sabato 15 gennaio 2011

WHITTLING - GUARDIA MEDICA









Iniziato il 30 maggio del 2005 a Kos e lo ha finito il 17 luglio a Schio.





GUARDIA MEDICA




In via Po, al numero 2, in fondo al cortile una stretta apertura ad arco introduce ad un vano scale, queste si inerpicano consunte, corredate da una ringhiera in ferro con il corrimano in legno.
Non c’è ascensore, o perlomeno non c’era allora.
Giunti all’ultimo piano s’aveva l’impressione che non si potesse andare oltre, che quell’ultima rampa che si prospettava in sospetta penombra non potesse che condurre a solai decrepiti e forse impraticabili.
Se tuttavia - quale che fosse la ragione - quell’ultima rampa la si    affrontava, si approdava ad un pianerottolo esiguo ma reso luminoso da una finestrucola rettangolare, che permetteva di individuare, sulla destra, un vestibolo che si arenava contro una porta.
Dietro quella porta, un tale che trafficava in immobili aveva ricavato abusivamente un piccolo appartamento. C’era una prima camera, che rivestiva una vaga funzione multiuso, compresa quella d’ingresso. Da questa, attraverso un breve passaggio ad arco, ci si introduceva in un’altra stanza, con una parete attrezzata a cucina, divisa dal resto dell’ambiente da uno stretto tavolo oblungo, di marmo.  
Un abbaino alto quanto una persona non troppo alta si affacciava sul palazzo di fronte, il cui piano corrispondente era, all’apparenza, disabitato. 
Sul lato sinistro dello stretto andito ad arco che congiungeva i due ambienti si apriva la porticina di un vano cieco, all’interno del quale era stato ricavato un minuscolo bagno, una specie di ripostiglio dove comunque erano riusciti a stipare un lavandino, un water e un box doccia nel quale era problematico ruotare su se stessi. 
Dalla stanza d’ingresso una scaletta in legno s’aggrappava ad una botola che introduceva ad uno spazio minuscolo, illuminato da un grande lucernario. 
A fianco della botola un foglio di gommapiuma alto una dozzina di centimetri, rivestito di un robusto telo in cotone, appoggiato direttamente sul pavimento di assi e sagomato in modo da seguire le angolazioni irregolari delle pareti – risultando quindi vagamente trapezoidale – costituiva il letto. 
Non era grande ma, forse in ragione della sua irregolarità o dell’esiguità dell’ambiente, appariva tale. 
In due ci si stava d’incanto, anche se va detto che Marina era minuta e io – come da visita militare – risulto alto un metro e settantaquattro. Insomma una coppia poco ingombrante.
La prima volta che mi accadde di entrare in quell’appartamento, sotto i  tetti di via Po, era il 1983, ma avevo conosciuto la sua inquilina molti anni prima. 
Nel 1971, una notte, seduto sui gradini d’ingresso di casa sua, avevo parlato a lungo con una ragazzina che aveva ascoltato i miei sproloqui con una certa divertita perplessità. Io avevo vent’anni, lei forse sedici, diciassette. 







Senza neppure sapere come si chiamasse avevo cercato di convincerla a lasciare il fidanzato e a scegliere al suo posto me. Lei trovava divertente che le chiedessi di farlo ma, di farlo, risultò poi che non aveva nessuna intenzione. Alla fine si era decisa con riluttanza a dirmi come si chiamava e a lasciarmi un numero per rintracciarla.
Il giorno dopo l’avevo perseguitata telefonicamente e lei si era agilmente  defilata.
Come l’avessi incontrata e come me ne fossi incapricciato con tanta fulminea petulanza proprio non ricordo.
Sparì come una di quelle stelle estive che d’improvviso s’annullano e non sai dove vadano a cadere.
Riapparve nell’estate del I979.
La ragazza cui avevo affidato la parte di protagonista di uno dei miei cortometraggi in super 8 si chiamava Rossella, sfoggiava un sorriso contagioso, una curiosa rassomiglianza con la Liza Minnelli di “Cabaret”, un seno ragguardevole e aveva preso maledettamente sul serio la sua parte.







          







Mi era stata accanto anche per tutto il tempo del montaggio, condividendo le esasperazioni date dal manipolare quel materiale fragile e miniaturizzato che era la pellicola in super 8, le frustrazioni della sonorizzazione audio su bande magnetiche quasi invisibili incollate direttamente sul margine della pellicola invertibile. Il tutto in un torrido giugno urbano.








