venerdì 4 gennaio 2013

ATTI MANCATI 12



Ero certo di averla affrontata solo recentemente - e recentemente abbandonata - quest'idea di romanzo.
Tendevo a ritenerla una conseguenza del fatto di aver scritto "Il sostituto" e che poi questo avesse trovato un editore.
Un altro lavoro con una struttura a suspence, un giallo - anche se nell'accezione che avevo utilizzato io, un po' anomala forse - mi pareva potesse andare.
Sto parlando di "Navasota city limits" (questo era, e resterà, il titolo del romanzo incompiuto).
E' stato necessario addivenire alla consapevolezza della definitiva sospensione della sua stesura e della conseguente disponibilità a confessarne su questo blog le ragioni - o meglio - a cercare attraverso l'esercizio di questo blog le ragioni che spesso mi portano a piantare tutto in asso (o in Nasso, come sarebbe più corretto dire) per andare, intanto, a rintracciarne le origini.
Così è saltata fuori una cartellina del 1998 con due incipit differenti, il primo del 25 dicembre...



...la prima pagina...



l'altro senza data, ma coevo, dal momento che sta nella cartellina del '98, e ce li cacciavo in ordine coronologico di stesura.


...la prima pagina...


ambedue in una versione esclusivamente manoscritta.
Ho cercato immagini di me del '98 ma pare proprio che non ci sia quasi nulla. 
Quell'anno ho girato uno dei documentari che mi è piaciuto di più realizzare e che ha fatto sì che io viva qui, oggi.
La foto che ho trovato è della lavorazione di "Passaggio a Schio".






ma credo di doverne aggiungere un'altra, sempre legata ad una lavorazione documentaria e sempre con il sottoscritto armato di telecamera. 
E' dell'anno prima, il '97, ma quei luoghi sono quelli che poi sono diventati la location di buona parte di "Navasota city limits" e, mentre ero là che giravo tutt'altro, evidentemente mi impregnavo dello spirito di quei luoghi.
Poi, tornato a casa, iniziavo a montare e buttavo giù, su carta riciclata e armato di stilografica, come mi piace fare ancora adesso per la prima stesura (invidio un poco Janis/Laura che da molto, ormai, scrive direttamente al computer) tracce di progetti che, come si è visto,  erano destinate all'oblio.







Sempre in forma solo manoscritta, in una cartellina del 2002, c'è un inizio di sceneggiatura, anch'esso interrotto.
Nel caso della sceneggiatura sopra il titolo ne compaiono altri due, probabili alternative, uno scritto in verde, l'altro in rosso. La sequenzina di avvenimenti descritta nella prima pagina non mi ha detto nulla e ho dovuto rileggere - con gusto, ammetto - le poche successive per intuire lo sviluppo che avrei voluto dare in questo caso alla storia, che comunque parte sempre dagli stessi presupposti. 



La prima di una dozzina di pagine


Rintracciare, nuovamente a fatica, foto del 2002 mi ha fatto ricordare che, con Laura, abbiamo trascorso alcune stagioni invernali praticamente sempre in montagna.  Quella del 2002 è stata una di queste.
Dunque questo abbozzo di sceneggiatura deve essere nato ad un tavolo di fronte alla finestra  di un appartamentino che avevamo affittato a Serrada, praticamente sulle piste, dove mi sedevo a fine giornata a scrivere.
Bei tempi. 
Di assoluta, beata, irresponsabile dedizione edonistica.
Niente telecamere, questa volta, ma solo sci.










Ecco allora tre avvii che avevo completamente dimenticato.
Rivederli scritti a mano, con le correzioni, le cancellature etc. mi ha fatto uno strano effetto, come se vedessi me, più che loro, un me che non conosco, o che non riconosco, spaesato e turbolento, uno strano me.
Forse bisognerebbe, se si scrive inizialmente a mano, conservare quelle versioni originali...bah ! in ogni caso, ormai, è tardi, ed è un conforto anche quello.

Per la versione che credevo l'unica bisogna dunque arrivare all'11 aprile del 2008. Questa è la data d'avvio che ho trovato in calce alla versione riesumata da un hard disc esterno.
Anche per quest'anno, fotograficamente, sono malmesso.



 all'inaugurazione di una mostra fotografica di Piero Martinello




Beh, a questo punto non è il caso che continui a tergiversare. 




