede – studenti di Milazzo, Roma, Gallarate che gravitavano intorno a piazza Garibaldi, il punto di aggregazione della gioventù alternativa della città.
Gli amici di Paola erano un po’ marginali, militavano in formazioni politiche vaghe, e dio sa quante ce ne fossero in quel periodo. Io, invece, avevo adocchiato il centro nevralgico di quel mondo formidabile.
C’era un assistente universitario, Roberto Costantini, detto il “poeta” per via di una plaquette pubblicata in tempi giovanili, di cui seguivo un corso monografico su Marcel Duchamp.







Roberto





Era un reduce sessantottino, coltissimo, adorabilmente ingenuo di fronte ai maneggi del mondo borghese, di cui io ero relativamente esperto. Intorno a lui fluttuava quell’universo polimorfo che mi era sempre stato estraneo e che si definiva, genericamente, il Movimento.
Aveva le sue radici nel sessantotto, il tronco in Lotta Continua, ramificazioni fronzute ed esuberanti in formazioni trotzkiste, maoiste, marxiste-leniniste, nella neonata Autonomia, tra indiani metropolitani e anarchici situazionisti.
Diventai amico di Roberto ed approdai al centro della piazza.
Trattare quel paio d’anni richiederebbe uno spazio a sé, le persone che ho incontrato e che hanno arricchito la mia vita non meritano d’essere assemblate in un mero elenco, anche se mi piacerebbe mettere i loro nomi in fila e per ciascuno tracciare il sentimento, fosse anche di avversione ma comunque intenso, istruttivo, che sapevano ispirare.
Non sarà così. Qualcuno entrerà in queste pagine, altri no, e non certo i meno importanti, ragazze e ragazzi di cui ho presente  gesti, espressioni, sguardi con una chiarezza che ha pochi equivalenti nel magazzino disordinato del mio ricordare.
Non sarà così perché non avevo intenzione di parlare di questo. Il mio piano era un altro, e adesso invece quel frammento della mia esistenza prevarica i miei progetti narrativi, impone un diritto ad essere rievocato, guida la mia mano sul foglio con la spinta di un’ipnosi. Insomma, dovunque vada questa storia spero torni a bomba.
Per incoraggiarla in questo senso posso dire che tra le tante formazioni del Movimento c’era il Collettivo Cinema Libero.
Non l’ho mai frequentato, ma mi confortava l’idea che esistesse.
Avevo con me una nuova cinepresa, una Beaulieu comprata d’occasione, un oggetto di culto all’epoca.
Studiavo nei bar, partecipavo alle manifestazioni, frequentavo locali fumosi dove si ascoltava musica senza ballare.













Pit a sinistra...al centro Michele Sartori, che sarà
l'operatore del super 8 "Incontro/Incompiuto" e che
 crede faccia il medico negli Stati Uniti...



Linda, un amico di Roma e una sorella di Linda







              Lucio, Didi Bozzini, Enrico Dall'Asta, Pit





Quasi nessuna delle persone che frequentavo aveva messo piede in una discoteca, nessuna, maschi o femmine che fossero, tradiva il proprio partner senza confessarglielo.
Vigeva un’etica che, per essere rivoluzionaria, presentava dei curiosi aspetti di rigidezza. L’attitudine borghese al compromesso era aborrita, marciavano sui proprii sentimenti e quelli altrui spinti da un’impietosa aspirazione alla verità a tutti i costi, per poi spesso soccombere, senza neppure rendersene conto, di fronte a schematismi pregiudiziali inflessibili. Non valeva certo per tutti, ma era una propensione diffusa.
Il tossico in fuga con un’autoradio rubata veniva salvato da un cordone protettivo che si organizzava con una rapidità ed un efficacia quasi militare, poi, a volte, risultava che quell’autoradio fosse stata trafugata dalla macchina di uno del Movimento.
C’era però una coerenza di fondo, una coesione che travalicava gli infiniti distinguo della forsennata dialettica dottrinale.
E poi a me interessava il contorno, l’aspetto strettamente politico mi pareva un calappio. Ero insomma quello che si definiva un simpatizzante.
I picchiatori, gli ideologi vitrei e cavillosi, i tossici proletari che si agganciavano al Movimento per garantirsi una spazio di protezione, ostentavano distacco nei miei confronti, io elargivo cortesia e sorrisi.
Ero riuscito ad organizzare le riprese di un primo filmino a soggetto, dopo le estemporanee documentazioni di manifestazioni o performances artistiche.
Di cosa si trattasse non ricordo esattamente. C’era questo tipo che usciva di galera e rintracciava i vecchi amici e i vecchi amici si erano tutti arresi. Arresi al tempo, alla quotidianità, roba così. Una ragazza – Linda - ogni tanto spuntava e, guardando in macchina, formulava considerazioni socio filosofiche sugli accadimenti del film.
Straniamento, Godard, Brecht. Mi sembrava obbligatorio.
Registravo le voci a parte. Non mi riuscì mai di sincronizzarle al labiale delle immagini. Buttai tutto in un angolo. Era inverno, c’era la neve, il mondo nuovo era prodigo di allettamenti.
Una compagna di corso di Mantova affittava con altre ragazze un appartamento da una marchesa. 






