sabato 15 gennaio 2011

WHITTLING - AI GIARDINI



Molti anni fa avevo scritto un romanzetto giovanile "La luna in tasca" che poi ho cestinato, conservando solo la prima e l'ultima pagina.
Era veramente brutto però me lo aveva battuto a macchina Margherita Savoini, tra l'altro con una mano sola perchè si era distrutta un braccio in un incidente d'auto, e allora quelle due paginette conservate sono un omaggio a lei, al suo lavoro titanico, che partiva dal decifrare la mia calligrafia e poi pestare su una lettera 32.
Margherita faceva di queste cose pazzesche di dedizione, credo che sia proprio nel suo carattere, ad esempio mi aveva regalato un manifesto disegnato da lei sul quale con minuziosità e versatilità grafica aveva tracciato tutti i nomi delle tribù indiane, e in più una dedica sullo sfondo di un tondo a stelle e strisce, solo che lo ha fatto con dei pennarelli e così, anche se lo avevo fatto incorniciare sotto vetro, sta svanendo, del resto svaniamo anche noi, no ?







...un dettaglio...


...e questa è la dedica "L'ultimo grande guerriero dopo
Cavallo Pazzo, il vincitore di Little Big Horn, è 
Pit Formento della tribù degli occhi blu", e in effetti,
pur con le attenuanti dell'infatuazione giovanile,
devo ammettere che è un po'forte, in ogni caso
è un dato in più...



...Margherita, com'era allora....



Il racconto risulta essere stato scritto tra il gennaio ed il marzo del 1996.










AI GIARDINI



  
Via Paolini é un arco breve che congiunge Corso Vittorio Emanuele a piazza Adriano. E' probabilmente l'unica via curva in una città famosa per la lineare geometria diagrammata della sua pianta.
Si percorreva in bicicletta in una manciata di secondi, era poco trafficata, tranquilla e familiare, come un piccolo paese con una vita a sé, e con quel nome un pò da fumetto che gli si attagliava alla perfezione.
Curva e corta, con i condomìni adattati architettonicamente, convessi gli uni e concavi gli altri, con caratteri quasi umani d'estroversione o riservatezza. Così almeno pareva a me.
L'affaccio su Corso Vittorio Emanuele, per noi ragazzini, era un confine sul nulla, inutile da varcare, mentre quello su Piazza Adriano era il delta che sfociava sulla parte di giardini che costituiva il nostro territorio.
Per un certo periodo della mia vita quei giardini furono l'unico spazio che davvero amassi ed i ragazzi che ci si ritrovavano, i miei amici.
C'era attorno alla piazza, dalla parte di via Paolini, quel sereno affaccio di paese. Tutti quelli che abitavano lì si conoscevano, i ragazzi più grandi sedevano sulle spalliere delle panchine con spavalda noncuranza e adocchiavano famelici i passaggi delle ragazze. Noi marmocchi gironzolavamo attorno a quella panchine dissimulando l'ardore della nostra curiosità per i loro discorsi così enigmatici, così gravidi di riferimenti a misteri sul sesso e altre avventure.
C'era il figlio della titolare della tintoria con il viso butterato dall'acne giovanile e un modo di fare spavaldo che si mormorava avesse rapporti con donne dell'età di sua madre. Poi c'era quell'altro - il bello - che spuntava ogni tanto con una camminata felina, lenta, da duellante guardingo. E che finì con lo sposare una ragazza che abitava al pianterreno della scala C del mio caseggiato: una tipetta che dal mio punto di vista era la quint'essenza del fascino erotico e, da quello del resto degli inquilini, una puttanella che si era fatta mettere incinta, ma non da lui.
Queste voci, questi accenni carpiti a frammenti di fronte alla portineria, non facevano che aumentare la confusa passionalità che le riservavo nell'immaginarla voluttosa e un poco crudele nel soddisfacimento delle sue urgenze carnali.
Ogni tanto mi ci masturbavo, sull'idea di lei, ma dal momento che un riferimento ottico si rivelava sempre più vantaggioso ricorrevo molto più spesso al volume "L'Arte nel Rinascimento"








 conturbato dal “Ritratto di donna” di Jacopo Palma il vecchio







 e dalla “Venere di Urbino” del Tiziano.