NAVASOTA CITY LIMITS 



UNO

Ottobre 2000

Il giorno che la donna è venuta in agenzia ero in saletta di proiezione per una presentazione.
Si visionava quello che in gergo si definisce “rough cut” – una specie di imbastitura di montaggio – per il documentario promozionale di un Istituto di Credito.
E’ un momento delicato.
I clienti sanno di avere ancora ampio margine d’intervento e friggono dalla voglia di farne uso.
Anche se si trovassero di fronte ad un capolavoro – ed escludo, comunque, che saprebbero riconoscerlo – non si asterrebbero dal richiedere modifiche, variazioni, spinti dall’incontrollabile impulso a  prevaricare, ad imporre un punto di vista, ammesso che ne abbiano uno.
Il regista, dal canto suo, è nervoso come un cavallo al canapo del Palio di Siena.
Sa cosa lo aspetta, si macera nell’indecisione tra il difendere la propria opera e l’accettazione spietata della realtà, e cioè che il suo film, comunque vadano le cose, non lo vedrà quasi nessuno, non ha nulla di memorabile, e per realizzarlo è stato retribuito con una cifra esagerata.
Io sono lì per mediare.
Lo faccio con l’abilità decorosa e apparentemente competente che mi deriva dall’indifferenza assoluta che nutro nei confronti del filmato e del suo autore e dal disprezzo che celo dietro una melliflua disponibilità nei confronti dei committenti.
E’ il mio lavoro. Non è un lavoro che ho scelto. In qualche modo si può dire che lui ha scelto me.
Molti anni fa un paio di amici che avevano le mie stesse esperienze alle spalle mi hanno acciuffato per i capelli mentre stavo scivolando verso il fondo e mi hanno offerto questa opportunità.
Oggi siamo soci e la nostra agenzia pubblicitaria è tra le più quotate. Non chiedetemene le ragioni.
Vinciamo dei premi, partecipiamo a rassegne internazionali, le riviste del settore ci seguono e ci coccolano. Si parla di noi.
La metà delle parole che usiamo nel nostro linguaggio corrente sono in inglese, ma dubito che un inglese capirebbe cosa intendiamo dire.
Tutto qua.
Il mio ruolo è quello di dirigere una casa di produzione consociata all’agenzia. Come si suol dire ce la suoniamo e ce la cantiamo.
Pochi tra i nostri concorrenti riescono a gestire questo doppio ruolo mantenendosi su un livello alto, ma nel nostro mestiere è impossibile individuare il punto di separazione tra abilità, intuito e culo, e allora non so dire se il successo che ci arride sia meritato o meno.
Non ho né moglie, né figli né parenti stretti.
Sono proprietario di una barca a vela e di uno chalet che d’inverno si raggiunge solo con la motoslitta.
Molti mi definiscono un orso.
Non sono sempre stato così, ma questa è un'altra storia.
Per arrivarci occorre andare con ordine, partendo da quello squillo del telefono interno che ha fatto sì che mi liberassi temporaneamente dei due imbecilli mandati dall’Istituto di Credito.
La voce flautata di Anita, la ragazza che abbiamo al centralino d’ingresso, mi ha segnalato che c’era la signora Scolari per me.
Io non conosco – o meglio non conoscevo, o credevo di non conoscere nessuna signora Scolari  - ma ho risposto “Arrivo subito” ed ho improvvisato un atteggiamento di velata preoccupazione.
- Un cliente da Londra, vogliate scusarmi un momento. Voi andate pure avanti…
Fabio e Vittorio, i miei soci, hanno mangiato la foglia e si sono prestati molto blandamente alla mia scenetta di contrizione.
Loro due non sono convinti, al contrario di me, che sia opportuno e  remunerativo offrire ai nostri interlocutori la libbra di carne che assaporano con maggior voluttà: quella che gli dà l’idea che tu sia nei pasticci, che abbia una rogna, che ti stia per dover confrontare con un cliente meno importante ma ancora più stronzo di loro.
Così i bancari mi hanno rivolto un sadico cenno d’assenso, il regista ha annaspato sulla sua poltrocina, Fabio e Vittorio hanno proposto un caffè.
E io me la sono filata.
Anita mi ha detto che aveva fatto passare la signora Scolari in sala riunioni.
- Ma chi è? – ho chiesto.
Lei ha alzato le spalle. Conosco quello sguardo.
Anita è molto giovane ma favorita da una dote innata, che le permette di percepire aspetti nascosti in persone che non conosce, aspetti che forse vorrebbero celare o addirittura che non sanno di avere. Una specie di detector per qualità mascherate e altrettanto mascherati difetti.
Me ne sono accorto dopo che già l’avevamo assunta. Lei non esibisce questa difficile qualità, non sono nemmeno sicuro che sia completamente consapevole delle sue potenzialità.
Così,  in risposta alla mia domanda, ha alzato le spalle.
- Aveva un appuntamento? – ho chiesto, sapendo che la   domanda era oziosa.
Anita ha simulato una rapida occhiata all’agenda e poi mi ha sussurrato un no che ha suonato come un sì.
Così sono entrato in sala riunioni.
La donna – la signora Scolari – ha alzato gli occhi e immediatamente ho capito di averla già vista. Mi ha suscitato una sensazione allarmante, come se fosse balzata fuori da un passato per me sepolto, almeno quando sono in stato di veglia.
Sui cinquant'anni.
I suoi occhi.
Avevo già incrociato quello sguardo, non ricordavo dove, ma qualcosa mi diceva che l’occasione era stata dolorosa. E infatti.
- Signor Bertocchi? – ha chiesto.
- Sono io.
- Sono  Scolari.
Le ho rivolto un cenno d’assenso mentre me la studiavo, cercando di capire da quale nicchia dimenticata del mio passato saltasse fuori. Anche la voce mi diceva qualcosa, pure se più roca di quanto mi sembrava dovesse essere.
- Si può fumare qui? – ha chiesto lei con un accenno di imbarazzo.
Avevo intenzione di domandarle chi fosse e che cosa volesse, avevo deciso di essere sbrigativo e di tornare ai bancari in saletta di proiezione e invece le ho sorriso e  ho risposto di no, ma che si poteva fare un'eccezione, e le ho anche chiesto se le andava un caffè.
- Sì, grazie – ha risposto estraendo un pacchetto di Winston e ricambiando il mio sorriso.
- Noi…ci conosciamo? – le ho chiesto, con cautela.
- Ero la compagna di Chicco Costantini.
Si sa, per quanto spazio tu possa mettere tra te e il tuo passato da dimenticare, arriva sempre il momento in cui quello, dopo averti tallonato non visto, ti raggiunge e ti posa una mano sulla spalla, da dietro. Si sa, ma si fa finta di niente.
Fiorenza Scolari era quella mano.
Non so che espressione mi si sia dipinta sul viso ma lei ha smesso di sorridere e si è affrettata a scusarsi.
- Mi dispiace…mi rendo conto che capitare qui, così, non è giusto, ma avevo paura che a telefonarti non avresti voluto incontrarmi, e allora…scusami, mi dispiace davvero, ma è importante, molto.
Mi sono seduto di fronte a lei. Ho sollevato la cornetta e ho chiamato Anita. Le ho chiesto di farci arrivare due caffè.
- Vuoi qualcos’altro? – ho chiesto alla donna che mi sedeva di fronte. Lei ha fatto cenno di no.
Quindi non ha cinquant’anni, ma molti di meno, al massimo può avere la mia età, ed io sto per compierne quarantadue, ma c’è qualcosa in lei di sfiorito, di esausto.
L’ultima immagine che la riguardi che riesco nebulosamente a rievocare risale ai tempi del processo. Una bruna con i capelli a caschetto, magra e imbronciata. Quella che ho di fronte ora è una donna con fianchi solidi e ampi, petto abbondante, capelli corti sale e pepe, occhi stanchi.
Fiorenza era la compagna di Chicco. Una figura di spicco di Lotta Continua.
La sera che gli avevano sparato era d’ottobre e pioveva.
Era in macchina, sotto casa mia. Con lui c’era Paola.
Paola era mia moglie da un mese ed era incinta di sette.
Otto proiettili in tutto.
Io ero fuori città.
Era il 1975.
Avevamo vent'anni, stavamo insieme da due.
Nonostante la giovane età, nonostante la libertà di cui disponevamo e il mondo cui appartenevamo, costituivamo una coppia tradizionale, ma non nel senso deteriore del termine.
Eravamo una coppia come dovrebbero esserlo tutte e come non lo è quasi nessuna.
Ci amavamo e ci rispettavamo. Malgrado fossimo poco più che ragazzini, eravamo molto responsabili.
Io stavo per laurearmi in biologia, lei si era iscritta ad agraria.
Sognavamo un futuro nel Terzo Mondo  a salvare vite salvando la Terra.
Ora può sembrare utopistico, retorico e non m’importa che cosa possiate pensarne.
Il mio sogno è laggiù, indietro di venticinque anni, in frantumi. Il resto è storia banale.
Quelle rivoltellate le avevano sparate dei balordi, fascisti per caso, individuati quasi immediatamente, cosa rara per quei tempi. Questo era quanto era risultato dal processo.
Io avevo presenziato una volta soltanto, mentre mi pare di ricordare che lei non mancasse mai, così qualcuno mi aveva detto.
Io allora ero annichilito, come sordo, intontito. Così annientato che neppure la disperazione riusciva ad aprirsi un varco. Sono rimasto in quelle condizioni così a lungo che quando mi sono ripreso il mondo aveva avuto il tempo di cambiare completamente.
Per molti anni ho lavoricchiato in settori di sottobosco con mansioni senza rilievo: edilizia, ristorazione, consegne a domicilio, dogsitting, assistenza ad anziani e disabili. Naturalmente non mi sono mai laureato. E bevevo.
Ruzzolando giù per la scala una volta mi sono fermato su uno dei gradini, uno dei più bassi, ormai. Lì, per caso, mi hanno trovato Fabio e Vittorio. I miei soci di oggi.
Da Lotta Continua all’espressione più sfrenata del capitalismo senza etica: la pubblicità.
Ho ripassato le tappe a grandi balzi, mentre prendiamo il caffè che Anita ci ha portato, riservando a Fiorenza un sorriso molto solidale.
- Cosa posso fare per te? – mi sono sentito chiedere, mentre lei accendeva un’altra Winston.
Fiorenza ha aspirato una lunga boccata e, come se con quella avesse assunto coraggio, espirando ha detto
- Ammazzare un uomo.
Io avrei dovuto mettermi a ridere, ma lei rappresentava in quel momento un passato dal quale, se pur ci erano state, le risate erano state tutte cancellate; era lì a testimoniare di quel grumo di dolore sordo e disumano, uncinato al fondo del mio spirito per sempre, era un fantasma shakespeariano venuto a chiedere vendetta.
Così, invece di ridere, mi sono limitato a chiedere “Chi?”, anche se immaginavo quale sarebbe stata la risposta.
Fiorenza ha schiacciato la sigaretta nel posacenere, fissandolo e ha risposto
- Ettore Taliercio - come mi ero aspettato.
 Il processo si era frettolosamente concluso con una sentenza severa, che aveva condannato a trent’anni Notarianni e Taliercio, due picchiatori del Fronte della Gioventù, malgrado nel corso del dibattimento fossero affiorate altre responsabilità ed un testimone – un pensionato che portava il suo cane a passeggio – avesse dichiarato di aver visto fuggire tre e non due persone, dopo la sparatoria.
La figura che il Movimento sospettava si volesse coprire era quella di Italo Sarno, quello che si potrebbe definire un ideologo, all’epoca.
Durante un assalto ad una sede del Fronte della Gioventù, nel 1974, lui e Chicco Costantini si erano trovati di fronte. Nonostante Sarno brandisse una spranga era lo stesso volato dalla finestra del primo piano in cortile, riportando fratture che lo avevano lasciato zoppo.
Per quello e per un’infinità di sordide ragioni che alimentavano i suoi deliri nazisti, da quel giorno il destino di Chicco, a sua insaputa, era stato segnato.
Le indagini parallele del Movimento, avevano inizialmente riconosciuto Sarno come mandante dell’esecuzione, poi lo avevano identificato come il terzo fuggiasco, quello visto dal pensionato con il cane.
Io non ero stato in grado di seguire il decorso degli eventi. Mi ero acquattato in un limbo di assenza indifferente.
Nessuno mi informò che Notarianni in carcere aveva ritrattato, affermando di esser stato presente ma di non avere sparato, e che Taliercio, al contrario, non negò mai le sue responsabilità.
Fiorenza  ora mi sta dicendo che è evaso dal carcere un paio d’anni dopo la sentenza, facendo immediatamente perdere le proprie tracce, mentre invece Notarianni non ce l’ha fatta, è morto in galera, d’infarto pare.
In ogni caso, per tutto l’arco del dibattimento, ambedue avevano sempre negato la presenza di un terzo uomo nel commando.
In quella sera di pioggia, sotto casa mia, si erano accostati all’auto di Chicco fingendo di voler chiedere un informazione ed avevano aperto il fuoco contemporaneamente con una Beretta cal.7,65 ed una Mauser P38 cal.9.
E’ possibile che Notarianni dicesse la verità, ma in questo caso Taliercio avrebbe dovuto impugnare una pistola per mano, mentre l’altro stava a guardare. E’ assurdo.
Fiorenza ha dato la stura ad una serie di considerazioni che, si sente, deve aver ripetuto per anni, più o meno nella stessa forma. C’è nelle sue parole una specie di rabbia addomesticata dalla frequenza. E io voglio tornare di là, da quegli stupidi bancari, non voglio ascoltare lei.
Glielo dico, così, anche con una certa laconica brutalità. Lei fa un sorriso. Un sorriso così triste, così impregnato di rassegnazione all’ingiustizia che mi fa salire il cuore in gola. Cerco di rimediare.
- Abbi pazienza, ho dei clienti molto importanti che mi aspettano, se non torno i miei soci mi fanno a pezzi. Ma possiamo vederci più tardi…Ti va se ti invito a cena?
Lei è un po’ meravigliata ma risponde di sì. Mi da l’indirizzo dove posso passare a prenderla.