               





Era fidanzata con uno dei miei migliori amici ed era amica della ragazza con cui stavo allora ma non esitammo ad abbandonarci con erotica allegria ad una relazione clandestina, che ci compensava ampiamente delle sudate sulla movioletta azionata a manovella.
Alla fine del montaggio Rossella partì per il mare.
Non so se mi avesse davvero invitato ad andare a trovarla o se io mi fossi convinto che lo aveva fatto. Quel che avvenne è che sbarcai a Panarea qualche tempo dopo, irrompendo assolutamente inatteso a casa di sua madre.
    Se non ricordo male lei, dopo un lungo periodo di      solitudine seguito alla separazione dal padre di Rossella, si era finalmente trovata un partner con il quale intratteneva una relazione apprensiva. In quel momento lui non era sull’isola, ma se ne attendeva con ansiosa incertezza l’arrivo.
Tra Rossella e la madre si agitava lo spettro invasivo di una competitività tutta femminile, labirintica, indecifrabile ma evidente.
C’era poi un fratellino ancora un poco frastornato dai soprassalti emotivi che avevano scardinato l’assetto familiare.
La casa era grande, annegata nel rigoglio odoroso della bouganville e del gelsomino, ma tutto il pianterreno era stato affittato per l’estate.
Il piano superiore era occupato per gran parte da uno splendido terrazzo che riduceva drasticamente lo spazio abitativo.
Rossella era imbarazzata, la madre non faceva nulla per mascherare il disappunto per il mio arrivo.
Resistetti un paio di giorni, dormendo  su un divano, in una specie di atrio, annientato dall’imbarazzo.
Nel gruppo di persone che avevano affittato il pian terreno della casa di Rossella c’era Marina.




 



Per otto anni non l’avevo più incontrata, cosa di per sé strana in una città che – pur se grande – risulta essere  piuttosto piccola se si hanno conoscenze comuni.
Il clima di tensione che in casa di Rossella vigeva con ingombrante ubiquità sembrava aver contagiato anche gli inquilini del pian terreno.
Marina, molto cambiata rispetto al nostro primo incontro, ostentava un mutismo eccentrico, poco comprensibile.
Malgrado questo, il giorno della mia partenza, frettolosamente stabilito poco dopo il mio arrivo, scambiammo qualche parola.
Lei si ricordava di me ma pareva aver dimenticato le circostanze che ci avevano fatti incontrare.
Rossella mi aveva raccontato che il gruppo di amici che era con lei e il fidanzato stesso, con il quale stava da svariati anni, assecondavano le sue stravaganze, imputandole al recente e devastante tracollo finanziario dell’industria del padre.
Ero così venuto a scoprire che alcuni dei giocattoli della mia infanzia erano stati prodotti dal padre di Marina.
La fabbrica che era finita a gambe all’aria era la Mercury, una delle rare degne avversarie delle imperanti inglesi Dinky e Corgy Toys nella riproduzione 1:43 di modellini d’automobile, nonché produttrice di una curiosa, minuscola, cassaforte con funzione di salvadanaio, con tanto di rondelle a doppia combinazione. Un capolavoro in miniatura.








Comunque, lasciai Panarea.
Non incontrai più Rossella.
Per altri quattro anni nulla mi portò a ripensare a Marina.
Tra il 1979  e il 1983 intrapresi una serie di scoordinate peregrinazioni che mascheravano con goffaggine la mia inadattabilità ad affrontare la vita reale.
Non essendo intenzionato, o meglio, essendo terrorizzato all’ipotesi di affrontare la mia condizione, devastata dall’equivoco dal mio diporto d’illusioni, tendevo a darmela a gambe.
Dopo la laurea avevo lasciato Parma per Roma dove avevo intrapreso in maniera confusa e fortuita un’attività nel mondo del cinema, abbandonandola dopo un paio di esperienze di assistente alla regia, risentito per il fatto di non essere stato immediatamente riconosciuto come un talento da scoprire.
Ero finito a Milano al seguito di un amore sconclusionato ma capitale e proprio in quel periodo un tale, amico di un amico, che aveva un fratello in un posto di responsabilità alla Bantham Book di New York, mi aveva ventilato una vaga opportunità lavorativa nell’ambito editoriale d’oltreoceano.
Mi ero quindi trasferito a Londra per perfezionare il mio inglese, non prima di aver venduto l’appartamento che i miei genitori mi avevano lasciato a Torino, città dove avevo la certezza assoluta che non sarei più tornato.












Da perfezionare non c’era nulla.
Malgrado qualche breve soggiorno estivo in Gran Bretagna, in anni precedenti, io l’inglese proprio non lo sapevo, ma sul momento, di fronte alla prospettiva di dover fare i conti con la mia vita e intravedendo la bancarotta, la questione dell’inglese mi era parsa un dettaglio irrilevante.
Ovviamente l’esperienza londinese si era rivelata un fiasco, ma non solo. Per certi aspetti era stata terapeuticamente tragica.
Con capricciosa amarezza là si era conclusa la storia con Luisa – l’amore milanese – che, al contrario di me, da Londra era partita per gli Stati Uniti. Questo fatto mi aveva spinto a riconoscermi in modo allarmante nel protagonista di uno dei miei film preferiti: “Billy il bugiardo”.
Il prematuro rientro in Italia era stato inevitabile.
Il non avere più una casa a Torino, una bohème a Milano, uno pseudo lavoro a Roma, né una ragion d’essere o il coraggio di stare da qualsiasi parte, mi avevano spinto a rifugiarmi nel paesino dove da qualche anno si erano ritirati i miei genitori.
Il posto è bello.
C’erano – e ci sono ancora – boschi di castani e betulle, montagne coperte di felci, erica e rododendri selvatici, torrenti, laghetti. C’era l’accogliente grembo della casa dei miei e una cascina isolata, protetta alle spalle da un boschetto di larici piantati vent’anni prima da mio nonno, che intendevo restaurare con i soldi che erano avanzati dai miei sperperi, dalla vendita della casa di Torino.
La scelta si rivelò ovviamente priva di costrutto, ma mi dette il tempo per una disperazione sufficiente a conquistare qualche consapevolezza in più.
Le iniziative sconclusionate non si interruppero però bruscamente: comprai ancora un paio di cavalli, progettai senza la minima competenza un futuro di gestore agrituristico, un ritiro dal mondo che voleva apparire coraggioso e originale ma che non riusciva a mascherare il sapore amarissimo della resa senza resistenza.










