domenica 23 gennaio 2011

WHITTLING - CAVALLI





Per quanto riguarda "Cavalli" so addirittura non solo quando ho iniziato e finito di scriverlo, ma mi ero appuntato l'ora esatta.
Iniziato a Torino il 14 marzo (ore 11,30) e finito a Sirmione il 14 giugno (ore 14.30) del 1996.










CAVALLI


La prima volta la sorpresa é scoprire di stare più in alto di quanto ci si sarebbe aspettati. Poi lo stupore lascia immediatamente il posto ad una preoccupazione guardinga per quella cosa che sotto di te, pur se immobile, pulsa, vive, sbuffa inaspettatamente. Ti chiedi per quale ragione lo faccia e che cosa significhi; a che cosa preludano quei fremiti dei suoi muscoli sotto il tuo peso cauto, intimorito.
Ciondola la testa come per un diniego testardo, come a volerti strappare le briglie di mano, a ribadire che sarà lui a condurti e non il contrario. La sella emette preoccupanti cigolìi di vecchio cuoio ad ogni tuo prudente assestamento. L'immobilità dell'attesa é più temibile dell'idea di un galoppo sfrenato.
Poi finalmente ci si muove. Ci si avvia incolonnati al passo, un passo indolente, assonnato, e tutto si ricompone per lasciare spazio alle fantasie che hanno preceduto la decisione di salire per la prima volta in sella ad un cavallo.
Quelle fantasie ora ti riconquistano e grazie ad esse non sei più in un maneggio coperto per una ripresa di un'ora tra altri neofiti come te, ma dovunque tu voglia, per qualsiasi avventura.
Era l'inverno del 1965 alla Società Ippica Torinese.
Il mio primo compagno fu un pezzato bianco e marrone, pigro e sornione come un vecchio gatto d'inverno, capace di rallentare impercettibilmente il passo fino ad una sorta di surplace che pareva eseguire dormendo.
La voce dell'istruttore - a volte Dovadola, altre Aldo - schioccava nell'aria, echeggiando sotto la volta del maneggio e riportando i cavalli all'andatura che i nostri incitamenti e i nostri speroni non riuscivano a mantenere costante.
Venne poi il momento del trotto e fu il peggiore.
L'apprendimento del batter la sella, laborioso per il tentativo di non esser squassati come fagotti, costringeva al ridicolo. Si caracollava come ubriachi, impotenti al controllo di quel gigante ostinato sotto di noi. I moniti urlati dell'istruttore, sprezzantemente militareschi, non aiutavano. Anzi. Quegli "Stringere le ginocchia !" " Tacchi in basso !" " Giù quelle braccia !" arrivavano come sassate a sottolineare la tua sballottata incapacità di governo. Poi, a sorpresa, il ritmo veniva, prima solo a tratti, cercato con una spasmodica tensione muscolare, quindi più frequentemente, insieme alla percezione del doversi lasciar andare, assecondare l'incedere della cavalcatura come le movenze di una compagna di ballo.
Io a quel tempo ero un ragazzino innamorato dei cavalli. Per me fu sicuramente più facile che per altri.
Dopo la laboriosa disciplina del trotto venne il premio inebriante del galoppo, poi i primi ostacoli e di conseguenza i primi rifiuti e le prime cadute, sulla terra molle del maneggio.
Ti ritrovavi a terra, aggrappato alla briglia, prima ancora d'aver realizzato che lui ti aveva scaricato.
Due volte la settimana, in pomeriggi già annottati e nebbiosi d'inverno, venivo accompagnato alla Società Ippica.
Indossavo stivali neri con banda marrone, pantaloni a sbuffo, una giacchetta scozzese, guanti, frustino e niente kepì, perché allora non era d'obbligo e a me pareva ridicolo. Dopo una mezza dozzina di lezioni ebbi anche gli speroni.
Mia madre, e ogni tanto mio padre, assistevano alle riprese da quello che credo fosse il bar del circolo, che si affacciava con una vetrata sul maneggio interno.
Noi, di sotto, si caracollava seguendo le geometrie imposte dagli ordini circensi degli istruttori e consentite non tanto dalla nostra capacità di eseguirli ma dall'abitudine consolidata dell'animale a ripeterli interminabilmente.
La Società Ippica Torinese era un posto che non mi piaceva, che mi metteva a disagio. Lì, tutto quello che io avevo immaginato a proposito dell'andare a cavallo, si negava nell'altezzosità e nella supponenza della maggior parte delle persone che frequentavano il circolo. Il fatto poi di essere all'inizio, associato ad un manipolo di gente sgraziata, allarmata, in balìa delle astuzie e delle infingardaggini dei ronzini di scuola, non faceva che peggiorare la situazione.
Un giorno però, non ricordo come, venne fuori per me Stefania Bucca, che aveva la mia età ma mi superava in altezza di una decina di centimetri e montava benissimo.
Durante i mesi che frequentai il corso non mi dedico’ che pochi momenti tra una ripresa e l'altra, accompagnandomi a volte ai box e descrivendomi rapita le caratteristiche dei cavalli migliori, quelli di proprietà, che conosceva tutti. Quelle sporadiche occasioni furono però sufficienti a far sì che mi incantasse al punto di innamorarmene vagamente, anche se quella sua passione esclusiva per i quadrupedi la rendeva inespugnabile.
Fu lei a farmi capire che imparare a montare in quel posto significava imparare davvero, che il contorno non contava. Lei addirittura pareva non vederlo.
Una sera l'accompagnammo a casa. Lei scese dall'auto e si abbassò al finestrino per ringraziare, con il piglio deciso ed essenziale che aveva nel suo modo di fare. Era già il buio del tardo pomeriggio invernale e lei si allontanò in quell'oscurità lucida di asfalto bagnato, di riflessi di lampioni e fari d'automobili, e l'ho sempre ricordata così.
Ventisei anni dopo, nell'estate del'91, durante i sopraluoghi per un documentario in Irlanda, dalla produzione in Italia ci segnalarono che poteva esserci utile contattare un veterinario italiano che si occupava di cavalli. Lavorava per un grande allevamento dalle parti di Thurles, nella contea di Tipperary. Al telefono ci dissero che era uno specialista molto ricercato che trascorreva sei mesi in Irlanda e gli altri sei in Nuova Zelanda, sempre lavorando per allevamenti molto prestigiosi. Ci dissero che era una donna e che si chiamava Stefania B.