DUE


- Paola non era il bersaglio. Li avevano seguiti, volevano Chicco e lei ha fatto le spese…nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Fiorenza beve un sorso di birra.
Non mi piace che parli di Paola in questi termini. Per il Movimento e alla fine anche per me, Paola aveva acquisito l’aura di una martire, di una caduta sul campo, non di un incidente di percorso.
Siamo in una pizzeria dove non mi era mai capitato di entrare, ma Fiorenza sembra essere di casa.
Quando ho accennato a Sarno ha fatto un gesto come di cosa risolta.
- Morto. In un conflitto a fuoco con la polizia di Bogotà. Stavo dietro anche a lui, non credere…
Perché lei non ha mai mollato. Mentre il paese tornava alla cosiddetta normalità, Taliercio alla libertà e Sarno a traffici internazionali, lei ha cercato di non perderne le tracce.
Io a quell’epoca ero quasi sempre ubriaco e se mai qualcuno mi disse qualcosa in proposito, lo dimenticai. Ho scoperto tutto dopo, a distanza di più di dieci anni, e ho chiuso tutto in fondo al posto più profondo che ho trovato in me, buttando poi via la chiave. Così adesso devo ascoltare questa donna che mi sta di fronte. E che capisco che continuerà a non mollare.
Lei non ha fatto come me.
E' stata sposata, ha avuto una figlia, ha insegnato matematica in un liceo senza mai smettere di cercare di rintracciarli. 
Compatibilmente con il lavoro e le responsabilità familiari, non ha mai ceduto.
Lei lo vuole. Lo ha tallonato per tutti questi anni.
Mi ha accennato alle difficoltà, ai disinganni, alle complicità imprevedibili sulle quali lui ha potuto contare e sulle solidarietà inattese che hanno incoraggiato lei.
Ascoltandola mi sono sentito a disagio, persino un poco in colpa.
Io dovrei essere come lei, perché potrei dire di aver perso più di lei, anche se in circostanze del genere i raffronti non hanno senso, eppure questa ossessione di giustizia biblica, di vendetta senza remissione non mi ha tormentato quanto capisco che ha tormentato lei.
- L’ho trovato – dice all’improvviso, mentre già sorseggiamo il caffé.
Sfila dalla borsa una busta e dalla busta un paio di fotografie.
Così mi ritrovo davanti Ettore Taliercio. Più grasso di come lo ricordo ma inequivocabilmente lui.
- Fino al mese scorso era a Corpus Christi – dice Fiorenza.
- Dove?
- Corpus Christi, Texas.

