All'inizio dell'estate si aggiungeva la signora Ruspa che prendeva il sole in due pezzi sul balcone, esposta ai miei sguardi aguzzati tra le feritoie della saracinesca semiabbassata ad arte.
Ma se sulle riproduzioni delle tele di Jacopo Palma e del Vecellio l'operazione si sviluppava secondo una progressione senza intralci, restando ambedue le mie favorite immobili, l'una con sguardo pacatamente laterale e seni sgusciati fuori dal camiciotto slacciato, l'altra in sdraiata nudità totale, con quella mano a toccarsi proprio là, guardandomi come se nulla fosse, con la signora Ruspa era tutt'un'altra faccenda.
Intanto non si poteva approfittare di lei che a giugno, perché poi se ne andava al mare per non tornare che a settembre inoltrato, e poi c'era la questione della sua irrequietezza, coniugata all'attesa di eventi eccezionali che quasi mai si verificavano.
Una volta sola, infatti, mi era riuscito di arrivare al dunque proprio nel momento in cui lei si era data ad rassettarsi a piene mani le grosse mammelle appassite sollevandole verso di me come in un'offerta. Da allora non facevo che attendere occasioni del genere, certi movimenti d'assestamento, come il culo imponente che mi si offriva quando lei si rigirava a pancia sotto e che rivelava una pelosissima fessura nello slabbro delle mutande, ma il più delle volte finivo col venire dopo estenuanti rinvii  mancando quell'attimo in cui si offriva a figura intera prima di sparire in cucina, lasciando al mio sguardo di concupiscenza la sdraio abbandonata.
La signora Ruspa era la mamma di un ragazzo grasso e un po’ tardo con il quale giocavo ogni tanto ai trenini ma che usciva poco di casa. Sempre fervido d'ottusa intraprendenza attorno al suo plastico, indifferente ai rimproveri che sua madre gli rivolgeva con una strana voce negroide, ai giardini di piazza Adriano lui non veniva mai.
Per me invece, con la chiusura della scuola e la liberatoria sensualità del giugno, in sella alla mia Frejus gialla metallizzata con tromba alimentata a batteria su manubrio da turismo e cartolina fissata con due mollette alla forcella posteriore perché, scartabellando contro i raggi, simulasse fragore motoristico, la destinazione quotidiana erano i giardini. Versante destro del Corso con le spalle al Po.
Sento ancora nelle gambe la conquista dei viali sotto le pedalate lunghe dei rapporti alti e rivedo le alzate di terriccio delle frenate in derapata accanto alla panchina dell'appuntamento.
Con Giancarlo Zoia e Roby Faggino, gli amici.
E' vero che anche gli altri lo erano, tutti quelli con cui si disputavano partite di pallone, gare ciclistiche, giochi di guerra, ma di tutti ho dimenticato i nomi ed i visi, mentre di Roby e Giancarlo conservo vaghezze più definite.
Zoia era un ragazzino dalla statura di bambino, una vocetta stridula e imperiosa, bellicosissimo, con una testa a triangolo rovesciato, occhi vivacissimi, andatura marziale e una singolare predisposizione all'isteria nelle dispute che erano all'ordine del giorno ai giardini.
Abitava ad un pianterreno sull'angolo della piazza con il corso Vittorio Emanuele insieme ad un fratello, alla madre e al padre che mi pare facesse il sarto.
Roby Faggino apparteneva ad una famiglia agiata, la casa dove abitava si affacciava anch'essa sulla piazza ma da un piano alto del condominio più prestigioso.
Portava sul viso un perenne disegno di meditato stupore. Molto meno reattivo di Giancarlo Zoia, solo ogni tanto si lasciava andare alle eccitazioni del gioco o del confronto e in questi casi, invariabilmente, tradiva la sua incontrollabilità mordendosi disperatamente il medio della mano destra, che aveva calloso e d'un colore macerato proprio per via di quei morsi.
Si giocava a macchinine nella polvere di terra lungo i bordi delle aiuole.
Io e Roby scieglievamo di volta in volta le auto dal nostro cospicuo parco macchine e Giancarlo, pur se con meno risorse, si ingegnava con un vero talento nel campo del baratto e dell'intimidazione, procurandosi automobiline a sufficienza per la varietà modulare dei nostri giochi.
In cambio di un paio di Chevrolet Impala della Corgi Toys, una modello auto della polizia e l'altra modello taxi un giorno era riuscito a rifilarmi una vecchia bicicletta da donna, un catenaccio cigolante che aveva recuperato chissà dove, e quel che più conta é che era riuscito a concludere il baratto con l'atteggiamento dubbioso di chi ci sta rimettendo, lasciando a me l'entusiasmo insensato per l'affare concluso.
Si giocava a pallone su un fazzoletto di prato sempre scalpato del suo manto erboso dai nostri andirivieni forsennati al grido di " Passa! Passa !"
Pareva infatti che la costante per ogni partita fosse, in ambedue le squadre, questa ostinazione di ogni singolo giocatore di non passare mai la palla.
Le porte non erano quasi mai esattamente simmetriche ed il fatto che fossero contrassegnate solo da cumuli di capi d'abbigliamento dava regolarmente adito a discussioni schiamazzate sulla questione se la palla fosse passata sopra o sotto la traversa inesistente ma che ognuno di noi pareva vedere chiaramente, e onestamente forse, quando gridava "Gol!" oppure "Alta!"
Si giocava a indiani e cow- boys con le varianti dettate dalle più recenti visioni cinematografiche di ciascuno di noi, si disputavano gare di volata ciclistica a perdifiato, gincane e staffette, con i visi paonazzi e i capelli incollati al cranio dal sudore.
Ci si abbeverava al toretto verniciato di smalto verde, piegati in avanti, a gambe larghe, una mano appoggiata alle corna della testa di toro e la bocca aperta di sbieco sotto il getto d'acqua rigenerante.
Ci si ingozzava anche di gelati, Lemarancio, Fiordifragola e stik a tutto spiano. E si parlava per ore di chissà che, sulle panchine sotto i platani o sdraiati ai piedi degli abeti, alla fine delle partite, senza fiato e felici come eroi.
Quella foga di gioco che ci distraeva dal mondo poi, come per tutti, si attenuò, scivolando ignara verso gli affanni degli adulti. Prendemmo allora a bighellonare sempre più attorno alle panchine dei più grandi, per carpire accenni di quella vita da adulti su cui poi elaboravamo fantasie sconclusionate.
Giancarlo riteneva che le ragazze ci stessero solo se le afferravi in un certo modo, e ci faceva vedere come, Roby era incline ad evitare l'argomento ed io mi lasciavo tormentare dalla timidezza.
Ci incuriosivamo di quella signorina che viaggiava su una Ford Consul Capri, una di quelle auto eccentriche di allora, con il lunotto posteriore inclinato in dentro a formare una specie di abbaino, come la più diffusa e orrenda Anglia Torino.