Così andammo a Thurles. Lei, al telefono, era stata molto guardinga, aveva accettato di incontrarci senza molta convinzione.
L'attendemmo sulla piccola piazza del paese e la vedemmo arrivare a bordo di una Uno nera, con la guida a destra. Scese e ci venne incontro. Io riconobbi qualcosa di molto vago nel suo viso. Lei di me nulla.
Ci presentammo e supero’ la cautela distaccata della telefonata. Pranzammo nella sala ristorante del circolo locale, seduti tra un affollamento di notabili cui lei rivolgeva amichevoli cenni di saluto, c'era il rubizzo parroco in clergyman che presiedeva una tavolata di signore attempate con inverosimili cappellini, c'erano intere famiglie lustrate da impacciate eleganze domenicali, e il tutto calato in un'atmosfera che fino a quel momento mi ero limitato ad immaginare, trovandola descritta nei romanzi.
Eravamo tornati indietro di almeno cinquant'anni, o meglio, gli ultimi cinquant'anni a Thurles parevano esser trascorsi al ritmo di uno ogni dieci. Tutto sembrava più facile e più degno, più pulito e al proprio posto, le stampe alle pareti, le finestre a vetri piombati affacciate su un querceto al di là del quale si stendevano pascoli di trifoglio, i volti di adulti e bambini come disegni di libri illustrati, il salmone stufato nei nostri piatti e la Guinness nelle nostre pinte.
Fu un bel regalo quello che Stefania ci fece senza saperlo: quel pranzo nella parrocchia di Thurles dove tutto era rimasto come prima.
Ci invitò poi a casa sua, un cottage isolato tra pascoli e macchie di bosco, in fondo a una straduccia stretta tra muri a secco, accanto ad un ponticello di pietra ombreggiato di fronde su un  pacifico ed esiguo corso d’acqua.
Attorno alla sua casa ad un piano non si scorgevano, in nessuna direzione, altri edifici ma solamente pascoli, staccionate bianche sul verde dei prati, isole di vegetazione qua e là e gobbe gentili di colline lontane.
La casa era arredata con accogliente sobrietà nordica, sulle pareti della cucina campeggiavano ingrandimenti fotografici di scorci torinesi.
Le chiedemmo se non fosse difficile vivere in un isolamento così completo e lei rispose che la sua giornata di lavoro era molto lunga. Usciva di casa poco dopo l'alba e non tornava che al tramonto, il resto del tempo lo trascorreva all'allevamento.
Fingendo un ricordo improvviso e approssimativo accennai alla Società Ippica, feci il nome di Dovadola, scrutai i suoi occhi alla ricerca di eventuali tracce di quel passato che includesse anche me, ma era evidente che quel ragazzino che lei aveva accompagnato ai box era stato dimenticato per sempre, così lasciai perdere.
Si parlò un po’ di Torino, dove lei tornava ogni tanto a trovare i genitori, poi ci raccontò della Nuova Zelanda, del suo lavoro, dell'orgoglio di aver conquistato il rispetto degli uomini dell'allevamento dopo battaglie senza esclusione di colpi contro i pregiudizi, le resistenze nei confronti di una donna che pretendeva di essere l'uomo migliore per i loro cavalli. Ce l'aveva fatta anche contro l'eccentrica ostinazione irlandese.
Qualche giorno dopo tornammo da lei dopo aver raccolto la troupe sbarcata a Rosslare.
Girammo delle sequenze all'allevamento, la riprendemmo mentre controllava sofisticate apparecchiature per ecografie e mentre affondava un braccio fino alla spalla nel sedere di una fattrice senza neppure un accenno di repulsione.
Ci portò a conoscere il suo cavallo, un imponente bestione da caccia, nero e lucido come giaietto, fiero come la cavalcatura di un soldato.
Tornammo poi al suo cottage sotto una pioggerellina fitta e minuta che velava gli orizzonti.
I cavalli nei paddocks intorno a casa sua opponevano i posteriori allo scroscio leggero del temporale, gli uni accostati agli altri, con i mantelli lucidi di pioggia. Li riprendemmo da dentro casa e furono poi le uniche immagini girate in quel posto a trovare spazio nel film; le altre - anche se belle - finirono dolorosamente tra gli scarti.
Prima che ce ne andassimo Stefania ci offrì un the’, chiacchierò ancora a lungo, parlò dell'Irlanda e di Torino, accennò ad un fidanzato neozelandese che per ovvie ragioni vedeva poco.
Io mi guardavo attorno, spiavo l'esterno sotto la pioggia, tutta quella pacifica ed estenuante lontananza da tutto, i cavalli immobili nell'erba alta mossa da un vento leggero, nubi bianche in scorribanda verso le colline, la vistosa antenna parabolica fissata alla parete esterna del cottage, quella implacabile solitudine.
Avevo voglia di confessarle all'ultimo momento, cercando un tono di condiscendente leggerezza, quel vago sentimento d'amore che lei, amazzone adolescente, aveva suscitato in me ragazzino, ma nella confusione frettolosa che sempre contraddistingue il commiato di una troupe finii col non riuscirci.
Ci salutò, ferma sulla porta di casa, fino a che non scavalcammo il ponticello di pietra e in vista non rimase che il tetto del cottage.
Mentre seguivamo la strada per Cashel pensai che quasi certamente nessuno ricordava quei due ragazzi alla Società Ippica Torinese se neppure loro due ricordavano sé stessi, e questo, invece di immalinconirmi, mi incoraggiò ad una specie di rassegnata allegria.
Due puledri di forse un anno scorazzavano inseguendo il vento che aveva spinto via la pioggia e scalciavano d'entusiasmo con le groppe inarcate.
Altri puledri avevo visto fare la stessa cosa molti anni prima, inaspettatamente, in un campo alle porte di Rueglio, dove un tale che chiamavano Valesa aveva allestito un maneggio rudimentale con la collaborazione di un omarino dalla vocetta chioccia e dal fisico minuto, ma d'acciaio, che tutti chiamavano maresciallo, o meglio, per dirla a modo suo: maresiallo.