Dopo un anno fui costretto ad un’altra fuga.
Finii, da solo, a Parigi.
Lassù il destino si impietosì. Concesse il tempo di riprendere fiato e intanto accettare che la maggior parte delle cose che accadevano erano molto lontane da ciò che desideravo.
Non mi annegai nella Senna, come per un momento avevo creduto che sarebbe stato opportuno e coerente fare, ma tornai in Italia dopo qualche tempo, armato d’una determinazione che mi meraviglia tuttora, e calai su Roma.
Riannodai le fila delle mie poche conoscenze in ambito cinematografico, trovai lavoro sui set - lavoro retribuito – e per quasi tre anni, pur in costante presenza di alterne fortune, feci il mio molto fortunato apprendistato.
Nel 1983 mi si presentò l’opportunità di firmare la prima regia da professionista, per farlo tornai nella città che avevo lasciato, convinto che non mi avrebbe più rivisto. Torino.
Iniziai con dei brevi sopraluoghi all’inizio dell’estate.
Il fatto di essere stato assente piuttosto a lungo e che, soprattutto, nel tempo della mia assenza le circostanze mi avessero trasformato in una persona più complicata e meno gioviale non facilitava il ritorno.
Amiche ed amici avevano proseguito il cammino, si erano inoltrati definitivamente nel territorio delle convinzioni e delle convenzioni che coadiuvano provvidenzialmente le esistenze apparentemente indisturbate. Erano in crociera, io arrancavo su un sentiero di montagna. Loro conoscevano la destinazione e contavano di raggiungerla in tempi brevi e presumibilmente docili, io non ero sicuro che il panorama che mi attendeva là dove mi affannavo a dirigermi non sarebbe stato velato di nebbia e nuvole.
Soprattutto mi ero appena incamminato, e dunque supplivo alla debolezza della mia identità comportandomi in modo aggressivo, sarcastico, irascibile.
Il quei primi giorni a Torino rividi, tra gli altri, Eva Ferrero.
Anche lei, come me, era reduce dall’aver mosso passi azzardati.
Sfuggita al nido confortevole della buona borghesia torinese aveva, qualche anno prima, sposato un francese pazzo, che l’aveva costretta a vivere su una barca in perenne avaria, pescando e lavorando coralli, immergendosi con bombole difettose, alimentandosi quasi esclusivamente di pesce.
La travolgente passione iniziale si era trasformata in breve in una claustrofobica condizione di prigionia.
Con espedienti premeditati a lungo Eva era riuscita ad evadere, rientrare in Italia e rifugiarsi a casa della madre, vivendo in un regime di semiclandestinità, perseguitata dal timore di veder comparire il francese intenzionato a riprendersela. Poi era arrivata la notizia che lui era morto in un incidente in mare.
Lei aveva iniziato a muovere i primi passi nel mondo del giornalismo.
Durante la cena del nostro rivederci ci eravamo confortati reciprocamente, malcelando la fierezza per le nostre disavventure che gli altri ascoltavano con perplessità.
Eva ce l’ha poi fatta a diventare una buona giornalista, ma non abbastanza a lungo: se l’è portata via un’emorragia cerebrale nel 1993, a trentanove anni.
Quella sera dell’83, dopo la cena, mi aveva proposto di filarcela in sordina.
Conosceva un nuovo locale in città. Riteneva che per noi due andasse bene, per gli altri no.
E mi portò al Metrò.
Eravamo brilli, il locale era affollatissimo. Rivedevo volti appartenenti ad un passato remoto: un vecchio compagno di scuola che si era fatto un po’ di galera dopo il ’77 e la militanza in Autonomia, un’amica che aveva vissuto per anni a Katmandu. Poi, d’improvviso, lei.
Seduta ad un tavolo di gente vociante e sconosciuta aveva alzato lo sguardo al nostro passaggio.
Il mio tuffo al cuore nel riconoscerla si era immediatamente cautelato rifugiandosi dietro un cenno di saluto, un mezzo sorriso.
Con quello inchiodato alle labbra ero passato oltre, facendomi strada nella calca.
Avevo perso di vista Eva e mi ero accostato al bancone per ordinare da bere.
Di fianco a me si era insinuata una testa di capelli raccolti in una treccia lunghissima e folta.
Marina si era alzata sulla punta dei piedi sporgendosi in avanti e inaspettatamente mi aveva schioccato un paio di baci che parevano più musatine di gatto.
Disse che era contenta di rivedermi e lo disse ridendo, come se in me vedesse qualcosa di buffo.
In quella confusione la conversazione era laboriosa, e intuivo che all’improvviso lei si era fatta ansiosa di tornare al suo tavolo, come se là ci fosse qualcuno forse irritato da quel nostro scambio troppo protratto.
Eva mi segnalava di raggiungerla da un tavolo lontano, tra gente che non mi pareva di riconoscere.
Chiesi a Marina dove abitava e se il suo numero fosse sull’elenco, poi la lasciai andare. Dissi che l’avrei chiamata. Lei alzò le spalle, come se la cosa non avesse importanza.
Il mattino successivo non attesi neppure un’ora decente, chiamai poco prima delle dieci.
Il telefono squillò a lungo prima che una voce, che non faceva nulla per mascherare il disappunto, rispondesse.
Pronunciai il mio nome e lei emise una specie di sbuffo, dicendo che stava dormendo.
Chiesi se le andasse di fare colazione insieme e lei rispose qualcosa di incomprensibile. Cercai di essere disinvolto, di non rivelare incertezze nel tono di voce, proponendole di passare a prenderla. Lei mugugnò qualcosa tipo “Come ti pare” e interruppe la comunicazione.
Verso mezzogiorno varcai per la prima volta l’andito in fondo al cortile, dopo aver ricevuto indicazioni da una portinaia che mi aveva osservato con una spudorata curiosità valutativa.
Raggiunsi l’ultimo piano e bussai all’unica cosa che poteva essere una porta d’ingresso, priva di campanello o di qualsiasi segno identificativo.
Bussai più volte, distanziando con ragionevoli intervalli un tentativo dall’altro.
Mi ero ormai rassegnato alla ritirata quando percepii il suono dello scatto della serratura.
Marina apparve sull’uscio, s’appoggiò allo stipite, scalza, gli occhi socchiusi.
I capelli sciolti le cadevano sulle spalle come uno scialle leggero che le arrivava fino alla vita. Indossava una maglietta di parecchie misure più grande della sua.