TRE

Non conosco nessuno che si sarebbe lasciato trascinare in un’avventura del genere con tanta docilità. E non so neppure riassumere la cadenza degli eventi, così come sono precipitati dopo che Fiorenza Scolari è venuta da me in studio.
Quello che so è che tra un paio d’ore atterreremo a Detroit, da lì ci imbarcheremo su un altro volo per Houston, e poi ci aspetterà un ultimo cambio, destinazione Austin.
All’aeroporto ci sarà un tale ad attenderci, uno di cui Fiorenza non mi ha detto granché, che ci ha “organizzato” il soggiorno.
Mi sembra impossibile eppure eccomi qui.
Mi sono liberato dagli impegni di produzione con mille difficoltà ma con una determinazione che non mi conoscevo.
Ho scaricato qualche rogna a Fabio e Vittorio ed ho delegato una serie di responsabilità ai miei assistenti; due cose che erano sempre state escluse dai miei criteri di comportamento. Ho seguito questa donna che ora mi sta sonnecchiando accanto, che ha abbandonato una postazione domestica per assumere un ruolo che ancora non mi è ben chiaro.
Quello che è certo è che è riuscita a trasmettermi un desiderio di vendetta tardivo ma bruciante.
Sono qui perché lei mi ha chiesto di accompagnarla ad uccidere un uomo ed io non ho la minima intenzione, sicuramente neppure la capacità materiale, di uccidere un uomo, neppure uno come Ettore Taliercio, neppure ora che ho la certezza che sia stato lui a sparare a mia moglie trent'anni fa.
Eppure eccomi qui.
















QUATTRO

Tra la gente in attesa dei passeggeri  in arrivo da Houston si è fatto largo un frate e ci è venuto incontro.
Tutto mi sarei aspettato - anzi, in realtà un po’ me lo ero immaginato come una specie di cow-boy, il nostro uomo - ma non quest’omone calvo, con una gran barba che gli scende sul petto di un saio non pulitissimo.
Indossa sandali sui piedi nudi, nonostante faccia piuttosto freddo. Ci accoglie con un abbraccio vigoroso, parla un italiano corretto con un cospicuo accento americano.
Carica il nostro bagaglio su un carrello e ci precede fino ad un pick-up color sabbia, con le ruote coperte di fango secco.
Gli effetti del jet-lag si stanno facendo sentire. A parte i brevi assopimenti durante il volo transoceanico devo essere sveglio da almeno trentasei ore.
Qui è notte. Dall’Italia siamo partiti che era notte. Oppure no. Comincio a confondermi.
Il frate, che si chiama Bernardo, va a fermarsi di fronte ad un edificio basso, al centro di un’area recintata che mi pare uno sterminato parcheggio. Qui, un negro svogliato ci fa firmare una scheda e ci consegna le chiavi di un furgone Chevrolet a noleggio.
Bernardo dice “Seguitemi, siamo a due passi” e ride.
Fiorenza si mette alla guida dicendo che è abituata al cambio automatico.
A me pare di avere brevi allucinazioni, di intravedere figure nel buio, e la cosa curiosa è che tutto questo mi sembra gradevole.
Arriviamo dopo più di un’ora di viaggio, il che la dice lunga sull’idea di vicinanza che hanno da queste parti.
Il convento è strano.
Un edificio basso, ad un solo piano, a ferro di cavallo.
Un cortile centrale, lastricato e costellato di piccole aiole derelitte.
Una serie di porte numerate si affacciano direttamente sul cortile.
La struttura fiancheggia la strada, protetta da una cancellata un po’ sbilenca di maglia di ferro a rombi.
Crollo su un letto nella stanza che mi è stata assegnata e mi addormento vestito.
Quando bussano alla porta impiego del tempo a capire dove sono.
Di fronte a me una luce crepuscolare illumina una parete  sulla quale si distinguono disegni di una carta da parati sbiadita.
- Sono Fiorenza – dice una voce da fuori.
Mi trascino ad aprire, strizzando gli occhi.
- Hai dormito così? – chiede lei, indicando i miei abiti stropicciati.
- Una doccia. Dammi il tempo di fare una doccia - rispondo con voce cedevole. Lei ride, annuendo.
- Siamo in Texas ! – ha detto con allegria, come se fossimo qui per una vacanza.


