Valesa si era avventurato, in anni precedenti, nella pionieristica costruzione di uno skilift a cima Bossola, in una posizione raggiungibile solo con la vecchia jeep che lui guidava spericolatamente su un tratturo nevoso, carica all'inverosimile di sciatori, vettovaglie, taniche di carburante, parti meccaniche. Avanti e indietro per tutto il giorno, con allegria e schiamazzi.
Erano gli anni cinquanta, tutto sembrava praticabile e di tutto ci si divertiva.
E adesso, alla fine dei sessanta, si era lanciato in quest'avventura dei cavalli. Sempre in anticipo sulle tendenze generali e sempre senza il denaro sufficiente, e la sufficiente costanza, per trasformare il suo entusiasmo in un'attività definitiva, consolidata, ma immancabilmente con la stessa allegria zingaresca che lo rendeva simpatico a tutti.
Ora, dietro il campo di foot-ball, in un terreno recintato alla buona con corde e picchetti, il maresciallo impartiva lezioni di equitazione mentre Valesa portava la gente in passeggiata lungo il vecchio percorso della jeep, attraverso i boschi di betulle verso i prati di mirtilli di cima Bossola.
Io ero reduce dalla Società Ippica.
Montai un poco nel prato dietro il campo da foot-ball e superai senza difficoltà gli ostacoli rudimentali che il maresciallo aveva allestito e che nessuno affrontava. Tra tutta quella gente che caracollava in sella per la prima volta dovetti apparirgli come un cosacco.
Disse - Molto bene giovane, questa é la cavalla che fa per te - e mi indicò un fattrice dal mantello roano bruciato, tozza e bassa, con occhi maligni, che se ne stava in disparte con il suo puledro. Si chiamava Nina.
Mordeva a tradimento, calciava ogni volta che riteneva di averti a tiro dei suoi posteriori, rifiutava l'ostacolo con scarti d'astuzia che le costavano più fatica che non il superarlo, ma aveva un'andatura d'una morbidezza prodigiosa ed era veloce come una palla da fucile. Cavalli che al garrese la superavano di una ventina di centimetri mangiavano immancabilmente la polvere appena lei sentiva la carezza degli speroni e la briglia allentata sul collo.
Ma non era lei il cavallo per me. Lo capii quando arrivò Ringo.
Era un sauro disperato, con quel nome assurdo e una voglia di correre che gli si leggeva addosso persino da fermo. Aveva appiombi posteriori storti come non avevo mai visto, brutti a vedersi ma che me lo rendevano simpatico.
Valesa disse che per un po’ non si poteva montare. Aveva il garrese spellato a sangue da un basto che il padrone precedente gli aveva imposto senza pietà né cognizione.
- Oppure - disse - si monta a pelo.
E imparai.
Avevo una giacca e un paio di pantaloni di daino con le frange e finalmente un cavallo da montare come un indiano.
La Società Ippica Torinese si perse lontanissimo e il maresciallo rinunciò a malincuore all'impeccabilità della mia monta inglese. Volai con Ringo per tutta l'estate.
Era un animale docile, pago di correre senza la costrizione del sottopancia e della sella, sotto il peso piumato di un ragazzino piuttosto piccolo per la sua età.
Dopo un po’ cercai di rinunciare anche al morso legandogli una corda alla mandibola inferiore come avevo visto, in un disegno, che facevano gli Indiani. Ringo ne approfittò, andando dove gli pareva, ebbro di quell'assenza di controllo cui non era abituato.
Ripristinai il morso e continuammo a scorazzare in assoluta libertà. Io mi sentivo un Lakota e lui, credo, un cane misterioso.
Montai per tutta l'estate a pelo. Le piaghe sul sedere si incallirono ed io fui in grado di stare in arcione senza risentirne.
Uscivo, a volte con il cambio di un paio di cavalli legati alla cavezza, e salivo attraverso i boschi fino ai falsipiani coperti di rododendri selvatici ed erica, annusando nell'aria quel profumo d'erbe che mi ricordava le escursioni dell'infanzia, gite che a me bambino erano parse viaggi, in protettive comitive d'adulti, ad inseguire scomparse cavallette giganti dalle ali arancioni e blu.
Poi venne l' autunno e tornai in città.
In quegli anni la gente che frequentavo si dava appuntamento da Platti, uno dei caffe’ storici di Torino, elegante, pieno di stucchi e tradizione.
Camerieri e proprietari tolleravano a malincuore la nostra presenza perché sapevano che tra noi c'erano alcuni tra i rampolli delle migliori famiglie della città.
Quelli come me, senza dinastia alle spalle, stavano sulla giostra con il biglietto gratis. Ma la storia degli anni di Platti é un'altra, che forse varrà la pena di raccontare in un'occasione diversa. Sta di fatto che ci si trovava lì, all'angolo tra Corso Vittorio e Corso Re Umberto, e nella buona stagione si stava fuori del caffe’, appollaiati sulle moto o seduti nelle auto con le portiere spalancate, in sosta sull'ampio spartitraffico tra il corso e il controviale.
In uno di quei giorni di settembre si fermò davanti a Platti Beppe Piglia in compagnia di un amico, un tipo già sulla trentina che si chiamava Graziano.
Questo Graziano aveva un modo di fare seducente, pur essendo evidente che scaturiva da un mondo antitetico al nostro. Affascinava per la vastità delle sue competenze e per quella specie di argot sabaudo col quale infiorettava il suo linguaggio, rendendolo scintillante.
Erano venuti, lui e Beppe, per combinare una gita a cavallo partendo da un maneggio alla periferia della città.
Graziano ci osservava con la condiscendenza di uno che é già da un pezzo oltre la posizione di quelli che ha sotto gli occhi.
Il giorno successivo affrontammo in una dozzina un percorso piuttosto impegnativo, che quel Graziano pareva essersi studiato proprio per mettere in difficoltà la comitiva. Ogni tanto si voltava a controllare se aveva perso qualcuno. Effettivamente ci fu chi venne disarcionato e qualcun'altro fu ricondotto inesorabilmente indietro da un cavallo molto più determinato del cavaliere. A gruppetti di due, tre, restavano indietro, sceglievano sentieri pacati, rallentavano ad un'andatura da passeggiata.
Guadammo il Sangone, ci inerpicammo per una scarpata friabile, scendemmo una riva d'erba sdrucciolevole. 