                                    ...la Ford Consul Capri...





    ...e l'Anglia Torino...





Questa signorina era bella, molto elegante, ma con un perpetuo e un po’ vano sorriso sulle labbra, lo stesso del bambino che era sempre con lei e che ufficialmente era ritenuto suo fratello, anche se si vociferava fosse in realtà suo figlio, nato da una relazione illegittima.
Con loro, sulla Ford che avanzava sempre a lentezza estenuante con un sussurro impercettibile del motore, viaggiava il padre, un anziano dall'aspetto aristocratico. Ci parevano misteriosi, ci dicevamo che forse erano stranieri, spie.
Poi arrivava quello che credo si chiamasse Cristiano Del Forno a bordo della sua Flaminia coupé Touring. Uno dei primi esemplari di play-boy  che mi sia capitato di vedere in vita mia.
Per noi era uno spettacolo emozionante.
Lui era un bel giovanotto piuttosto artificioso che abitava con la madre nello stesso palazzo di Roby Faggino. Abbronzato ed elegante, sempre un poco frettoloso nel posteggiare ed avviarsi all'ingresso di casa, non si curava di nulla di ciò che gli stava attorno, tantomeno di noi, appollaiati sullo schienale della panchina a scrutarlo.
Di fronte a quella panchina un giorno trovammo posteggiata un'Harley-Davidson abbandonata, senza targa, sicuramente rubata. Un oggetto meraviglioso, con la leva delle marce sul fianco del serbatoio, il sellone molleggiato, bianca e azzurra, devastata da un vandalismo insulso: il faro spaccato, il serbatoio riempito di sabbia e sassi, i parafanghi ammaccati dai calci.
Restò per qualche giorno e poi misteriosamente scomparve, così com'era apparsa.
In quei pochi giorni il gioco poliziesco motociclistico non ebbe tregua. A turno si stava aggrappati alle corna del manubrio ballonzolando sulla sella e rombando a furor di labbra.
Ci si viaggiava in tre, e piuttosto comodamente.
Giancarlo tirava il motore allo spasimo spingendo la sua vocetta ad acuti da fuori giri, prima di cambiar marcia, paonazzo e sfiatato. Io sparavo agli inseguitori seduto per ultimo, sulla parte più larga ed accogliente della sella e Roby, tra noi, con in medio saldamente ancorato tra i denti, stava silenziosamente in preda ad un'eccitazione allarmata, come se davvero fossimo in fuga su qualche strada americana e non definitivamente immobili, in avaria senza rimedio accanto al marciapiede dei giardini.
In sella a quell'Harley, in una pausa tra un inseguimento e l'altro, vedemmo un giorno venire verso di noi, dalla parte dell'edicola, Alessandro Pap e sua sorella ed io mi innamorai all'istante di tutti e due.
Camminavano affiancati, ridendo sommessamente tra loro, lei un poco più grande, lui all'incirca della mia età. Biondi, lui con un taglio a spazzola lei con una treccia slava, ambedue con occhi celesti, luminosi d'astuzia pacata, e con uno strano accento nel parlare.
Credo fossero istriani, in città di passaggio, in attesa di migrazioni invidiabili, prima Roma poi, forse, gli Stati Uniti.
Ci frequentammo per poco tempo, ma sufficiente per me a stringere un'amicizia virulenta, esclusiva, con Alessandro e un patto d'amore con la sorella di cui ho dimenticato il nome, patto di cui, ovviamente, io solo ero a conoscenza.
Desideravo appartenere loro, essere il terzo in aggiunta a quella coppia in cui l'affiatamento si esprimeva in sincronie telepatiche.
Alessandro era molto maturo per la sua età, e quindi contraddistinto da un distacco emotivo che mi addolorava. Giocò con noi per un periodo breve, senza fare in tempo né avere intenzione di appropriarsi delle nostre parole d'ordine, delle nostre regolette inderogabili, e rifiutandosi di rispettarle con elegante noncuranza, scatenando la collera vociante di Giancarlo, la titubante meraviglia di Roby e la mia incondizionata ammirazione.
Sua sorella non ricompariva che occasionalmente, regalandoci sorrisi distratti ed irraggiungibili frettolosità. I ragazzi più grandi, dalla panchina, le dedicavano valutazioni guardinghe, Alessandro pareva non accorgersene.
Un giorno non vennero più e la loro assenza, malgrado la mia accanita speranza, fu definitiva.
Venne invece l'autunno e con la ripresa della scuola la stagione ai giardini, almeno per me, come per tacita regola familiare, si concludeva.