CINQUE

In effetti il convento non è un convento.
I frati cappuccini pare l’abbiano acquistato parecchi anni fa dal proprietario di un motel. E di un ex motel si tratta.
L’unico aspetto che lo differenzia dagli altri è che questo andrebbe affidato ai Beni Culturali, se qui esiste qualcosa del genere.
Risale sicuramente alla metà degli anni cinquanta e, da allora, mi pare che non sia cambiato nulla.
L’angolo cottura con una specie di piastra sospesa per friggerci il pane, il vecchio frigorifero che farebbe la gioia di qualsiasi cultore di modernariato in Italia, la moquette lisa a disegni geometrici, i letti, le tendine alle finestre, il divanetto scozzese. Tutto è apparentemente rimasto come allora. Incredibilmente ancora in funzione.
Bernardo lo gestisce insieme ad un altro frate più anziano, un franco canadese che si chiama padre Alain.
Organizzano ritiri spirituali ed incontri di preghiera. Sono solo loro due.
Vanno ad officiare nelle poche parrocchie cattoliche che ci sono qua attorno ma non disdegnano – mi dice Fiorenza -  di partecipare a riti di altre confessioni.
Li chiamano Revival.
Per stasera siamo invitati ad uno di questi revival.
Fiorenza ha allestito una gran prima colazione nel suo appartamentino, che è di fianco al mio. Mi fa notare che Bernardo ha stipato di generi alimentari i nostri frigoriferi, grandi come cabine telefoniche.
Era in Avanguardia Operaia.
Fiorenza sta parlando di lui. Ed è tramite suo che ha rintracciato Ettore Taliercio. E ora la storia diventa davvero paradossale.
Taliercio, per tutto il periodo della sua latitanza, pare abbia goduto della protezione di una certa parte del clero.
E’ qui da almeno cinque anni.
Pare che tenga un profilo basso, ma da quando è da queste parti c’è stato un incendio doloso in uno studio legale di avvocati ebrei a Galveston, è stato ammazzato un militante di colore dei Diritti Civili a San Antonio  ed è nato il BBC – Bowie Bible Camp – punto di riferimento per campeggiatori neonazisti, simpatizzanti del Klan e altra bella gente, sulle sponde del Colorado River che, mi dice, non è lontano.
Mi accomodo in questa storia, ambientata in luoghi che somigliano sempre di più a quelli di un film di cui ho visto almeno i “prossimamente”.
Fiorenza non sembra subire il fascino di questi nomi, che snocciola con indifferenza.
Ha detto  fiume Colorado come dire Gallarate. E se le circostanze ci spingessero fino al Rio Grande non darà segni d’emozione ? Probabilmente no.
Prosegue imperterrita nella composizione della cornice che inquadra Taliercio. Uno sconosciuto che mi sto sforzando di iniziare ad odiare. Perché finirà, visto il tipo, che se non lo ammazziamo noi sarà lui a farci fuori.
Ufficialmente – e qui viene il bello – si occupa delle faccende pratiche di un convento di Clarisse di clausura dalle parti di Marble Falls.
La superiora è cubana,  suo nonno faceva parte del governo di Batista.  Rappresenta l’ultima vestigia di un gruppo di suore che, in fuga da Cuba, erano approdate a Corpus Christi. Dove sono rimaste per anni.
E lì è stato mandato Taliercio, grazie alla mediazione di alcuni figli e nipoti di esuli anticastristi che gestiscono le formazioni paramilitari nell’area del golfo, dalla Florida al Texas.
Sognano di riconquistare Cuba, complottano da anni con il supporto del Governo Americano. Sono patetici e pericolosi. Taliercio deve trovarsi come un topo nel formaggio.
- Non so perché da Corpus Christi si siano spostate a Marble Falls. Bernardo dice che è per via dell’assenza di vocazioni. Troppe vecchie suore da accudire, che non hanno mai imparato una parola di inglese. Problemi economici. La superiora è piuttosto giovane ma come lei non sono rimaste che in due o tre.
Fiorenza sta raccontando come se non ci vedesse l’aspetto paradossale. Spalma con cura un pankake di sciroppo d’acero, ha appena spazzolato una ciotola di corn flakes. Mi osserva come in attesa di una mia reazione.
- Ma Bernardo sa ?…
- Cosa ?
- Quello che hai intenzione di fare.
- Quello che abbiamo, intenzione di fare !
Annuisco mio malgrado. Lei si accende una sigaretta ed ammette che Bernardo ignora il progetto di far fuori Taliercio.  L’ha convinto che la sua intenzione è quella di individuarlo, segnalarlo alle autorità e ottenere l’estradizione.
- Ma tu come lo conosci ?
- Bernardo ?
- Te l’ho detto, era in Avanguardia Operaia.
- Vabbé. Erano tanti. E poi tu eri in Lotta Continua.
Fiorenza emette uno sbuffo di fumo e ci riflette un po’ su.
- Stavamo insieme… - conclude.
Ripenso al frate gioviale che ho conosciuto ieri e cerco di immaginarmelo in altre vesti.
- Prima di mettermi con Chicco.
Fiorenza spegne la sigaretta con un gesto brusco.
Si alza e dice “Andiamo”.











SEI


Ha altre fotografie di Taliercio.
Me le passa sfilandole dalla borsa insieme ad una cartina geografica, senza smettere di guidare.
Dal nostro convento motel, che è dalle parti di Cedar Park, ci siamo immessi sulla 183 in direzione nord, su consiglio di Bernardo. Ha detto che era meglio che passare per Austin e prendere la 290 fino al bivio di Johnson City.
- A meno che abbiate voglia di vedere il luogo natio del vecchio  Lyndon B. ! - ha aggiunto ridendo.
Lyndon Johnson è nato lì attorno, in una fattoria sul Pedemales river, dalle parti di Stonewall.
- Chissenefrega - ha borbottato Fiorenza.
- E certo ! - ha concluso Bernardo.
A bordo sfoglio le fotografie.
Ci sono Taliercio e Notarianni che fanno il saluto romano.
E poi, all’improvviso, mi ritrovo faccia a faccia con Italo Sarno. Che guarda qualcosa fuori dall’immagine, con quel suo sguardo assente di batrace, accentuato dalle lenti da miope.
Ha il solito mezzo toscano in bocca.
A lui, forse sì, avrei sparato.
Lo avevo incrociato qualche volta, all’epoca, mentre non avevo mai visto né Taliercio né Notarianni.
La mia militanza era sporadica, certi aspetti di radicalismo integralista mi irritavano. Ero guardato dai compagni con una certa perplessità. Dagli Autonomi con sospetto. Il mio viatico era Paola. Lei ci credeva senza esitazioni.
- Cosa dice la cartina ? Il bivio è quello o è più avanti ?
La voce di Fiorenza Scolari ha cancellato un’immagine di mia moglie come non riaffiorava da anni. Ho il cuore in gola. Mi volto di scatto, con risentimento.
- Che bivio ? Cazzo, avvertimi prima, no!
Lei mi lancia un’occhiata di stupore mentre io fingo di concentrarmi nella consultazione della cartina.
Bernardo ci ha segnalato un bivio, direzione Bertram, che congiunge la 183 alla 281. Arrivati a Burnet ripiegheremo verso sud e, in vista del fiume Colorado, ci ritroveremo a Marble Falls. Un giro dell’oca.
Il nostro bivio è quello che abbiamo appena superato.
La strada è deserta. Probabilmente un’inversione di marcia qui è proibita, ma non c’è nessuno in vista.
Fiorenza ha accostato al margine ghiaioso e con un colpo di volante da fuggiasco passa sull’altra corsia, facendo stridere i pneumatici.
Non parliamo fino a Marble Falls. Probabilmente si sta chiedendo anche lei come abbiamo fatto a finire qui.
La cittadina ha la sua Main Street, i suoi sobborghi residenziali, il suo centro commerciale, solo che sembra tutto appartenere al set di un film ambientato a cavallo tra gli anni ’50 e i ‘60. Vecchi edifici di legno, giardini protetti da recinzioni basse, bandiere con la stella solitaria, una torre di tralicci con in cima una specie di enorme serbatoio con una scritta che da il benvenuto in città.
Ci fermiamo ad una passaggio a livello dietro ad un pick up gigantesco. Il merci che sferraglia via ci impiega un’eternità. E’ interminabile. Il treno più lungo che mi sia mai capitato di vedere.
Andiamo in banca e poi mangiamo un boccone.
Fiorenza parcheggia e scendiamo. Sono in America da almeno venti ore ma è la prima volta che ci cammino davvero. Prima non sono stati che aeroporti ed il motel dei Cappuccini, sospeso nel vuoto notturno.
Fa più freddo di quanto immaginassi.
Fiorenza si infila in una banca e io la seguo.
Si presentano immediatamente problemi con i travel’s cheques.  Mi sembra di capire che la cifra sia troppo alta. Lei tenta una trattativa ma quelli sono gentilmente irremovibili.
Usciamo ed io le dico di non preoccuparsi, che possiamo usare la mia carta di credito. Lei sembra non ascoltarmi neppure. Chiede informazioni. Ci indicano un’altra banca.
Ho la sensazione che le poche persone che incontriamo per strada ci osservino con curiosità. Ed è una sensazione che non mi piace.
Anche nella nuova banca ci sono problemi con i tagli dei travel’s cheques. Lei borbotta astiosamente qualcosa a proposito della sua banca in Italia.
Io provo a tornare sull’argomento carta di credito e lei dice, senza guardami, che le occorrono contanti.
In America.
Neppure questo mi piace.
Alla fine la trattativa sortisce un risultato, ma prima di cambiarle i travel’s l’impiegato estrae l’attrezzatura e Fiorenza è costretta a lasciare le sue impronte digitali.
Mi sembra una cosa incredibile. Di pessimo auspicio. Lei accenna un sorriso verso di me, mentre le ruotano i polpastrelli imbrattati d’inchiostro sugli appositi spazi di un cartoncino prestampato.
Appena siamo fuori, mentre si strofina le dita con un kleenex, dice “Adesso andiamo a mangiare un boccone”, e attraversa la Main Street.
Della donna incerta che ho avuto di fronte nella sala riunioni del mio studio non c’è più traccia. C’è invece la determinazione un po’ fredda della barricadera di vent’anni fa. Ha un passo elastico ma robusto.
Mi ritrovo a pensare a sua figlia, che mi ha mostrato in fotografia e di cui sembra andare particolarmente orgogliosa, che lavora a Lisbona.
Del marito non ha parlato mai. Però ci sarà stato, almeno per un certo periodo, in tutti questi anni, durante i quali io me ne sono stato appartato, ferocemente autoescluso.
Sono sempre andato fiero di non aver più dato spazio a quasi nulla dopo la morte di Paola, di esser stato inseguito, braccato dal mondo perché ci rientrassi, e di aver invece tenuto duro.
E adesso, guardando Fiorenza Scolari, con il fisico appesantito di una donna di mezza età e quest’aura da combattente che mi sembra di poter addirittura toccare, provo un rassegnato sentimento d’invidia, ho la sensazione di non aver fatto la cosa giusta. Per vent’anni.