Lasciavo qualche metro tra il suo cavallo ed il mio. Lui montava con una sella americana, io a pelo.
Rientrammo al maneggio in un manipolo sparuto di gente provata, allegramente esausta.
Sulla via del ritorno a Torino, in auto, Beppe insisteva a voler parlare di certe commesse che Graziano aveva modo di portare quella sera nella sua garconnière. L'altro taceva. Poi a sorpresa, senza voltarsi, aveva chiesto a me se volessi interpretare dei Caroselli. Avevo risposto di sì senza quasi capire che cosa intendesse.
Per me Carosello era stato, come per tutti quelli della mia generazione, prima il confine invalicabile che segnava il limite al diritto di stare alzato la sera, riducendosi poi ad un appuntamento blando, domestico e saltuario, ma mai mi ero soffermato a riflettere che quei filmati in effetti andavano girati, realizzati come piccoli film.
Qualche giorno dopo Graziano mi portò ad un appuntamento al Gruppo G, una casa di produzione.
Mi introdusse negli uffici, salutò amichevolmente quelli che erano lì e mi presentò ad una certa Piera, un donnone caporalesco e materno che dava l'impressione di ricoprire la funzione di factotum.
Lei mi squadrò, considerò come tra sé e sé che forse ero un po’ troppo ragazzino, poi mi mise in lista per un provino.
Dopo circa una settimana, alla Tesoriera, che a quell'epoca era ancora un circolo privato, ci trovammo in un bel numero di ragazzi e ragazze a salire a turno su un lipizzano piuttosto ombroso.
I giovanotti erano tutti ingagliarditi dall'abbronzatura artificiale, con i capelli fissati dalla lacca, le ragazze erano tutte carine e altezzosissime. Gli uni e le altre si muovevano come davanti ad un fotografo, che però non c'era.
C'era invece, un po’ appartato, un tale piuttosto piccolo con una buffa testa rotonda che confabulava con Piera e controllava stizzosamente l'orologio.
Appena in sella la baldanza dei ragazzi e la supponenza delle ragazze svanivano e loro si aggrappavano disperatamente alla briglia, con il terrore negli occhi, si appoggiavano al collo dell'animale, sballottati in maniera ridicola dal trotto serrato del lipizzano, che poi si liberava di loro con una sgroppatina.
A quel punto cadevano, o meglio abbandonavano la prova lasciandosi scivolare goffamente a terra, con una caduta semivolontaria.
Ad ogni resa quel tale piccino si innervosiva sempre di più e la Piera, che con la sua statura da granatiere lo sovrastava abbondantemente, tentava di ammansirlo senza molto successo.
Giovanotti e signorine, non appena riconquistato il rassicurante conforto del contatto con il terreno, si rialzavano  cercando di darsi un tono. Immediatamente tentavano di giustificare l'insuccesso imputandolo all'irrequietezza dell'animale, quasi fossero stati costretti ad affrontare un rodeo.
Il signore di bassa statura concedeva loro un ascolto distratto e sembrava volersene andare al più presto.
- Ci sarebbe ancora lui - disse Piera indicando me, che stavo un poco in disparte.
-   Oh Madonna... - lo sentii mugugnare.
Mi accostai al lipizzano che ruminava la sua soddisfazione, impugnai un ciuffo della criniera e con uno slancio morbido balzai in groppa, poi lo portai in tondo con un galoppino stretto, elegante e trattenuto, una cosa che mi pareva da scuola di Vienna.
Mi attendevo un "Ooh..." di stupore da parte di tutta la compagnia ma nessuno fiatò.
I ragazzi tenevano d'occhio l'uomo cercando di capire se stesse prendendo una decisione che li avrebbe esclusi e le ragazze chiocciavano interminabilmente tra loro.
Scesi mentre ancora il cavallo era in movimento e riconsegnai le briglie all'inserviente.
La Piera sorrise e l'uomo piccino per un momento tenne le sopracciglia inarcate, per un'espressione  di soppeso valutativo, poi disse qualcosa sottovoce rivolto a lei, e se ne andò.
- Domattina vieni a provare il costume - mi sussurrò Piera, come in segreto.
- Chi era ? - chiesi, indicando la direzione in cui l'uomo era scomparso.
 - Come chi era ! Ma non lo sai ? Gasparone, il capo - rispose lei con deferenza.
Così il giorno dopo misurai pantaloni e camicia rossa, con stivali e cintura nera.
Mi scattarono delle fotografie e qualche giorno dopo mia madre si presentò a firmare il contratto, perché io ero ancora minorenne.
Stabilirono un calendario di riprese che mi avrebbe fatto saltare l'inizio della scuola e finalmente, su un pulmino carico di bagagli di sartoria e di gente che non sapevo chi fosse, nell'ottobre del '69, partimmo per la Maremma.
L'idea dei filmati sulla carta era semplice: due ragazze e due ragazzi, in sella al medesimo cavallo, scorazzavano per la campagna per ritrovarsi alla fine, in quello che chiamavano codino pubblicitario, in qualche luogo suggestivo a brindare con il Cinsoda della Cinzano, attorniati da una folla incomprensibilmente entusiasta.
Le due ragazze le avevano trovate in provini successivi a quello cui avevo partecipato io.
Una era d'una stordita e placida bellezza da odalisca e non ricordo come si chiamasse, l'altra si rivelò coraggiosa e aveva un bel modo di ridere. Si chiamava Liuba S. era di origine russa, approdata con la famiglia a Torino chissà come. Il quarto, quello che avrebbe condotto il cavallo, veniva da Roma. Era uno stuntman di Cinecittà. Si chiamava Maurizio Mannoia. 
Apparteneva ad una famiglia in cui più o meno tutti avevano a che fare con i cavalli, una sorella, che si sarebbe poi affermata come cantante, era stata controfigura di Loretta Goggi ne “La freccia nera”.
Ci sistemarono in un hotel relativamente isolato, tra Cecina e Donoratico, che si chiamava "Il Bambolo".
La prima sera cenammo in stato d'euforia. Io ero in preda ad una curiosità così eccitata che finiva col distrarmi.
Maurizio arrivò a notte inoltrata e così lo conoscemmo solo il mattino seguente.
Ci spostammo all'alba, in carovana, ai margini d'un bosco di pini marittimi che confinava con il litorale deserto.
Arrivò il van, guidato da un tale di nome Serafino che era il ritratto sputato di Obelix. 
Dalla cabina scese anche un tipo magro e autoritario, in abbigliamento da cavallerizzo. Si chiamava Giglio Gigli e mi sembrò di capire che fosse il responsabile equestre di tutta la faccenda.
Con grande precauzione scaricarono Lola, una fattrice lipizzana elegantissima e preziosa, la stessa che veniva usata per i Caroselli del Pino Silvestre Vidal. Con lei c'era la controfigura, un po’ più bassa al garrese, un po’ più dimessa nell'andatura, ma dallo stesso mantello niveo.
Decisero una prova prima del trucco.
Maurizio balzò in sella, poi dietro di lui issarono la prima ragazza che sfoggiava un sorriso disperato, quindi toccò a me e per ultima venne Liuba.
Eravamo fermi, pigiati gli uni contro gli altri, senza sapere dove tenere le mani e lo sguardo. Da terra la troupe ci osservava con perplessità. La Piera ci sorrideva incoraggiante e il regista disse - Avanti, vediamo.
Maurizio accennò un colpetto di sprone e Lola si avviò: diede una sgroppata, ad assestarci sopra di sé come qualcuno che si sistemi un cappotto pesante dopo averlo indossato. La ragazza davanti a me emise un grido soffocato.
Galoppammo per un dozzina di metri, ciascuno cercando di reggersi in sella indipendentemente dagli altri, sbilanciandoci a destra e sinistra come fagotti mentre Maurizio imprecava sottovoce, poi Lola incespicò sul tappeto di aghi di pino e si riprese con uno sforzo che la spinse a scartare. In un attimo fummo tutti e quattro stesi a terra mentre lei galoppava verso il van, scuotendo soddisfatta la criniera.
Maurizio fece una scenata. Si mise a litigare con il responsabile della produzione dicendo che lui li aveva avvertiti, che se gli avessero rimandato come l'anno precedente persone incapaci di reggersi in arcione avrebbe piantato tutto. E questo aveva intenzione di fare. Giglio cercava di ammansirlo. Il regista prese a confabulare con il direttore di produzione.
Nessuno rivolgeva lo sguardo verso me e le ragazze. Era una sensazione molto sgradevole.
Io non sapevo nulla di costi e tempi di produzione ma quell'ostracismo immediato, accanito, mi fece capire quanto non fosse legittimo non essere all'altezza della situazione quando si gira un film, anche - e soprattutto - se si tratta di un piccolo e insulso film pubblicitario.