               Patrizia





Saltò fuori che questa marchesa era proprietaria anche di un piccolo stabile in via Rismondo, nella zona oltretorrente, e che intendeva ristrutturarne il solaio per ricavarne una mansarda da affittare.
Si era a marzo. La compagna di Mantova mi mise in contatto con la marchesa e mi presentò una sua amica.
Poco più alta di un metro e cinquanta si tingeva i capelli di biondo platino, guidava una moto carenata e truccata e si dichiarava fascista.




                  Simona





Fu la prima a condividere il letto un po’ sfondato, sotto i tetti dell’albergo Fontana, nella mia stanza bohemienne.
Mi confidò che riusciva a procurasi orgasmi guidando a tutta velocità sul suo bolide a due ruote che, fermo, riusciva a reggere a stento, oscillando sulla punta dei piedi.
Scomparve dal mio orizzonte fulminea com’era comparsa, sfrecciò, come credo fosse nella sua natura.
Venne la primavera. I lavori di restauro nel solaio della marchesa procedevano. Io suonavo la chitarra con Bernardo e Ciomò, imparavo a leggere Proust, a capire Baudrillard, ad ascoltare il Flauto Magico.
Cominciai a sostenere esami e a superarli così brillantemente che era un tormento non poter telefonare a casa per annunciarlo. Ma per i miei genitori ero ancora un mediocre studente di medicina, e lo sarei stato fino al giorno successivo alla laurea.
Nel ’77, intanto, la piazza era un universo in frenetica trasformazione, un territorio libero, coerentemente contradditorio, ci trovavi di tutto. 
Tra gli altri spuntava ogni tanto il rampollo d’una famiglia d’avvocati
che bazzicava la piazza con un paio d’amici e, ogni tanto, con la ragazza. 
Di lei mi invaghii con un’immediatezza da adolescente.













Era apparentemente inaccessibile.
Il tentativo di trovare uno stratagemma per avvicinarla senza insospettire mi spinse a scrivere una storia d’amore un po’ confusa. La intitolai “Incontro”, chiesi ad un amico che conosceva il giovane futuro avvocato di annunciargli – a lui e alla fidanzata – che un giovane futuro regista aveva scelto lei come protagonista del suo prossimo film.
Un mattino, in piazza Garibaldi, alla fine della primavera, seduti sui gradoni del monumento all’eroe dei due mondi, i fidanzati ascoltarono con molta circospezione la storia che intendevo girare.
Lui non disse nulla, non manifestò nessuna forma di interesse o simpatia. Mi fissava come se non capisse, o come se avesse capito anche troppo. Lei accettò. Con un’alzata di spalle che dichiarava un’indifferenza che un poco mi offese.
Nottetempo, sul muro di recinzione di un giardino pubblico, tracciai con una bomboletta spray una lunga scritta poetica.
L’avevo trovata sulla copertina di un testo latino del liceo, comprato usato: sotto il titolo di Orazio, in basso a sinistra, una vivace grafia femminile aveva tracciato “Mille ore di speranza per un attimo di gioia, poi solamente tristezza”. Esprimeva qualcosa che conoscevo bene. Avevo sempre desiderato utilizzarla, ed ora si presentava una buona occasione.








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