Mi rivolse un cenno di riconoscimento infastidito e fece dietrofront.
Io mi affacciai in tempo per vederla sparire nella botola. Non osai seguirla su per quella specie di scala a pioli. Mi guardai attorno senza saper che fare. Sulla mia testa riconobbi un fruscio. Lenzuola. Un corpo in un letto. Mi augurai che fosse davvero uno solo. Marina era comunque tornata a dormire.
Sedetti su una specie di alto gradino profondo, rivestito di moquette marrone, su cui era appoggiato un impianto stereo piuttosto malandato e cumuli di LP in gran confusione, perlopiù fuori dalle custodie delle copertine.
Un anziano gatto siamese comparve all’improvviso e mi si accomodò di fronte, fissandomi con distacco.
Io presi a sfogliare distrattamente i dischi e poi, spinto da un’incontrollabile pulsione classificatoria, iniziai a ordinarli, imbustandoli.
Ero ancora alle prese con la mia catalogazione quando Marina riapparve all’imboccatura della botola. Discese tenendosi la battuta dei gradini alle spalle invece che frontale, come si usa fare per sicurezza, su quel genere di scale. Lo fece ad occhi socchiusi, rivelando agilità e noncuranza ambedue seducenti.
Mi sfilò di fronte. Il siamese si fece da parte. Lei chiese se mi andasse di bere un caffè.
La seguii nell’altra stanza. Lei prese ad armeggiare con una caffettiera nel lavandino. Si informò su che ora fosse ma il fatto di scoprire che era l’una passata non parve turbarla.
Sbadigliò e disse che sapeva perché ero lì.
Nel dirlo aveva smesso di trafficare con la caffettiera e si era voltata a guardarmi. I suoi occhi azzurri mi fissavano con un che di canzonatorio ed erano svegli, limpidi, senza traccia del sonno di un attimo prima.
Non ricordo che cosa mi riuscì di rispondere, sicuramente qualcosa di vago e interrogativo. Lei disse che ero lì perché volevo andare a letto con lei. Per l’esattezza disse: perché mi vuoi scopare, poi mise la caffettiera a bollire su un fornelletto da campeggio.
La storia d’amore tra noi due iniziò allora.