Finalmente fecero cenno di avvicinarci al capannello dove così animatamente avevano discusso fino a quel momento.
Ci chiesero perché fossimo caduti.
Nessuno di noi ovviamente poteva rispondere e sul nostro silenzio Maurizio ribadì che era perché avevano scelto le solite faccette carine, senza tener conto che non sapevano andare a cavallo. Io trovai il coraggio di dire che quel discorso per me non valeva.
Dissi - Fatemi provare - e dopo un attimo di indecisione accettarono.
Galoppai in sella a Lola da solo. Era un piacere sentire sotto di me la potenza di quella fattrice che ci reggeva senza sforzo tutti e quattro.
Vidi un tronco abbattuto, di traverso nella radura, e la portai a superare l'ostacolo, poi tornai indietro e scivolai di sella, con tutta la noncuranza elegante che mi riuscì di trovare nonostante l'emozione.
Il regista disse - Lui però sa andare. Com'é la storia ?
Maurizio annuì con spocchia, imbronciandosi.
Fecero provare Liuba che se la cavicchiò più con caparbietà che con stile, poi toccò all'altra ragazza che scoppiò in lacrime, rifiutandosi di montare in arcione.
Macchinisti ed elettricisti fumacchiavano seduti su cumuli di pedanine o appoggiati a braccia conserte ai supporti dei riflessi, osservandoci con sufficienza sorniona.
La ragazza comunque era arrivata tramite non so quale agenzia importante, era carina e gentile. Non venne sostituita.
Maurizio si fece passare la stizza e studiò la situazione.
Elaborò un sistema e in capo a un paio di giorni ce la cavavamo al punto che lui, incoraggiato dai risultati, prese ad adottare nuove soluzioni. Per ognuna il regista si lasciava andare a manifestazioni di contenuto compiacimento. Tutto si rivelava divertente ed estenuante. Galoppammo sul bagnasciuga alzando schizzi di spuma al rallentatore e finendo in mare ogni volta che Lola incespicava nelle buche scavate dal riflusso dell'onda. Maurizio ci costrinse ad imparare a balzare in sella dietro di lui al volo, rallentando appena il galoppo al momento del nostro salto da terra.
A quell'epoca il ciclo consisteva in cinque differenti filmati televisivi in bianco e nero e di un filmato a colori per le sale cinematografiche, così ce ne restammo al Bambolo per un paio di settimane e forse più.
Galoppammo sull'asfalto lungo il viale dei cipressi di Bolgheri con Lola calzata di ferri d'alluminio, superammo fossati, ostacoli, addirittura una barriera di fieno incendiato.
Il regista, malgrado il perenne atteggiamento di distacco e una storia clandestina con la segretaria di edizione che gli complicava la vita familiare, si entusiasmava per le nostre prestazioni sempre più acrobatiche.
Nella pause Maurizio raccontava del suo lavoro, dei western, di quanto si potesse guadagnare con una caduta da una diligenza in corsa e Giglio G., Serafino, macchinisti ed elettricisti fungevano da coro con quell'ironia disincantata, molle per la cadenza romana e ruvida per le cose dette, che con qualsiasi altro accento sarebbero parse offensive e che il romano invece ammansiva, rendendole solo sapientemente beffarde.
In un giorno di pausa montammo una sella americana sulla controfigura e Maurizio mi insegnò a balzare di sella al galoppo, battere i piedi a terra aggrappato al pomo e tornare in arcione con un unico movimento grazie alla controspinta ricevuta dall'urto col terreno, che doveva essere leggero come un passo di danza.
Nonostante la stagione già avanzata i  tramonti erano ancora lenti, le notti nelle pinete intorno al Bambolo intrise di profumi selvatici e suoni di campagna inviolata.
Vennero scritturati gruppi di ragazze e ragazzi dei dintorni, come comparse per accoglierci all'arrivo in piazza, nel codino pubblicitario. Tra loro ce n'era una di Cecina che lavorava come commessa in un negozio di dischi e che mi piaceva, ma non ebbi il tempo di dirglielo. La lavorazione finì e lasciammo la Maremma sul solito pulmino, un mattino all'alba, con gli occhi gonfi di sonno e quella strana sensazione di malinconico e definitivo commiato che ancora non conoscevo e che, scoprii poi, contraddistingue ogni fine delle riprese di un film.
Dopo un anno mi richiamarono.
Questa volta avremmo girato sulla costiera amalfitana.
Il regista era lo stesso ma la troupe era cambiata, c'era sempre Maurizio, c'era Liuba ma al posto della ragazza carina e tranquilla che non sapeva andare a cavallo c'era Lia Dezman una bellezza da copertina d'allora, bistrata, un po’ scostante anche se più agile dell'altra nel cavalcare.
Questa volta l'esperienza fu ripetitiva, galoppammo sul bagnasciuga sollevando i soliti schizzi di spuma al rallentatore, fummo come al solito circondati da una folla di ragazzi entusiasti nel codino, sulla piazzetta di Positano, e poco altro.
C'era una bambina che si chiamava Giuliana Cosenza che veniva ogni giorno a vederci girare. La sua famiglia gestiva una pensione nella parte alta del paese. Quando ce ne andammo io e lei eravamo diventati amici, così ci scambiammo gli indirizzi e lei mi mandò cartoline per anni. La sua calligrafia cambiava: quella della bambina si contorceva cercando il tratto della scrittura adulta e di anno in anno io assistevo a questa crescita a distanza vedendo cambiare la scritta “ Saluti Giuliana”. Poi non ricevetti più nulla e neppure io scrissi più.
In quel novembre del '70, al ritorno da Positano, seppi che Graziano era scomparso.
Si diceva fosse fuggito in Sud Africa per sottrarsi alle indagini sull'omicidio di Martine Beauregard. Pareva che fosse a conoscenza di informazioni che gli inquirenti ignoravano. Non ho mai saputo se quelle voci rispondessero a verità, ho rivisto lui dopo molti anni e naturalmente non gli ho chiesto nulla in proposito.
Non abbiamo parlato dei tempi dei Caroselli del Cinsoda né della gente di Platti che lui, ai tempi, aveva un po’ stregato. Mi sono lasciato raccontare della sua attività in Svizzera, che ha illustrato con opportuna vaghezza, decantando soprattutto l'insuperabilità delle vetture giapponesi, le migliori delle quali - come la sua - da noi non vengono importate per via del contingentamento.
Dopo gli anni quella sua verbosa universale competenza mi é apparsa un poco millantata, ma mi ha fatto piacere rivederlo, e vedere che se l'é cavata bene. Mentre ascoltavo quelle che sospettavo fossero fandonie tratteggiate di verità pensavo tra me e me: tu comunque devi essere grato a quest'uomo.
Per la campagna del Cinsoda si realizzavano anche fotografie per i manifesti murali, e fu in occasione di una di queste trasferte a Roma che l'esperienza si concluse.
Il ventisette febbraio del '71 io e Liuba scendemmo  in aereo senza nessuno della produzione ad accompagnarci.
A Roma trovammo Maurizio e una ragazza, l'ennesima sostituta, che aveva un nome d'arte - Simone Blondel - e faceva l'attrice nei western- spaghetti.
C'era un'atmosfera vagamente cospiratoria. 
Maurizio era teso. 
Finimmo in un maneggio enorme, alla periferia della città, dove vidi decine di stuntmen allenarsi per le scene dei western.
Salimmo su un cavallo nervosissimo, che non era Lola e che Maurizio faticava a controllare. Lo sostituirono con un altro. 
Persone che non avevo mai visto e non sapevo chi fossero discutevano appartate, mentre io Liuba e Simone Blondel sedevamo sulle staccionate con i nostri costumi rossi di scena, a goderci quel fiacco sole invernale che inteporiva senza rallegrare.
Finalmente ci spostammo su una collinetta, ci sistemammo in groppa a non so quale cavallo e furono scattate le fotografie mentre noi, con il braccio teso verso la macchina, impugnavamo il solito bicchiere di Cinsoda con il solito pizzico di detersivo perché la schiumetta di superficie non svanisse.
Quel manifesto murale poi non l'ho mai visto in circolazione. 
Probabilmente subentrarono delle complicazioni, sta di fatto che il ciclo dei quattro vestiti di rosso sul cavallo bianco era concluso, anche se nessuno di noi quel giorno poteva immaginarlo. Da quel momento non seppi più nulla di nessuno di loro.

















