lunedì 8 novembre 2010

WHITTLING - TONSILLE





TONSILLE 
(il racconto è del 1996 e si riferisce, in particolare, alla vigilia di Natale del 1971)





...due giorni dopo - Sauze d'Oulx - 27.12.1971
Simona Frassinetti, Pit, Daniela La Rosa





Il dottor Poli era un brav'uomo. Parlava sottovoce con una specie di sussurro benevolente, reso ancor più inintellegibile dall'eterno sorriso d'incoraggiamento che gli tendeva le labbra come una paresi.
Era del genere che in quegli anni credo si definisse un bell'uomo. Si muoveva con eleganza accogliendo i pazienti nel suo studio, di cui ho un ricordo vago: un ambiente in penombra, con stampe antiche a carattere otorinolaringoiatrico su pareti scure, non so più se a pannelli di legno o d'un color verde opaco.
Era un brav'uomo ma dopo l'operazione alle tonsille avevo imparato a diffidare di quel suo sorriso e di quelle sue paroline smozzicate. Non aveva smesso né l'uno né le altre mentre mi cacciava in gola certi ferri che parevano strumenti di tortura per sradicarmi le due misere pallette infiammate.
Ero stato inchiodato ad una specie di poltrona da barbiere, legato come un condannato alla sedia elettrica, con la bocca definitivamente spalancata da un aggeggio intrusivo che aveva il marziale sapore dell'acciaio, poi il dottor Poli si era affaccendato nella mia gola, centellinando parole d'incoraggiamento che mi parevano dette a casaccio e stiracchiando il suo sorriso sotto una luce allarmante.
Il tutto non era durato che attimi e l'anestesia parziale aveva ovviamente impedito che sentissi dolore, ma il terrore d'essere sottoposto ad un'operazione cui nessuno mi aveva preparato, a proposito della quale - anzi - tutti mi avevano mentito, era stato assoluto.
Subito dopo mi avevano dato tregua in una stanza della clinica, immersa nell'oscurità. Qui la consapevolezza dello scampato pericolo si era stemperata in un pianto sommesso e risentito, sfociato poi nel sonno.
Durante i brevi momenti dell'operazione dovevo aver urlato come un forsennato. Al risveglio la gola mi doleva, intontita. Mio padre e mia madre mi coprivano di premure con aria colpevole ed io resistevo alle loro manifestazioni di affetto respingendole offeso, nonostante le desiderassi disperatamente.
Poi finalmente, con la certezza che tutto era passato, accettai il lato buono della faccenda: la solita prospettiva dei gelati da potersi - addirittura da doversi - mangiare in gran numero, con l'aggiunta stravaganza del farlo fuori stagione, ed i regali che poggiavano ai piedi del letto.
Non so cosa avesse indirizzato la scelta dei miei, forse solo la fretta di un acquisto all'ultimo momento, probabilmente in qualche negozio a pochi passi dalla clinica dove il dottor Poli mi aveva liberato dalle famigerate tonsille, sta di fatto che i doni erano curiosamente lontani da ogni prevedibilità o precedente richiesta da parte mia.
Si trattava di un fioretto con maschera da schermidore in plastica rigida e di un motoscafo alimentato a batterie. La maschera da schermidore era colma di caramelle e cioccolatini.
Indagai con circospezione quei giocattoli inattesi, misurai la maschera dopo aver rovesciato sprezzantemente i dolciumi sul letto, abbozzai qualche mossa da spadaccino e dovetti attendere tutti i mesi dell'inverno e della primavera prima di poter varare il motoscafo.
Una levetta azionava il contatto delle pile e metteva in movimento una minuscola elica.
Dopo mesi dunque, nel primo giorno di vacanza estiva, pallido di città ed emozionato, spalmato come un panino di crema protettiva e con un buffo berretto in testa, ero corso fino al bagnasciuga con il motoscafo in braccio, per arrestarmi poi guardingo di fronte all'insaccato ribattere delle onde.
Con orgogliosa cautela avevo azionato il contatto e un ronzante rumoretto era uscito dalle viscere dello scafo. Lo avevo spinto verso l'onda e lui non era riuscito a superarla. Rovesciato e ributtato indietro, subito ingolfato di sabbia e acqua salmastra, si era rivelato immediatamente inservibile.
A quell'epoca dovevo avere cinque o sei anni.
Negli anni che seguirono il dottor Poli rimase il mio otorino. Col tempo, crescendo, smisi di diffidare di lui e del suo sottile sorriso incrollabile.
A vent'anni, una notte, in una discoteca di Sauze d'Oulx che si chiamava Charlie Brown, mi lanciai su un tale che non avevo mai visto in vita mia e che aveva appena spaccato un bicchiere sulla fronte di Renato Bertrandi.