SETTE

Il locale si chiama “Must be home”.
Le ragazze al bancone del self service indossano delle casacchine a righe bianche e rosse, una bustina inamidata appoggiata vezzosamente sulla testa e sono gentili, amichevoli.
Hanno denti perfetti, occhi azzurri, culi grossi.
Ci rifugiamo con i nostri vassoi in uno dei separè con i sedili di finto cuoio rossiccio.
Altri avventori mangiano piuttosto silenziosamente negli scompartimenti accanto al nostro.
La musica che esce da un juke-box è incredibile.
Sta suonando “Unchained Melody” degli Everly Brothers.
Le ragazze al bancone, la canzone, l’arredo, gli avventori.
Siamo nel bel mezzo di una puntata di Happy Days. Quella che non è mai andata in onda perché è troppo malinconica.
Fiorenza ha appetito e io anche.
La crema di broccoli e formaggio è squisita, e così pure il toast di pane di segale farcito. I cubetti di ghiaccio tintinnano nei bicchieroni di Coca-Cola.
Lei espone il piano tra un boccone e l’altro. Senza esitazioni, senza che mai io la interrompa.
Sono affascinato da quello che lei sta descrivendo, che mi vede protagonista di un avvenimento cui non ho nessuna intenzione di partecipare. Eppure sono qui. Ho varcato l’oceano. Sono finito in un posto assurdo in Texas, come se fossi d’accordo.
Che cosa mi sta succedendo ?
Le suore occupano un appezzamento di parecchi ettari in prossimità del lago Travis, che se non ho capito male non è un vero e proprio lago, ma uno di quei bacini artificiali costruiti per iniziativa del piano di risanamento nazionale, il New Deal, del presidente F.D. Roosevelt, dopo la grande crisi del 1929.
Sul fondo del lago, come su quello di un altro più a nord, il Buchanan, pare riposino agglomerati urbani con tanto di municipi, stazioni di servizio, chiese e drugstores. E anche questo mi suona un po' macabro, tenendo conto che adesso, sulle sponde, ferve una considerevole attività turistica.
Le Clarisse stanno piuttosto appartate. I proventi per l’amministrazione del convento derivano dall’allevamento di cavalli in miniatura di cui si prendono cura le suore più giovani.
L’allevamento è aperto al pubblico dei visitatori tutti i giorni, dalle 14.00 alle 18.00.
Fiorenza ha una piantina. Giurerei che l’ha tracciata Bernardo. Ci sono anche delle fotografie.
C’è la casa del custode, poco oltre l’arco d’ingresso in puro stile ranch, poi un lungo viale che piega a destra, tra paddocks recintati. 
Poco più avanti, da un lato ci sono due piccoli edifici: un prefabbricato che funge da ufficio e un altro dove vendono souvenirs.
Ancora più avanti ci sono le stalle e le rimesse. In fondo al viale il convento e la cappella.
Dietro il convento si aprono pascoli liberi che confinano con un boschetto. Sul limitare di quel boschetto c’è una casa mobile.
Lì abita Ettore Taliercio.
- Domani ci andiamo – dice Fiorenza.














OTTO

Mi sembra un’idea assurda. Se Taliercio è in giro da quelle parti ed è sempre sul chi va là, come suppongo stia uno nelle sue condizioni, finirà con l’individuarci subito.
Fiorenza dice di no.
Dice che per quanto riguarda lei, almeno, è difficile che la riconosca. Devo ammettere che ha ragione, ma per me ? Al contrario di lei io ho mantenuto, più o meno, lo stesso aspetto di allora, non sono ingrassato, non ho perso i capelli che non sono neppure grigi. Invecchio bene, malgrado tutto.
- Ho un piano. Non ti preoccupare – risponde lei, laconica.
Torniamo a Cedar Park. Fiorenza annuncia di avere un appuntamento. Io fingo di non incuriosirmi. Viaggiamo in silenzio. Lungo la 281 ci sono case isolate che sembrano uscite da un film ambientato negli anni della Depressione, con carcasse arrugginite di auto nei cortili e cani che abbaiano rauchi ai rari automezzi di passaggio.
Superiamo una stazione di servizio dove un vecchio decrepito, con cappello e stivali da cow-boy, armeggia con il tappo della benzina, mascherato dietro la targa reclinabile, senza riuscire a svitarlo.