Pit, terzo tra le due ragazze




...e questo è uno dei manifesti che
si vedevano sui muri di città...




A distanza di vent'anni mia madre mi ha poi candidamente confessato che in realtà, da Roma, Maurizio mi cercò.
La sua proposta era quella di introdurmi nell'ambiente dei film western all'italiana, che a quell'epoca si giravano in numero impressionante, per lo più in Spagna, dalle parti di Almeria.
Lei aveva perentoriamente risposto che io dovevo finire il liceo, che poi mi aspettava l'Università, che quindi non se ne faceva nulla. E credo sia stata anche piuttosto brusca, definitiva, per garantirsi che Maurizio, o chi per lui, non richiamasse, onde evitare il rischio di mancare l'intercettazione di un'altra telefonata.
Così io, ignaro di un'occasione che allora non avrei avuto neppure la fantasia di sognare e che invece mi era stata offerta e rifiutata a mio nome senza che io sapessi nulla, proseguii il percorso poco immaginoso che i miei avevano tracciato per me.
Si andava comunque ancora a cavallo, e abbastanza spesso.
A Luca R. erano rimasti due criolli argentini della scuderia della squadra di polo di suo padre. Girovagavano indolenti su un paddock, annoiandosi in compagnia di un paio di pony pezzati.
Cavalcavamo galoppando sugli interminabili percorsi della tenuta della sua famiglia. Io gli insegnavo i trucchi appresi da Maurizio e lui mi faceva vedere come si carica un avversario  in una partita di polo.














A volte, per dare spettacolo agli amici e alle ragazze, in quei pomeriggi domenicali di primavera organizzavamo dei piccoli rodei, cavalcando i pony selvatici, che sgroppavano furibondi, scaraventandoci a terra e scalciando come forsennati.









Con altri amici facemmo dei viaggi in Camargue, in occasione del raduno degli zingari, e un pomeriggio che il vento portava nell'aria burrascosa gocce di pioggia randagia avanzammo schierati sulla sabbia compatta di quelle spiagge larghissime.
Ci lanciammo con il tuono ovattato del calpestìo degli zoccoli nelle orecchie e l'enfasi eccitata della carica nelle urla che emettevamo, galoppando ventre a terra contro il vento. Era una sensazione inebriante, fatale.
Quando ci fermammo - ansanti noi e i cavalli, scambiandoci sguardi di selvaggio stupore - capii cosa dovessero provare gli uomini di quegli squadroni di cavalleria lanciati alla carica contro il nemico, e capii soprattutto perché fossero così impavidi. Avevo letto da qualche parte che i Royal Scots Greys, a Waterloo, avevano caricato dopo aver tolto i morsi alle loro cavalcature, e a ripensarci in quel momento mi correvano brividi lungo la schiena.











Nell'estate del settantuno, durante una vacanza in Spagna, mi capitò di uscire per una passeggiata a cavallo in compagnia di due sorelle. Stavo con una di loro e desideravo avere anche l'altra.
Cavalcammo su dei ronzini macilenti, avanzando quasi sempre al passo, sotto il sole ancora accanito del tardo pomeriggio, storditi da un invasivo frinir di cicale, andando per sentieri sassosi, letti di torrenti asciutti, in vista di lontananze tremule di calura, indecifrabili.
Avevamo deciso quell'uscita all'improvviso, lasciando la spiaggia e raggiungendo il maneggio senza cambiarci. Montammo scalzi, in costume da bagno.















Per un tratto lasciai che Evelyne e Isabelle mi precedessero, osservando le loro schiene abbronzate, i sederi ancheggianti con delicatezza sul passo sonnambulo dei ronzini.
Quel sole, quell'aridità intorno, quel canto accanito d'insetti e quelle parziali nudità opache che si muovevano in sella davanti a me, si coniugarono inspiegabilmente in un ricordo indelebile, fotografico.
Il grigio di Evelyne ad un certo momento perse un ferro. Smontammo e ci accostammo al garretto posteriore dell'animale per vedere se ci fosse rimedio. Stringevamo la briglia delle nostre cavalcature e stavamo affiancati nell'ombra esigua del corpo del ronzino scalzato, che teneva lo zoccolo sollevato in una postura di cauto riposo.
Nel muoverci i nostri corpi si sfioravano.
Mi chinai a sollevare la zampa del grigio e i capelli di Evelyne mi lambirono il collo.
C'era quell'odore di arsura, di piante assetate, quell'odore salato di sudore di cavallo e il profumo fruttato dell'alito di Isabelle, l'afrore leggero che esalava dai morbidi riccioli delle ascelle sue e della sorella, da cui stillavano lucide gocce che tracciavano linee brevi sui loro fianchi scuriti dal sole.
Tornammo indietro al passo. Io cedetti il mio cavallo a Evelyne e guidai il ritorno a piedi, tenendo alla briglia il grigio claudicante.
Ero come ubriaco, e commosso ed eccitato nello stesso tempo; esausto come se quell'eccitazione fosse già stata, in qualche modo, placata.








Isabelle, la bruna e Evelyne la bionda
Al "Miami", un bar di ritrovo vicino alla
spiaggia, a Benidorm.









"...abbiamo fatto altre passeggiate a cavallo con le
due sorelle..."