E’ durata un paio d’anni, un tempo oggettivamente non lungo ma memorabile, mantenendosi - grazie soprattutto a lei – su una soglia emotiva alta e, stranamente, poco perturbata.
Ne ero innamorato ma non ero geloso di quelli con i quali occasionalmente andava  letto, anzi, alcuni mi erano molto simpatici. E altri, che erano innamorati di lei forse più di me,  comunque in  modo più tormentato, accorato, monogamico, mi tolleravano.
Facevamo squadra per lei. Non so se qualcuno le chiedesse più di quanto poi riceveva, ma non credo.
Io allora vivevo in una condizione di perenne migrante, spostandomi con frequenza da un posto all’altro. A Torino abitavo da lei.
Trascorrevamo molto tempo in quel suo letto dai contorni irregolari, e il fatto che dal lucernario filtrasse acqua durante i temporali non mi ricordo ci desse troppa pena.
Eravamo poveri.
Lei era un medico, ma specializzanda, io un regista, ma esordiente.
La nostra era quella povertà squilibrata e a volte stupita di chi ha esperienza dell’essere stato molto ricco – come nel suo caso - o semplicemente benestante, come nel mio.
Ci spostavamo sulla sua sbilenca 500 giardiniera rossa, rumorosa come un trattore, che già allora rappresentava una datata eccentricità.
Dopo circa un anno dal nostro incontro, falsificando le firme del garante e trafficando non ricordo come, riuscii a stipulare un contratto per l’acquisto in 48 rate mensili di una Uno 45, di un orribile color carta da zucchero, ma nuova fiammante.
Nella  mia cascina davanti al boschetto di larici, dove ci rifugiavamo per parte dell’estate, avevo una vecchia Mike Andrews da trial, per scorazzare in montagna.
















Avevamo sempre cibo in abbondanza, potevamo ubriacarci tutte le volte che ci andava di farlo, eravamo circondati di amici con i quali ci si divertiva.
Eravamo ricchi.
Quel tipo di ricchezza lì, del vivere di poco e non mancare di nulla, l’ho individuata allora.
Mi fa ancora paura ma è l’unica per la quale intendo darmi da fare.
Saper viaggiare leggeri è comunque un’arte complessa, severa, chiede continua vigilanza, e coraggio, e controllo del panico.
Apparentemente io e Marina sembravamo equipaggiati in quel senso, però non era proprio così, o non del tutto.
Un giorno lei disse che aveva perso sensibilità ad una gamba. Camminava trascinandola. Però sembrava non volersene allarmare, insisteva nel suo atteggiamento di filosofico cinismo. Fortunatamente tra gli amici fedelmente innamorati c’era Giovanni M. medico anche lui, con una tormentata spiritualità un po’ sconnessa, e un altro medico, un neurologo, che si adoperarono per sottoporla immediatamente ad una serie di esami.
Ero accanto al lettino quando le conficcarono il lungo ago tra le vertebre, per il prelievo lombare. Lei taceva, senza neppure una smorfia di dolore.
Giovanni ed io la riportammo a casa, alternandoci nel tenerla tra le braccia lungo le rampe di scale che salivano al suo appartamento.
La diagnosi fu tempestiva e feroce, sclerosi multipla, o a placche, non ricordo, insomma un verdetto.
Questo me lo spiegò Giovanni.
Da quel momento la memoria ha opportunamente occultato gli eventi successivi, e se cerco di forzarla c’è una parte di me che resiste ottusamente e incrollabilmente.
Quei giorni dimenticati trascorsero. Come la malattia di Marina sia receduta non ricordo. Si sollevò dal letto, riprese cautamente a camminare. Sua madre, una signora bella e deliziosamente spiritosa, diradò le sue visite.
Io andavo e venivo, mi convincevo della mia libertà vagando in maniera più o meno giustificata da una città all’altra, più simile ad un animale che si sposta incessantemente davanti ad una parete di sbarre che a un giramondo senza pensieri.
Tornando trovavo Marina migliorata, ormai però il conto la vita lo aveva presentato, la talpa imbalsamata che lei teneva accanto al letto non mi appariva più come paradigma di seducente unicità ma per quello che era, un povero animaletto morto.











Più o meno a quell’epoca si verificarono alcune circostanze curiose che, intrecciandosi in una trama inattesa, ci accomunarono persino nella separazione.
Marina aveva un amico, un adulto definitivo rispetto a noi due, adulti si, anagraficamente, ma provvisori, sempre pencolanti sul versante adolescenziale.
Questo amico, occasionalmente suo amante, conoscente di famiglia, professionista affermatissimo, esageratamente ricco, perseguiva con una certa pervicacia l’intenzione di convolare a nozze con una certa Daniela di cui io neppure supponevo l’esistenza.
Trascorreva con lei vacanze in luoghi esotici, durante le quali ribadiva l’offerta con costante insistenza.
Poi io e questa Daniela ci conoscemmo tramite un amico, che era innamorato di lei e che contava sul fatto che non fosse assolutamente il mio tipo.
Invece noi due instaurammo quasi immediatamente un rapporto sentimentale che lei prese a dirigere con confortevole maestria.
Un giorno mi disse che avremmo potuto sposarci. E finì che lo facemmo.