Non ci si salutava, non si annunciava il proprio abbandono del campo né ci si augurava un arrivederci. E' curioso come da bambini non si padroneggino le regole del commiato.
Né ci si telefonava. Quello strumento domestico, che pochi anni dopo divenne insostituibile vettore di comunicazioni amorose ed interminabili chiacchiericci, nell'infanzia della mia generazione conservò una connotazione aliena, sospetta, che invitava a tenersene alla larga.
L'isolamento quindi, nel momento della transizione stagionale, diveniva assoluto. Io intanto mi preparavo, senza saperlo, ad affrontare con la ripresa della scuola ed il passaggio alla Media la prima occasione di trauma da disadattamento  della mia vita.
Piazza Adriano si allontanò anche nel ricordo, e si affievolì persino il desiderio di raggiungerla al ritorno della buona stagione.
Nel frattempo crescevo, non tanto in termini fisici - che la mia pubertà é stata più che altro una lunga infanzia attardata - quanto nell'aspirazione ad essere un altro, uno nuovo: la leggiadra farfalla al posto del goffo bruchetto. Naturalmente fui accontentato, avvenne la trasformazione, ovviamente senza nessuna leggiadria.
Così arrivò il giorno che in piazza Adriano tornai non in sella alla mia Frejus ansimando per la volata, ma a passi misurati, indossando un abito di sartoria con tanto di panciotto, le prime scarpe inglesi della mia vita e qualche soldo in un vero portafoglio, non più spiccioli sul fondo delle tasche.
Quel giorno io Giancarlo e Roby eravamo stati invitati ad una festa, chissà come e chissà da chi, a casa di una ragazzetta mora, in via Avigliana.
Si trattava di una di quelle festicciole d'allora, pomeridiane, con il mangiadischi in un angolo, un vassoio di salatini o di paste su un tavolo accanto a qualche bottiglia di bibita, ragazzini sgraziati dalla timidezza e dall'eccitazione che ronzavano attorno a ragazzine che simulavano femminilità adulte.
Giancarlo Roby ed io circumnavigammo quel salotto in perplessa inquietudine, ridacchiando e spintonandoci per darci un tono.
Si era in settembre. Io, durante l'estate, avevo ricevuto due viatici che ora mi infondevano una certa ostentata sicurezza. Come mascotte di una compagnia di ragazze e ragazzi più grandi avevo partecipato a serate durante le quali le ragazze, a turno, mi avevano costretto ad imparare a ballare tra le loro braccia, inconsapevoli - o forse no - della trepidante vertigine che scatenavano in me.
E una sera ero stato baciato.
C'era allora un giochino detto dello stuzzicadenti che consisteva nel sedersi in cerchio, un ragazzo ed una ragazza alternati, e passarsi di bocca in bocca uno stuzzicadenti appunto, o più frequentemente un fiammifero da cucina scapocchiato. Ad ogni giro ultimato il fiammifero veniva spezzato in due fino a ridursi ad una scheggetta invisibile che inutilmente si cercava di porgere tra i denti, e che più spesso andava ritrovato con una specie di bacio. Alla fine il frammento veniva gettato via e c'era il giro libero.
Io partecipavo come spettatore, la notte in spiaggia o nei prati sassosi tra gli uliveti sulla strada di Voze.
In quel buio i maschi avevano modo di misurarsi con la loro intraprendenza e con la disponibilità delle ragazze.
Le ragazze a loro volta decidevano, soprattutto nel famigerato giro libero, quanto baciare davvero in quelle sbavature esplorative, arbitrando gli assalti indifferenziati con selettiva pacatezza.
Il tutto avveniva in un silenzio liturgico, costellato di risatelle soffocate, sotto gli sguardi aguzzati nel buio di tutti quelli che sedevano intorno in attesa del loro turno.
Io ero uno scrutatore attento, e da quel consentito voyeurismo qualcosa apprendevo.
Una sera a Capo Noli, per via d'un esubero di ragazze, venni allegramente inserito nel cerchio con sbrigativo fare propedeutico.
Mi collocarono tra la Titti Brambilla e una certa Ersilia.
Io ero rassegnatamente e segretamente innamorato di Cristina Gorlier che filava - così si diceva allora - con il Gianluca Ferrari, e aspettavo da tempo un'occasione di dimostrarle che non ero un bambino, così accettai senza recalcitrare troppo e con una voglia matta di scappar via.