Fu l'anno dopo, mi pare, che mia madre accettò di comprarmi un puledro di un anno, che battezzai Shuka Wakan.
Riapparve al mio orizzonte il maresciallo dei tempi di Valesa. Il puledro lo comprammo da lui.
In quella manciata d'anni trascorsi non era cambiato, sempre energico, dotato dell'autoritarismo essenziale ed incongruente dei militari.
Si era installato in un'area chiamata Torbiera, una depressione piuttosto vasta, incassata tra il versante sul quale si affacciava a nord l'abitato di Alice e, dalla parte opposta, un rilievo circondato da vegetazione inselvatichita, dove languivano una vecchia villa abbandonata e una serie di bassi edifici che un tempo dovevano essere stati adibiti alla lavorazione della torba, anch'essi abbandonati.
In uno di questi si era sistemato il maresciallo.
C'erano stalle e cortili di ammattonato, rimesse, porticati, tutto in condizioni fatiscenti, ma lui, con efficienza ammirevole, aveva trasformato il suo quartiere in un esempio di linda e spartana essenzialità.
Viveva lì solo, pagando chissà a chi un affitto sicuramente esiguo, in compagnia di un cane e quattro o cinque cavalli.
Shunka Wakan andava domato e per farlo occorreva attendere ancora un po’ di tempo, così montavo la madre e lui ci seguiva abituandosi a me, seppure con diffidenza.
Mi piaceva andare per la Torbiera, una sequenza di acquitrini superficiali, canneti, terreno morbido, erba corta e stenta che cresceva su quei sedimenti millenari, e poi boschetti di acacie, solitari tronchi scheletrici di alberi morti, sentieri che si inerpicavano per macchie di castani, brevi distese piatte che nelle prime ore del giorno o in quelle tarde dell'imbrunire d'autunno fumigavano di nebbie raso terra, ingannatrici e fascinose.















A volte lasciavo la Torbiera, e per raggiungere le falde di Bossola dovevo seguire per un tratto la strada carrozzabile. Il suono degli zoccoli sull'asfalto me ne riportava uno dell' infanzia, quello che annunciava l'arrivo dei fratelli Bonello, carrettieri.
Trasportavano tronchi che allora mi parevano - e forse erano - enormi, caricati su carri a pianale basso, cigolanti su ruote di legno e trainati da giganteschi cavalli bardati per il tiro, di cui mi incuriosivano in modo particolare i paraocchi.
Quei tronchi, di cui ho sempre ignorato la destinazione finale, venivano depositati temporaneamente in quello che poi divenne - dopo anni e per anni - il campo di foot- ball. 
Alle porte del paese, di fronte al cimitero.
Arrivavano in carovana. 
I fratelli Bonello avanzavano austeri, appiedati di fianco ai loro cavalloni mansueti, impugnando la lunga frusta superflua.
S'era sempre d'estate, sotto quel sole materno dei ricordi d'infanzia, in quel profumo di fieno che oggi ci pare non sia più quello d'allora.
Arrivavano i carri annunciati dal picchiare degli zoccoli sull'asfalto e dal cigolio affaticato degli assali e delle ruote cerchiate di ferro.
A sedere su quei tronchi si andava poi un po’ tutti. Era un punto di ritrovo. Si diceva proprio " Andiamo ai tronchi".
C'eravamo noi bambini a giocare arrampicandoci su quei formidabili fortilizi, poi ragazze in crocchio con corpetti scollati a barchetta, gonne ampie, sandali col tacco e capelli cotonati a spiare i ragazzi villeggianti, che le corteggiavano con tanta maldestrìa. E c'erano anche adulti, arrampicati lassù a sedere sulla ruvidezza delle cortecce.
Lo zoccolare sonoro e regolare dei ferri sull'asfalto riportava anche un altro passo, quello del trotto leggero, fitto, della cavallina di Gasprìn, un mercante di bestiame compaesano del mio nonno paterno, che nei giorni di fiera si presentava sulla sua doma, con i baffoni arruffati, gli occhietti piccini, un fazzoletto rosso al collo, un cappello di feltro a tesa larga e un panciotto di panno pieno di taschini.
Per me era quasi un cow boy.
Al momento di andarsene, dopo aver trattato i suoi affari, osservava un rituale che doveva aver convenuto con mio nonno: mi invitava a salire accanto a lui sul calesse e mi portava per un breve tratto, fino all'altezza del cimitero, schioccando la frusta nell'aria e incitando la cavallina, convinto di farmi felice.
Quando veniva il momento di scendere lui, con un gesto della mano al cappello, si raccomandava che portassi i suoi saluti a casa. Io rispondevo di sì intimidito e tornavo in piazza a piedi, ancora curioso dei sobbalzi della doma, di quelle lunghe briglie consunte, dello strapuntino logoro e odoroso sul quale sedevo accanto a lui che mi pareva così imponente.
Il suono degli zoccoli sull'asfalto riportava spesso frammenti di quei giorni d'estate.
Accadde poi, per una ragione che non ricordo - forse solo per un distacco dovuto alla distanza, anche se breve, e ad interessi nuovi e ammalianti che nell'adolescenza portano via senza rimpianto - che dimenticai la Torbiera.
Shunka Wakan fu venduto. Sopravvennero nuove estati in luoghi diversi, e autunni e inverni e primavere di città per me che cambiavo, e pagavo il mio pedaggio alla turbolenta insulsaggine dei vent'anni.
Da allora la Torbiera é stata bonificata e su quel terreno preistorico hanno costruito un'infinità di casette a schiera, villini prefabbricati, una pista di pattinaggio e un camping. La villa sul poggio ha ceduto tutto il fascino misterioso della sua decadenza al restauro frettoloso ed approssimativo che l'ha trasformata in una pizzeria. Nei bassi fabbricati non so chi ci sia, ma il maresciallo se n'é andato a vivere in una roulotte parcheggiata in un cortile che si affaccia sulla curva che da Alice porta verso l'alta valle.
Ovviamente tutta questa lunga storia ha un epilogo, ed é stata lunga anche perché, forse, ho voluto posticiparlo, dal momento che non é stato un epilogo felice.
Nel 1980, in assenza di alternative, mi ero stabilito a Rueglio. Per ragioni che forse spiegherò in un'altra occasione me ne stavo nascosto senza lavoro, senza amore, senza denaro, circondato da pochi amici nelle mie stesse meschine condizioni, in vista del fatale giro di boa dei trent'anni, in casa dei miei, a lasciar trascorrere le giornate senza la forza di dar loro un senso.
Eccezionalmente si presentavano occasioni di sfuggire a quella monotonia comatosa, ed erano sempre occasioni dissennate. Una di queste mi spinse a Torino e mi dovetti far accompagnare da mia madre, dal momento che oltre a non avere più una casa non possedevo più neppure un'auto.
L'occasione era quella di incontrare un tale, un architetto esperto in computer, con il quale avevo girato anni prima una specie di documentario in super otto e che era incuriosito da un mio progetto d'invenzione di un gioco da tavolo a tema erotico.
Quel mattino eravamo in ritardo. Io fremevo, irritato e in preda all'equivoco perenne e disperato che mi animava a quel tempo, che mi faceva pensare a quell'incontro come ad un'occasione cruciale della mia esistenza.
Nell'infilarsi il via San Quintino dal corso Re Umberto mia madre andò a scontrarsi con il furgone guidato da un macellaio. Con pieno torto. Io l'abbandonai frettolosamente per raggiungere, a piedi e di corsa, lo studio dell'architetto per quell'appuntamento che si rivelò poi di un'inutilità esemplare, mortificante.
Mia madre nel frattempo era stata aggiogata al rapinoso vortice degli autosoccorsi, che finì per costarci una riparazione approssimativa in una carrozzeria gestita da ex detenuti, che provvidero alla sostituzione fraudolenta della ruota di scorta, ad una riverniciatura che degenerò in bolle rugginose poco tempo dopo la riparazione e a qualche intervento meccanico occulto per cui quell'auto, da allora, non fu più la stessa. Ma quell'incidente ci costò soprattutto la spesa imprevista dell'acquisto di due cavalli.
Il macellaio infatti, esperto conoscitore di sistemi truffaldini ai danni delle società assicuratrici, ci aveva trascinati in una manovra complessa, accollandosi il torto previo versamento di una cifra consistente e stabilita da lui, quest'operazione aveva reso necessario un incontro a San R. C. dove aveva negozio nonché un terreno, su cui teneva dei cavalli e una rudimentale rimessa di legno grezzo.
Era un tipo che suggeriva in ogni sua espressione una certa predisposizione alla brutalità.
Io e mia madre accettammo i termini del complotto, che poi ci costò inchieste ufficiose della società assicuratrice penalizzata, convocazioni intimidatorie del liquidatore ed altri strascichi imbarazzanti. Prima però, non ricordo come, saltò fuori l'argomento cavalli, l'invito mellifluo del macellaio a concludere un affare vantaggioso. In breve, finimmo qualche giorno dopo in un macello clandestino, perduto nella campagna intorno a San Mauro.
Entrammo al seguito del macellaio circondati da un'atmosfera losca ai limiti del grottesco. Io scelsi due cavalli spiandoli da una finestrella che guardava in una lunga stalla animata da nitriti rassegnati, poi un inserviente abbrutito portò all'esterno i due animali, un sauro e un maculato dal mantello simile a quello di un appaloosa.
Li pesarono, mia madre firmò un assegno senza intestarlo e ce ne andammo.
Il tutto era avvenuto sotto il controllo sprezzante del macellaio, che prima di venir via parlamentò in disparte con un tale vestito come un capomafia da telefilm.
I due cavalli erano malati. Raffreddati, come diceva il macellaio, ed in effetti versavano muco abbondante dalle froge.
Lui disse che non avrebbe avuto difficoltà a guarirli e li tenne a pensione per un mese, in quel suo campo a San R. C., facendoci poi pagare un prezzo esorbitante ma restituendoceli, in effetti, in discrete condizioni.
A quel tempo Nicolino teneva già a Rueglio dei trotter, nella sua enorme casa non ancora finita di regione Volpiano. Aveva costruito una lunga infilata di box ed in uno di quelli mi lasciò sistemare i miei cavalli.
Avevo dato nome Lagrimas al sauro e Generale Lee al maculato. Mai due nomi si attagliarono tanto a due animali. Lagrimas non fu mai possibile domarlo perché non appena gli si posava addosso la sella si lasciava cadere a terra, tremando e fremendo con gli occhi sbarrati di terrore.
Non piangeva ma era come se lo facesse.