Nel frattempo la storia con Marina si era dissolta senza urti, sconfitta dalla friabilità imposta dalle nostre paure, o quantomeno dalle mie.
E accadde che l’amico, incoraggiato dall’uscita di scena di quel tipo che compariva spesso inatteso, costringendo lui e Marina a funamboliche interruzioni dei loro incontri, e probabilmente deluso dal fatto che Daniela addirittura quel tipo - cioè io - se lo sposasse, sposò Marina.
Senza che io e lui ci si sia mai incontrati.
Un curioso scambio di parti.
Il mio matrimonio fu un fallimento quasi istantaneo, quello di Marina, per quel che ne so, dura tuttora.
Ha avuto un figlio, che ora che ne scrivo sarà un giovanotto.
L’ho visto, una volta, parecchi anni fa, per strada, di fronte a Bolaffi, per mano a suo padre, che io so riconoscere di vista mentre non credo che lui saprebbe riconoscere me.
Attraversavano via Cavour. Il bambino, che non so neppure come si chiama, camminava a fianco del padre, tenendolo per mano, sgambettando con la camminata elastica e accorta di sua madre, gli stessi occhi, gli stessi capelli.
Un bellissimo bambino con lo sguardo intento ai suoi passi, calzati di sandaletti di plastica trasparente. Un tocco popolar-balneare sicuramente frutto di un vezzo di Marina. Qualcosa che, scelto da lei e applicato a quella sua miniatura pensosa, appariva persino elegante.