Cristina








Il mio cuore rumoreggiò incalzante per tutta la durata dello stuzzicadenti. Titti, che aveva deciso di fidanzarmi con la sorella minore di Roberta Rognoni e che l'anno successivo ci riuscì, mi faceva passaggi delicati che avrebbero dovuto rassicurami e che invece, con quel sapiente fior di labbra, mi eccitavano, disperandomi. Ersilia era più tecnica e più brusca.




Titti



Venne il giro libero. Titti premette le sue labbra socchiuse contro le mie e si scostò. Io mi rigirai stordito verso Ersilia che lanciò un affondo di lingua nella mia bocca impreparata.
Stupefatto contrastai quell'invasività, le nostre lingue duellarono con accanimento, poi lei si staccò ed io ero pronto ad insorgere per quello scherzo quando, tutt'attorno, si alzò un applauso e allora capii che avevo imparato a baciare.
Ora, nel salotto di via Avigliana, sapevo che avrei potuto invitare una delle ragazzine a ballare facendo la mia figura, ma nessuna di loro mi attraeva.
Zoia se ne andava in giro a pizzicottare le più timide divorando pasticcini, Roby guardava ostinatamente fuori della finestra determinato ad escludersi da quello che gli stava intorno ed io volevo proporre di andarcene quando fece il suo ingresso Carmen. Se ora decidessi di descriverla dovrei mentire, perché non ricordo assolutamente nulla di come fosse, ma mi incantò.
Forse ballammo. Non so come ci dicemmo che ci saremmo rivisti e tantomeno come ci scambiammo i numeri di telefono. Comunque ci riincontrammo per un appuntamento imbarazzato, preludio ad un vagabondaggio senza meta, una camminata dolorosamente silenziosa e mortificata da argomenti che non interessavano  nessuno dei due.
Lei era in tutta evidenza più sveglia di me: mi pare di ricordare che si comportasse come se mi stesse esaminando, come se valutasse l'opportunità di una scelta.
Non seppi proporle né un cinema né un gelato, nulla. La costrinsi a camminare interminabilmente lungo itinerari semideserti, per quartieri intarsiati di solitudini domenicali.
Lei fu gentile: mi camminò al fianco tentando una frase ogni tanto.
Nel tardo pomeriggio la riaccompagnai a casa, probabilmente esausta. Le dissi che le avrei telefonato e lei rispose và bene.
Il giorno dopo, ai giardini, venne un ragazzo, uno che abitava nelle case popolari dietro lo Stadio Cenisia, come mi spiegò Zoia dopo aver parlamentato con lui in disparte. Gli aveva riferito che da Carmen dovevamo stare lontani.
Era la prima volta che ricevevo un'intimidazione così sottilmente minacciosa ma non era la prima volta che vedevo quel tipo. Il suo naso camuso, gli occhietti a capocchia di spillo, allegri e pericolosi, me li ero trovati di fronte non più di una settimana prima, passeggiando proprio dalle parti del Cenisia con Marco, il fratello più grande di Roby Faggino.
Quel giorno sul panciotto del mio abito blu avevo aggiunto una catena con orologio da taschino. Un vero tocco da dandy.
Si erano fatti avanti all'improvviso, spuntando dal nulla all'altezza dei giardini che erano addossati allo Stadio.
Tre, poi quattro, e tra loro quel tipo. Volevano sapere chi fossimo, fingevano modi amichevoli sotto i quali traspariva tutta la tensione dell'agguato.
Il bersaglio ero io. Il ragazzino che avrebbe dovuto ancora indossare i pantaloni corti come loro, che se ne andava in giro agghindato come un damerino.
Annusavo la loro esasperazione sotto i sorrisi beffardi che ci riservavano. Con la scusa dell'apprezzamento arrivarono al gesto che avrebbe legittimato, ad una mia reazione, la  loro trasformazione in aggressori, cominciarono a toccarmi, a palpare la stoffa della giacca, a sollevare i risvolti dei pantaloni sulle scarpe lucide, a saggiare il nodo della cravatta, sempre escludendo Marco - in cui riconoscevo comunque la paura che non ne avrebbe fatto un alleato - e chiudendomi in un cerchio sempre più stretto. Finalmente uno di loro posò la mano sul taschino del panciotto e ne estrasse l'orologio. Finsero in coro una meraviglia derisoria e dissero che quello avrei dovuto regalarglielo.