Pit e Lagrimas


Generale Lee invece era generoso e impavido ma a modo suo perdente, incapace di muoversi senza incertezze se privato della compagnia di Lagrimas.









Pit e Generale Lee





L'inverno del 1980 fu lungo e arido. 
Non cadde né pioggia né neve e il sole incombeva vigoroso ogni giorno sulle montagne e sui prati, ingiallendoli come una steppa mongolica e accompagnandosi ad un freddo austero, che sagomava le gelate notturne sulle spianate insellate di Bossola e Spinalba in figure sfavillanti di ghiaccio, appoggiate sull'erba color grano.
Io giravo quei posti a cavallo e sognavo d'andarmene.
Ogni tanto incontravo Pierangelo, che era stato messo in cassa integrazione dall'Olivetti e trascinava una sua disperazione, diversa dalla mia nelle manifestazioni di debolezza ma uguale nella costrizione a sentirsi intrappolati, a smaniare ogni tanto, inutilmente, per liberarsi dal calappio della nostra paura.
Un giorno che tentai di domare Lagrimas lui venne e scattò delle fotografie. Poi ne fece altre mentre parlavo con i cavalli e mentre galoppavo in sella a Generale Lee.














Ma i cavalli non bastavano più, ed impraticabile si rivelò il progetto di farne un lavoro, di organizzare nella mia cascina di Biaulì una specie di centro d'agriturismo equestre, una cosa che doveva nascere alla buona e poi crescere e diventare importante, ma che abortì fin dalla mia incertezza nell'immaginarla.
Dove trovai la forza di scappare non so.
Tramite Nicolino Lagrimas e Generale Lee furono venduti e mentre ero assente lui, con i proventi, acquistò per me una vecchia fattrice, una trotter che rispondeva al nome singolare di Fallanza. 
La cavalla aveva fatto segnare tempi eccellenti sul giro di pista, ma su quello contrario, sicché quel suo istinto vincente di correre in senso orario la faceva ricca di un pregio inutile, salvo che negli ippodromi non ricordo se svedesi o norvegesi, dove appunto si corre in quel senso.
Tornai a Rueglio dopo un paio di mesi di fuga e un coraggio tutto nuovo. Solo per cambiare il bagaglio e ripartire. 
Tra le altre cose vidi questa Fallanza, che era stata un affare perché acquistata gravida, coperta da non so quale campione. Nicolino pareva soddisfatto.







  



Non le riservai che un'attenzione frettolosa. Era un baio affilato, con quel passo sussiegoso dei trottatori, che non ho mai amato. Sul corpo magro il rilievo della gravidanza sembrava una malattia.
Partii per Parma, proseguii per Roma. Si riaffacciarono alla mia vita le occasioni e le afferrai, commosso per quella rinnovata anche se esigente generosità. Era il giugno del 1981.
Nell'autunno seppi che Fallanza aveva partorito un mostriciattolo asessuato, che era morto pochi giorni dopo esser venuto alla luce.
Da allora non sono più salito a cavallo.
Non mi manca, mi par quasi di non averlo mai fatto.
Ogni tanto, dopo tutti questi anni, c'é ancora qualcuno che incontrandomi per caso chiede - E i cavalli ? - e io alzo le spalle e neppure rispondo.












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