Padre e figlio erano rapidamente spariti dietro l’angolo di via Pomba, lasciandomi lì, ad essere contento per lei, fiero di lei.
Durante l’inverno che precedette il mio incontro con Daniela, Marina raggranellava un po’ di denaro facendo guardie mediche notturne in luoghi fuori mano.
In un’occasione le offrirono alcuni giorni a Cesana.
L’area di competenza includeva Sestriere e Claviere. C’erano state buone nevicate ed era stagione di settimane bianche. La dotazione del soccorso includeva un fuoristrada. Io non ero girovagante come al solito e Marina mi ingaggiò come autista.
Arrivammo di sera. Il cielo era d’un buio bluastro, l’aria ghiacciava il respiro e profumava di neve.
Ci misero a disposizione un paio di stanze surriscaldate all’ultimo piano del Municipio.
Sul tavolo spoglio del vestibolo campeggiava una ricetrasmittente piuttosto ingombrante, che Marina sapeva utilizzare. Nell’altra stanza ci attendevano un paio di letti a castello dotati di materassi di lana e ruvide coperte militari color cioccolato, qualche sedia spaiata, una nicchia con appese delle grucce di fil di ferro, nient’altro. Sul pianerottolo c’era un bagno.
Posammo il nostro esiguo bagaglio.
Durante la notte saremmo stati gli unici inquilini del palazzo comunale.
Il sistema consisteva nello stare in attesa delle chiamate notturne d’emergenza sonnecchiando nei nostri sacchi a pelo. Quando la ricetrasmittente attaccava a gracchiare saltavamo su come pompieri. Ci imbacuccavamo, Marina impugnava la sua borsa di cuoio da medico di frontiera, io azionavo immediatamente le spie luminose rotanti sul tetto della jeep, immancabilmente deluso dal fatto di non poter fruire anche di una sirena, e via.
Mentre io guidavo sulle strade innevate, scintillanti di riflessi lunari, lei teneva laconici contatti con la radio di bordo.
Ci andavo matto per quei momenti notturni, spesso vicini all’alba, che ci trovavano solitari sulle strade deserte, con le nostre soccorrevoli luci blu che dardeggiavano attorno.
In genere io restavo a bordo.
C’era sempre qualcuno che aspettava ansioso e infreddolito nel luogo indicato, sotto un condominio o di fronte ad un albergo. Il nostro arrivo gli distendeva l’espressione. Marina spariva all’interno. Io me ne stavo al volante, al calduccio, rispondendo a eventuali chiamate, senza mai spegnere le luci sul tetto.
Si trattava quasi sempre di piccole emergenze, un lavapiatti turco ferito ad una mano, una signora di Genova con una colica, un bambino con la febbre alta.
Poi, una notte, una chiamata ci spedì ad un appuntamento inconsueto.
Dissero che avremmo trovato qualcuno ad attenderci alla partenza delle piste. Era strano, ma lì per lì non gli demmo peso.
Ed in effetti là, in piedi sulla neve, c’era una figura immobile, allampanata.
Il lumino rosso della brace di una sigaretta gli alonava la parte inferiore del volto mentre ci avvicinavamo.
L’uomo doveva essere sui cinquant’anni, alto e magro, con un viso allungato cui un’espressione vagamente compiaciuta conferiva qualcosa di sciocco. Indossava un giaccone imbottito, guanti, niente berretto.
Disse che la moglie era caduta per le scale. Marina chiese “Dove ?”, lui rispose “ Adesso ci andiamo. Salite pure” E si mise alla guida di una grossa motoslitta che era lì accanto.
Non era propriamente ubriaco, ma appariva evidente che aveva bevuto. I gesti non avevano incertezze ma erano innaturalmente rallentati.
Mise in moto. Un paio di potenti fari affiancati illuminarono la distesa di neve di fronte a noi.
Marina salì, e io dietro di lei. La sella era lunga e comoda, ci sarebbe stato posto per un altro paio di passeggeri. L’uomo partì con un’accelerazione improvvisa lanciandosi in salita, direttamente verso le piste.
Né io né Marina avevamo idea di dove fossimo diretti.
La motoslitta filava sulla neve battuta derapando avventurosamente nelle curve, sobbalzando impavida sulle cunette. I boschi di abeti ci sfrecciavano accanto, oscuri e tranquilli.
Per essere di notte, sulla neve, senza tracce di vita attorno e con un uomo sconosciuto e non sobrio alla guida di un mezzo poco consueto, andavamo ad una velocità pazzesca.
Però arrivammo.
Su un grande spiazzo illuminato, di fronte ad uno chalet.
Impiegai un po’ di tempo a capire che era un punto di ristoro sul tracciato delle piste.
Su una sequenza di pennoni i cavi d’acciaio che issavano le bandiere di una mezza dozzina di nazioni sbatacchiavano con un tintinnio reso costante dal vento notturno. Era l’unico rumore della notte, dopo che l’uomo spense il motore di fronte all’ingresso.
All’interno l’ambiente era in semioscurità, in un’atmosfera assopita. Deserto.
L’uomo ci precedette, infilandosi dietro un bancone e azionando degli interruttori che illuminarono brutalmente un ambiente vasto e apparentemente accogliente, disseminato di tavolini e panche tirolesi, rivestito di mezzi tronchi.
“ Uno champagnino ? “ disse l’uomo, appoggiando sul banco tre calici.
“ Sua moglie dov’è ? “ chiese Marina. Il tono era sbrigativo.
“Ooh…di sopra…” l’uomo sembrava deluso dal nostro rifiuto.
Marina intanto si era già avviata verso una scala sul fondo del locale, stretta e scricchiolante. In cima, su un ballatoio angusto, una ragazzona dall’aria spaventata ci guardava salire, stringendosi addosso una vestaglietta semitrasparente che conteneva solo in parte l’esubero delle sue forme. Improvvisamente si mise a piagnucolare.
L’uomo, dal basso, le disse di non farlo, che era tutto a posto, ma lei continuò.
Da una delle camere che si affacciavano su un breve corridoio venne una voce. Un lamento rauco e confuso.
L’ambiente conteneva a malapena un letto matrimoniale strano per quel posto: tutto fronzoli, raso e volants. Su di questo, in un disordine di lenzuola gualcite, stava una donna, con la schiena appoggiata alla testiera, il capo avvolto in un asciugamani macchiato di sangue. Le macchie erano anche su altri, ammonticchiati a terra di fianco al letto, accanto ad una bacinella.
Vedendoci entrare la donna si animò d’un’aggressività guardinga e confusa. Era ubriaca.
Che Marina fosse un medico non rientrava nella sua concezione della categoria, e all’inizio rifiutò di lasciarsi toccare. Quando finalmente il capo le venne liberato dal turbante dell’asciugamani si presentò una ferita estesa, ingrommata di sangue, tra i capelli, sopra la fronte.
Mentre Marina procedeva nella pulizia della lacerazione la donna iniziò ad inveire contro il marito.
Biascicando lo accusava d’esser stato lui a spingerla giù per le scale.