Quell'orologio era stato di mio nonno, battersi era inevitabile e avevo il terrore di non trovarne il coraggio.
Cercavo di concentrami mentre le loro parole mi ronzavano in testa senza più significato, dovevo prima di tutto trattenere le lacrime e poi trovare la disperazione necessaria a sferrare il primo pugno o calcio.
Non saprò mai se ce l'avrei fatta perché ad un tratto il tipo col naso camuso e gli occhietti da topo disse “lasciamolo perdere”.
Il cerchio attorno a me si disciolse e si allontanarono canzonandomi, senza immaginare quanto avrei finito d'esser loro riconoscente per quell'umiliazione indimenticabile, un prezzo basso per conoscere su che livello si attestasse in me la vigliaccheria.
Marco  finse di aver sempre supposto che la cosa si sarebbe risolta così ed io non dissi nulla, non gli rivelai che gli avevo letto negli occhi che era pronto a scappare. Probabilmente nei suoi panni mi sarei comportato allo stesso modo. Ce ne tornammo allora a passi rincuorati verso i giardini di Piazza Adriano.
Ed ora quel tipo, che chissà perché mi aveva salvato, rispuntava con una nuova minaccia, più adulta, senza sorrisi, nemmeno di scherno.
Zoia spiegò di una banda che stazionava in Piazza Benefica e che in qualche modo aveva a che fare con i ragazzi delle case popolari del Cenisia. Carmen risultava essere una specie di reginetta di quella banda. La consideravano loro proprietà.
Io ero incredulo. Carmen la ragazzina, con i piccoli sussieghi della buona educazione, arruolata in una banda ?
Sapere che quelli avevano la nostra età e che solo più avanti, se mai, si sarebbero trasformati in veri teppisti, gente pericolosa sul serio, non diminuiva per nulla il mio sbalordimento.
Ad un tratto tutta la leggerezza dei nostri giochi infantili, delle nostre partite di pallone, si fece derisoria e reclamò aspramente una rivalsa. 
Cercai di sollecitare l'orgoglio di Zoia e Faggino e qualcosa riuscii ad escogitare se il giorno dopo li armai e me li trascinai appresso in una ronda terrorizzata, circumnavigando con grande circospezione prima Piazza Benefica e poi - rinfrancati dalla completa assenza di eventi di quella  battuta iniziale - pattugliando minacciosi i giardinetti addossati allo Stadio Cenisia.
Bimbi ignari ruzzolavano soddisfatti giù per lo scivolo e si spingevano a turno sulle altalene. Dei nostri rivali non c'era traccia. Giancarlo non riusciva a contenere la propria euforia e persino Roby, che fino a quel momento ci aveva tallonato in preda al panico, rosicchiandosi disperatamente il dito medio, cominciava a lasciarsi contagiare dal nostro ingiustificato sentimento di vittoria.
Il non aver incontrato il nemico si trasformava, grazie alla fantasia liberata dal terrore d'incontrarlo davvero, nell'idea farneticante d'averlo battuto.
Tornammo ai giardini di Piazza Adriano e mi feci restituire le armi, un coltello da lancio da Zoia che cercò di tenerselo fino all'ultimo accampando future ragioni d'autodifesa, e il mio primo coltello da caccia da Roby, un aggeggio inoffensivo quanto lui.
Era il primo coltello avuto in regalo per un compleanno di molti anni prima, dopo estenuanti insistenze con mia madre. Un coltello che ho ancora oggi, con custodia di cuoio e manico di corno di cervo. La lama, lunga un cinque o sei centimetri, in vista del finire tra le mani di un bambino quieto ma fantasioso, era stata smussata e spuntata ad arte fino ad avere le caratteristiche d'arma bianca che potrebbe avere un mestolo, ma il giorno che lo ricevetti in regalo, insieme ad un 45 giri dei Platters con due canzoni per facciata, lo ricordo con una chiarezza indelebile. Comunque Roby se ne liberò volentieri ed io tornai a casa soddisfatto. Vittorioso.

