NOVE

Al motel/convento, in effetti, c’è un tale in attesa. Seduto in una Mercury dai finestrini color bronzo.
Fiorenza mi dice di aspettarla nella sua stanza. Né Bernardo né Alain sembrano essere in circolazione.
Passando accanto alla Mercury lancio un’occhiata all’interno. Il tipo alla guida si intravede appena, ma mi pare abbia un aspetto latino.
Fiorenza apre la portiera del passeggero e si accomoda nell’auto.
Io vado a sedermi in camera sua, su una poltrona rivestita di felpa consunta con disegni di velieri. Aspetto senza osare avvicinarmi alla finestra.
Per la prima volta da quando ho accettato, come in trance, di partecipare a quest’assurda avventura, ho la certezza che non appena Fiorenza Scolari varcherà quella soglia che mi sta di fronte io mi chiamerò fuori. 
Mi farò immediatamente riaccompagnare a Houston. Salirò sul primo aereo che mi riporti in Europa, o anche solo a New York. Ma alla larga da qui.
Fiorenza entra. Appoggia un borsone sul tavolo. Sfoggia uno sguardo di allarmante compiacimento.
- Io torno a casa – dico.
Lei apre la cerniera del borsone e ne estrae quattro pistole.
Le denomina disponendole in bell’ordine sul tavolo.
- SIG 210 .9x21, Beretta 98 FS. 9x21, Colt Python .357 magnum, Smith & Wesson .45ACP.
Per un momento mi lascio incantare dall’imprevedibile competenza che sfoggia nell’appoggiarle una ad una.
- Mi hai sentito ? – chiedo poi, però, con stizza – io torno indietro. Tutta questa faccenda non ha senso.
Lei si limita per un momento ad osservare le armi con una specie di intima soddisfazione, poi va ad armeggiare dentro il suo zainetto da viaggio. Ne estrae una di quelle buste color senape in cui ho capito che ha catalogato una specie di archivio personale portatile.
Viene a fermarmisi di fronte. Io sono seduto, le mani aggrappate ai braccioli della poltrona. Furioso per il suo non ascoltarmi.
Lei mi getta la busta in grembo e torna alle sue pistole.
Vorrei urlare qualcosa, ma invece apro la busta.
Paola mi sorride da un’istantanea che non avevo mai visto.
Il mio ritmo cardiaco accelera vorticosamente. La mia rabbia si stempera in un sussulto di commozione incontrollabile. Sfoglio il resto del contenuto della busta: ritagli dai giornali d’allora, fotografie scattate durante assemblee e manifestazioni. La caratteristica comune a tutte quelle immagini è che in ognuna c’è anche mia moglie. In una, in particolare, ride tra altre donne. E’ senza ombra di dubbio la più carina e attraente. Indossa una salopette ed esibisce con evidente compiacimento la vistosa rotondità della sua gravidanza.
Poi ci sono Taliercio e Notarianni, durante un comizio di Almirante. Truci, ai piedi del palco, a braccia incrociate con quell’atteggiamento ridicolo e allarmante da pretoriani d’accatto. E improvvisamente Italo Sarno, ancora durante una manifestazione. 
E’ tra agenti in divisa e altri in borghese. Due di loro impugnano delle automatiche. Fissano un punto come se guardassero appena a lato della macchina fotografica che li ha inquadrati. L’immagine è sgranata. Deve essere stata scattata con un teleobbiettivo piuttosto potente, da molto lontano. Dal di qua della linea di difesa del nostro servizio d’ordine. 
Lui almeno si è fatto ammazzare senza che dovessimo occuparcene noi.
Mi viene da ridere a fare un pensiero del genere, ma la foto successiva il riso me lo mozza in gola.
- E questa come fai ad averla ? – chiedo col filo di voce che riesco ad emettere.
Paola è distesa su un tavolo di zinco, con il corpo coperto da un lenzuolo. Sporgono solo i piedi nudi e la testa. In una foto in bianco e nero.
Il viso è tumefatto. Gli occhi chiusi hanno le palpebre scurite.
Uno dei proiettili era entrato nella zona occipitale fuoriuscendo sotto la mandibola.
Fiorenza non risponde. Si sta cambiando.
Non dà peso alla mia presenza. Si muove rapidamente. Si libera dei mocassini, si sfila i jeans. Io fisso i suoi movimento senza capire. E’ in mutande. Ha gambe pallide, molto muscolose. Non riesco a fare a meno di fissare la zona del pube. Le mutandine modellano la fessura tra le grandi labbra. Mi vergogno del mio sguardo ma non riesco a distoglierlo. Fiorenza non si accorge di nulla. Infila un paio di collants del tipo da infermiera, un gonnellone grigio e dei sandali Birkenstock.
Prima di liberarsi del golf e della camicetta mi dà la schiena. Infilandosi una dolce vita bianca ruota un poco su se stessa, offrendomi la fugace visione dei seni, grossi, pallidi come le gambe, sorretti da un reggipetto marrone, imprevedibilmente vezzoso. Sulla dolce vita appoggia un cardigan di lana grigio, della stessa tonalità della gonna. Si appende al collo un cinghietto di cuoio dal quale penzola un Tau di legno, si appunta una piccola croce argentata sul bavero del cardigan, infila un paio di occhiali dalla montatura di metallo e un baschetto fatto a maglia. E alla fine mi guarda. Io sto pensando a Paola. Ai suo seni, dopo aver intravisto quelli di Fiorenza.
- Come sto ? – chiede.
- Sembri una Testimone di Geova – dico.
- Una suora ?
- Qualcosa del genere…
- Perfetto.
Apre un'anta dell’armadio e ne estrae un saio.
- Tu provati questo – dice.
- Ma nemmeno per sogno !
Lei mi lancia il saio e si osserva nello specchio.
- Domani dobbiamo esser lì per l’apertura ai visitatori. Ci mescoliamo a loro.
Ripone le pistole nella sacca e la infila sotto il letto. Poi viene verso di me, raccoglie foto e ritagli di giornale ripone il tutto nella busta color senape. Mi fissa per un lungo momento.
- In effetti ci posso andare anche da sola. Quando sono venuta   a cercarti ero convinta di no, ma adesso…Insomma, se vuoi puoi startene qui e aspettare, ti chiedo solo di non andartene prima che io abbia finito. Potrebbe essere rischioso. Per me e anche per te.
Io guardo verso il margine inferiore del letto.
- E comunque non è per domani – dice lei.
Mi alzo. Tolgo il giubbotto e infilo il saio, che ha un vago odore di muffa. Fiorenza mi porge un paio di Birkenstock uguali ai suoi.