         Renato, Simona, Daniela, Pit



In un attimo ne venne fuori una rissa furiosa. Un manipolo di attaccabrighe era salito apposta da Bossoleno col preciso intento di provocare un tafferuglio al Charlie, e ci era riuscito.
Quel tale incassò il mio primo pugno e schivò il secondo, poi mi abbatté con uno dei suoi. Quando mi vide a terra prese a lavorarmi a calci, mentre io tentavo di tenerlo a distanza con le spalle tra i tavolini che andavano in frantumi.
Paolo Drago poi Rodrigo Solaro vennero in mio soccorso ma prima che quel tale - che non avevo visto in faccia ne mai vedrò - venisse fermato, era arrivato con uno dei suoi calci a rompermi il naso.
Quando tutto si acquietò, con la semplice rapidità con cui era esploso, si contarono i feriti. Io ero tra questi: il mio naso piegava a sinistra. Non sentivo dolore. Quando la rissa era iniziata ero già piuttosto sbronzo e finii con l'ubriacarmi, infantilmente orgoglioso di essermi misurato in quello scontro, ammirato con intimidito stupore da una ragazza francese che poi passò la notte con me.
Il mattino seguente mi svegliò il dolore. Mi osservai nello specchio del bagno e stentai a riconoscermi: due occhiaie violacee come segni di guerra mi bistravano gli occhi e il naso era dove non me lo sarei aspettato: sghembo e pieno di sangue rappreso. Parevo un ritratto cubista.
A quell'epoca - erano le vacanze di Natale del '71 - il dottor Poli aveva casa in montagna a Sauze d'Oulx. Due suoi figli, uno più vecchio di me e l'altro, credo, mio coetaneo frequentavano gli stessi luoghi, le stesse piste di sci e più o meno la stessa gente che frequentavo io. Chiesi al più giovane se il padre fosse a Sauze e lui rispose di sì, così, nel tardo pomeriggio, mi ritrovai di fronte al dottor Poli che in un comodo abbigliamento di montagna mi esaminava il naso, annuendo con il suo sorriso incomprensibile.
Disse che era rotto e con una mossa a sorpresa, afferrandolo con due dita forti come pinze, lo raddrizzò. Sentii un rumore di frattura, forse dolore coperto però dalla sorpresa, poi mi guardai allo specchio e ritrovai il naso più o meno dove avrebbe dovuto essere.
Le occhiaie violacee mi conferivano un aspetto guerresco: ne andavo fierissimo.






Il dottor Poli si raccomandò che non appena rientrato in città mi sottoponessi ad un intervento meno empirico, ma me ne dimenticai.
Ancora oggi quindi il mio naso é un pò storto e gli otorini che sono succeduti al dottor Poli individuano in quel setto deviato, e mai ricondotto alla sua posizione originale, la causa delle mie riniti e, in qualche misura, delle mie otalgie.
Pochi anni dopo quel fatto della rissa venni a sapere che il dottor Poli era morto.
Non ricordo chi me lo disse, e fu forse per la laconicità della comunicazione che per me lui entrò a far parte di quel novero ridotto di figure di cui non si accetta definitivamente l'idea che siano davvero mancate.
Indagando ho scoperto che non solo a me accade di dubitare ingiustificatamente del decesso di alcune persone, non necessariamente rappresentative o vincolate a ragioni d'affetto. Il dottor Poli é rimasto a lungo, per me, tra queste. Sicuramente morto ma per una parte incontrollabile del mio subconscio ostinatamente vivo, nel suo studio in penombra ad attendere i pazienti con quell'indecifrabile sorriso che pareva davvero il risultato di uno sforzo di educata buona volontà.




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