Non cercai più Carmen. Non credo che sia dipeso dalla paura, piuttosto dal disagio di riconoscerla inserita in un mondo che, pur se contiguo a quello adulto cui ambivo disperatamente appartenere, mi appariva in qualche modo povero, mutilato di fantasticherie, immune dal fascino di prospettive chimeriche, che per me, allora, erano l'unico modo d'intendere il futuro.
Me ne tornai verso casa con tre coltelli infilati nella cintura, nascosti dal giubbotto che ritenevo mi conferisse un'aria spavalda. Percorsi con lo spirito d'un reduce le ultime centinaia di metri, passando davanti alla latteria dove confezionavano coni gelati buoni come non ho mai più assaggiato nella mia vita, alla panetteria dalla quale avevo visto più volte scaturire, in mattini di pieno inverno, garzoni in canottiera braghette e sandali, che cantavano a squarciagola, imbiancati di farina.
Passavo e l'abitudine a quei luoghi e a quelle persone che incrociavo tutti i giorni era come alterata. Mi sentivo come se dovessero riconoscermi qualcosa di nuovo.
L'ultima tappa prima di casa era la vetrina della cartoleria Luciana, la mia prima area di vettovagliamento libresco.
Lì, in occasione di un Natale di molti anni prima, in cui mi ero appena conquistato la capacità di sillabare sul sussidiario, mia madre aveva acquistato una partita portentosa di libri per ragazzi, con una forse confusa ma felice strategia di incentivazione alla lettura.
Quel mattino di Natale i cumuli di libri sotto l'albero avevano addirittura adombrato la bicicletta rossa con manubrio da corsa che era loro accanto. Quel manubrio venne poi sostituito con uno normale a causa dei rischi che poteva far correre alla mia schiena di bambino, provocando la mia esacerbata delusione. I libri invece rimasero.
Si trattava di quelle edizioni cospicue di allora, le cui pagine, stampate a caratteri ingranditi, erano con parsimonia intervallate da tavole a colori, che rimandavano ad avvenimenti della narrazione.
Copertine sireneggianti richiamarono quel mattino di Natale le mie mani febbrili a sfogliare le pagine con un affanno che mi impediva di soffermarmi. Poi, con il ritorno della tranquillità, uno per uno, nei mesi a seguire,Tom Sawyer, Huckleberry Finn, Oliver Twist, Il piccolo Lord, Natty Bumppo, Ivanhoe, David Copperfield, Robinson Crosue, Don Chisciotte, I ragazzi della via Paal e tutti gli altri entrarono definitivamente nei miei affetti, fino ad intessere di sé una parte di me che a tutt'oggi credo sia la più solida.



























Accanto ai romanzi era incolonnata a terra, in dodici volumi dalle sovracopertine variopinte di colori caramellanti, Vita Meravigliosa, la mia prima enciclopedia: un tesoro informativo fitto di vignette con didascalia che sapevano suggestionare non solo con la storia di Napoleone ma persino con quella della raccolta del caucciù. E senza Vita Meravigliosa come potrei aver viaggiato con Alvise Cadamosto e Antoniotto Usodimare in luoghi che ricordo benissimo ?









Il passaggio dalle edizioni per ragazzi a quelle per adulti avvenne poco tempo dopo, e sempre grazie all'entusiasmo temerario di mia madre.
Mi pare si fosse di fronte ad un'edicola ed io mi incantai ad osservare la copertina di uno di quelli che si chiamavano Libri del Pavone: la prima collana di tascabili della Mondadori.
Il romanzo era "Il ragazzo di Sycomore" di Erskine Caldwell.