Sulla porta della stanza la ragazzona, che risultava essere una cameriera del rifugio, ci osservava atterrita, senza però riuscire a dissimulare una curiosità infantile rivolta ai gesti di Marina durante la medicazione.
L’uomo era sparito.
La donna nel letto a tratti si agitava all’improvviso, inveendo in direzione della porta, percependo ottusamente e senza lamentarsi il dolore della disinfezione e della manipolazione della ferita.
Marina chiese alla ragazzona se ci fosse un rasoio pulito. Lei annuì, senza però spostarsi dall’ingresso.
La donna nel letto, come se la vedesse solo ora, pur avendola avuta di fronte per tutto il tempo, prese ad inveire anche contro di lei, accusandola di andare a letto con il marito, utilizzando un linguaggio osceno e dettagliato per descrivere le loro pratiche erotiche.
Marina procedeva imperterrita, intimando a denti stretti alla donna di star ferma. Io ero lì accanto, reggendo la valigetta del dottore aperta. La ragazzona spostava il peso da un piede all’altro, calzati di logore ciabatte di spugna, e si teneva i gomiti abbracciandoseli sotto il petto, che schiumava latteo nello scollo della vestaglietta per via di quel suo reiterato altalenare.
Ad un certo punto Marina si voltò furiosa e le intimò “Andiamo !” spingendola in corridoio.  A me  disse di pulire la donna dal sangue che le si era seccato sul viso, il collo, le mani, indicandomi una spugnetta che galleggiava nella bacinella.
- Con delicatezza -  aggiunse, prima di sparire nel corridoio.
Ora io le la donna ci fronteggiavamo, guardandoci direttamente per la prima volta.
In me non credo ci sia stato nessun cambiamento di rilievo se non il panico d’esser lasciato solo con un’estranea ubriaca con una vistosa ferita alla testa, che però riuscivo a mascherare dietro un sorriso di circostanza che avrebbe voluto essere incoraggiante.
Lei invece si trasformò, repentinamente, e malgrado fosse lì, abbandonata in quel letto sfatto, con il viso tumefatto striato di sangue secco, relativamente fuori di sé, prese incredibilmente a civettare.
Osservandola con attenzione si capiva che doveva essere stata bella, sapientemente attraente. I lineamenti che affioravano sotto i miei prudenti passaggi di spugna rivelavano tratti delicati, quasi adolescenziali malgrado l’usura degli anni e degli abusi alcoolici. Era difficile attribuirle un’età, doveva oscillare tra i cinquanta e i sessanta. C’era una crescita grigia di un paio di centimetri sotto la tintura castana.
Lei cominciò a chiamarmi dottore.
- Un bel dottorino per una povera vecchietta ! - gorgheggiava. Aveva cambiato tono di voce, optando per un che di flautato, che le riusciva incerto, per via dell’incespicare verbale dettato dalla sbronza.
Mentre mi chinavo si spostò un po’ di lato, come per facilitare il mio compito, e così facendo lasciò che la vestaglia, incredibilmente simile a quella che indossava la ragazzona, si aprisse di quel tanto sufficiente a rivelare un piccolo seno grinzoso.
Mi fissava con una sicurezza sorprendente. Io fingevo di non vedere, affaccendandomi sul suo viso e sul collo.
All’improvviso, sussurrando, cominciò a snocciolare accuse nei confronti del marito. Circostanziate e attendibili più di quanto ci si sarebbe potuto aspettare da una donna nelle sue condizioni.
Tornò Marina. La donna le rivolse una specie di giubilante sguardo di sfida. Marina le chiuse la vestaglia e prese a tagliare i capelli attorno alla ferita. Sulle prime la donna cercò di resistere, poi si rassegnò.
La ragazzona si sedette sul bordo del letto e le prese la mano. Lei la lasciò fare e sembrò addirittura propensa a commuoversi.
Marina rasava i contorni del taglio con un rasoio di sicurezza mentre la donna, ora, cercando di spremere lacrime che non venivano, presentò, con un’agilità riassuntiva notevole, buona parte degli eventi del suo matrimonio. Un disastro.
Ribadì le accuse al marito. La ragazzona ogni tanto annuiva.
Marina graffettò la ferita, disse alla donna che il giorno seguente avrebbe dovuto presentarsi in ospedale e aggiunse che avrebbe dovuto stendere un rapporto riguardo alle sue accuse.
          - Che rapporto ? – chiese la donna.
- Ai carabinieri – disse Marina.
- Carabinieri ? macché carabinieri !
La donna iniziò a strillare, la ragazzona saltò in piedi.
Marina disse “Abbiamo finito. Se le fa male prenda una di queste” e uscì dalla stanza.
La donna mi guardava e implorava.
- Glielo dica lei dottore, alla sua collega ! Cosa c’entrano i carabinieri ! Non vorrete mica mandarlo in prigione, no ?
         Uscii borbottando rassicurazioni incoerenti. 
Marina era al bancone del bar, dietro il quale l’uomo, che indossava un blazer blu doppiopetto con bottoni argentati, una camicia color malva e un foulard annodato sul collo alla perfezione, estraeva una bottiglia da un secchiello di ghiaccio.
- Adesso sì che lo prendete uno champagnino, eh ?
disse soddisfatto, versando nei calici.
Marina gli riferì laconicamente delle accuse della moglie.
Lui non smise neppure di versare, non manifestò nessuna meraviglia, non cercò di giustificarsi. Disse soltanto:
“E’ gelosa. Son sciocchezze. E’ gelosa di Annamaria, il resto son fantasie. Mia moglie beve…è caduta da sola”
Marina rispose che avrebbe dovuto comunque stilare un rapporto. Lui non chiese per chi. Alzò le spalle e ci invitò ad un brindisi svogliato.
E brindammo. Fu la cosa più strana di tutta la nottata, quel brindisi.
Poi si ripartì, nel buio, con l’uomo alla guida che nel tempo della medicazione doveva aver continuato a bere.
La discesa fu molto peggio della salita, ma arrivammo in fondo.
Lui restò seduto alla guida, neppure spense il motore, ci rivolse un cenno e ripartì.
“ Che cazzo di gente…” disse Marina, avviandosi verso la jeep.
Io, adesso che l’avventura era conclusa – e con essa i rischi connessi, come i viaggi in motoslitta o l’imprevedibilità delle persone con cui avevamo avuto a che fare – mi sentivo baldanzoso, avevo voglia di commentare la nostra esperienza, di complimentarmi con lei  per il sangue freddo e la competenza che aveva dimostrato in tutta la faccenda. Marina no.
“ Che cazzo di vita…” disse, riflettendo su quei tre, o forse anche su noi, e tutti gli altri.
“…e lascia perdere le luminarie” aggiunse quando fummo a bordo, ed io già mi accingevo ad accendere le luci intermittenti sul tetto.
Per quella notte non arrivarono altre chiamate. 
Ci addormentammo alle prime luci dell’alba, nei nostri sacchi a pelo, sulle brande a castello sotto i tetti del municipio deserto.
















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