La copertina ritraeva il viso tumefatto di un ragazzino negro che, come scoprii poi dalla lettura, guadagnava qualche cent offrendosi come bersaglio umano alle fiere di paese, con la testa infilata nel buco di un telo ed esposta alla mira dei lanciatori di palle di stoffa.
Non dovetti insistere perché mia madre mi comprasse quel libro, senza chiedersi neppure per un istante se fosse adatto ad un ragazzino di nove o dieci anni.
Lo divorai.
Qualche tempo dopo lei venne convocata da maestro e direttore della scuola per cercare di spiegare come fosse possibile che io avessi definito, in un componimento sul genere "Descrivi la tua famiglia", mio padre come 'il mio vecchio'.
Credo che né il maestro Vignola né il direttore fossero lettori di Caldwell, e questo forse fu un bene perché l'incidente rientrò, dopo una breve parentesi di sospetto, lasciandomi libero di frequentare letture che sarebbero state giudicate inopportune per un bambino, in quegli sprovveduti anni cinquanta.
Non citai più i miei autori preferiti nei componimenti ma mi lasciai travolgere dalle loro storie per sempre, affrontando in confusione emotiva e struggimento d'incompetenza erotica i contorcimenti di Ellie Mae ne "La via del Tabacco", decidendo di diventare vagabondo per poter vivere anch'io a "Pian della Tortilla", innamorandomi come mai nella vita reale della Vinca di Colette de "Il grano in erba".
Ogni libro era un tuffo in un mare tiepido e dimentico, adatto al mio fluttuare libero, svincolato, amniotico.
Le provviste erano in fila nell'espositore di metallo della cartoleria Luciana, preziosa più di una vera libreria perché la scelta avveniva in quell'odore di piena pace che é dei giocattoli, delle gomme per cancellare, dei quinterni a quadretti e degli astucci di matite colorate.
Ora, dopo l'avventura per giardini, con i coltelli nascosti nella cintura, quella vetrina da cui occhieggiavano i disegni delle copertine dei libri, fu l'unica a darmi il bentornato e ad indirizzarmi definitivamente a casa con un senso di completo appagamento.
Venne, dopo d'allora, un tempo in cui Piazza Adriano scomparve dal panorama delle mie prospettive. Mutai abitudini, in nome di che non ricordo. Persi di vista Zoia e Faggino e mi avventurai a scoprire nuovi quotidiani percorsi.
Tornavo ogni tanto, ancora senza nostalgia, in via Paolini, accompagnando mia madre da Mattalìa, una pasticceria impreziosita dalla cortesia sabauda della proprietaria e da cornucopie di frutta candita - in particolare uva - per la quale, all'epoca, andavo pazzo.
Si era d'inverno. Le panchine dei giardini erano deserte, ancorate all'abbandono. Pochi passanti per i viali, pochi cani a zampettare qua e là alla ricerca del tronco ideale contro il quale pisciare.
Io sedevo accanto a mia madre, in macchina, e guardavo quel vuoto attraverso il finestrino chiedendomi come fosse possibile che tutto potesse scomparire così facilmente, cambiando radicalmente pur restando immutato, lo stesso fiotto a singhiozzi dalla bocca del toretto della fontana, senza però che accanto qualcuno di noi spingesse l'altro, nell'affanno di abbeverarsi dopo le corse. Tutto così nuovo a sovrapporsi alla nostra assenza.
Poi l'auto filava via lasciandosi alle spalle gli alberi già avviluppati dall'oscurità.
A volte, in quel buio dei viali, s'aggirava una donna alta e dinoccolata, con un viso mesto e sciocco, truccata in modo ridicolo.
Alcuni dei suoi figli - tutti identici a lei nella magrezza allampanata e nell'intimorita goffaggine dello sguardo - si erano visti a volte ai giardini. I più grandi sgargianti e miserabili in fogge beatnik, i più piccoli balbuzienti ed incapaci al gioco.
La chiamavano la mamma dei soldati perché si concedeva per pochi soldi ai militari di leva, che affollavano le caserme che c'erano allora sui due lati di Corso Vittorio, accanto ai giardini.
Andava qua e là nel buio dondolando una borsetta logora e fingendosi allegra, e quei diciottenni di campagna o del sud soddisfavano le loro emergenze mettendosi in coda, frettolosi per la ritirata incombente, appoggiandosi con lei ad un muro per poi correr via schiamazzando in truppa, finché per i vialetti non restava che lei a passeggiare nella speranza d'un ultimo cliente, infreddolita, lambita dalle luci delle auto che spuntavano dalla curva curiosa di via Paolini.




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