DIECI

Non è che ci sia una folla di fronte all’edificio basso che funge da negozio di souvenirs, ma un numero sufficiente di persone tra le quali confondersi.
Cerco di individuare il punto dove c’è la casa mobile che ho visto disegnata sulla mappa, ma di qui si scorgono solo alberi. Grandi alberi secolari, ai piedi dei quali, qua e là, sono disposte panchine in stile Adirondack. Grosse cornacchie balzellano sui prati sotto quegli alberi. Laggiù si scorge la sommità del campanile della cappella del convento. La casa mobile non deve esserre lontana.
La suora che ci accompagna nel giro di visita è giovane e obesa. Non capisco se sia timida, scontrosa o addirittura un po’ tarda. Parla a voce bassa, con frasi smozzicate che sembra rivolgere più a se stessa che ai presenti. Ci precede con gli ancheggiamenti affaticati delle persone molto grasse. Peserà sicuramente più di cento chili e non credo che superi il metro e sessantacinque di altezza. Mi ha chiamato “padre”. Io ho risposto “pace e bene”, come da istruzioni di Fiorenza.
Ad un certo punto, uscendo dal capannone dove sono i boxes dei cavallini, ho avuto un tuffo al cuore.
A bordo di un piccolo John Deere a sei ruote è passato Taliercio.
L’ha visto anche Fiorenza, ed ha subito distolto lo sguardo. Io non ci sono riuscito. Ho osservato il suo allontanarsi. Lui non ha rivolto neppure un’occhiata al gruppo dei visitatori.
E’ invecchiato, calvo.
Ma mi è parso che lo sguardo conservasse la malevolenza sprezzante dei suoi anni giovanili. Mi chiedo come addirittura delle suore non si rendano conto con chi hanno a che fare. Osservo la nostra accompagnatrice mentre caracolla verso il convento, precedendoci.
In effetti, una così, non si accorgerebbe di nulla.
Ha accarezzato affettuosamente uno dei cavallini di cui si prende cura, ed è stato l’unico momento in cui ha sorriso. Ha disteso le labbra screpolate mettendo in mostra una dentatura malconcia borbottando qualche parolina all’orecchio dell’animale.
Tra l’altro credevo si trattasse di pony, ma in realtà sono ancora più piccoli, e non grassocci come i pony. Sono davvero cavallini in miniatura.
La suora obesa, che si chiama Rose, ha affermato con esemplare laconicità che è stata la fondatrice del convento, quello di Corpus Christi, morta ormai da più di un decennio, a selezionare la razza. Dopo alcuni minuti ha aggiunto che vengono collezionisti e acquirenti da tutto il paese. Ha detto proprio così: collezionisti. Di cavallini in miniatura.
Aldilà della cappella si apre un largo spiazzo di terra battuta circondato da alberi. Dove questi si infittiscono, sul limitare, c’è la casa mobile. Una specie di carrozzone oblungo, con grandi finestre ed una veranda in legno di fronte all’ingresso. Il John Deere è parcheggiato lì davanti. Guardo Fiorenza. Sta scattando fotografie. Trattengo il gesto istintivo che mi porterebbe a cercare di impedirglielo, ma lei intanto ha già smesso. Sorride.
Gli altri visitatori, come contagiati da un incontrollabile spirito di emulazione hanno preso anche loro a scattare fotografie in direzione della casa mobile. Se Taliercio, di là dentro, ci sta osservando, andrà un po’ in paranoia ?
Prima del commiato si fa un giro nel negozio di souvenirs. Fiorenza compra un rosario a grani color rubino, io un paio di cartoline che ritraggono la madre fondatrice. E’ alla guida di un  piccolo calesse trainato da uno dei suoi cavallini. Alla tonaca da Clarissa accompagna uno Stetson e stivali da cow-boy.














UNDICI

Fiorenza si è fermata nel parcheggio di Wal*Mart.
Poco oltre l’ingresso c’è un posto di sviluppo istantaneo dei rullini.
Io mi sono liberato del saio ma lei conserva il suo travestimento. Non si è tolta neppure il baschetto.
In attesa delle foto mi offre caffé e ciambelle.
Non parla ma pare tranquilla, soddisfatta direi.
Appena abbiamo lasciato il monastero io parevo una mitragliatrice. Ho parlato a raffica. Di Taliercio come se lo avessi visto solo io, dell’emozione dolente che mi aveva procurato. Lei ha sempre sorriso, tranquilla, senza dir nulla.
Dopo aver ritirato le fotografie ci siamo seduti nel furgone a sfogliarle.
- Ecco qua – dice lei, appoggiando il dito su alcune immagini. Io non   vedo nulla.
C’è una strada sterrata qua dietro – dice Fiorenza – costeggia un lungo tratto della rete di recinzione. -Vedi qua ?
In effetti qualcosa mi par di vedere.
- Bernardo lo aveva detto. C’è un punto che sarà a nemmeno una ventina di metri dalla casa mobile.
Io annuisco senza capire. Lei avvia il motore e si torna al motel.

















DODICI

Bernardo si è fermato su uno spiazzo antistante un edificio basso, festonato di luci come una fiera, che lo fanno sfavillare nell'oscurità di questo immenso parcheggio in mezzo al nulla.
- Ci siamo ! - ha esclamato sorridente, e siamo scesi tutti. Lui, Alain che non parla mai, Fiorenza e io.
L'interno è quello che, credo, da queste parti venga in mente alla gente quando pensa ad una chiesa.
La cosa più sorprendente è che è tutta moquettata.
L'altare, o quello che è, è addossato curiosamente ad una delle pareti lunghe di questo edificio rettangolare, insomma dove meno ti aspetteresti che fosse. Ai fianchi dell'altare si aprono due porticine dalle quali, in questo momento, stanno entrando e uscendo persone indaffaratissime. Sulla parete di fronte ci sono panche disposte a gradinata, come al circo.
Sulla parete breve di sinistra ci sono altri banchi, appena tre o quattro file, questi sì, di foggia chiesastica. Di fronte, un palco basso, su cui sono disposti un pianoforte, una batteria, un organo elettrico e su cui si stanno assiepando uomini e donne, per la metà bianchi e per la metà di colore, avvolti in tuniche di raso celeste con enormi colletti e polsini bianchi.
Bernardo sta salutando e abbracciando un sacco di gente. Alain fa altrettanto, direi con meno convinzione. Io e Fiorenza stiamo lì, e restituiamo i sorrisi che ci rivolgono.
- Questo è il famoso Revival - mormora lei.
- Interessante - rispondo.
Ci presentano un predicatore di colore che subito dopo si lancia al piano in un rythm 'n' blues indiavolato che parla di Dio e della sua benevolenza.
Entrano poi in scena con cadenze da scaletta una nera obesa, con elaboratissimo chignon, che si accomoda non senza difficoltà alle tastiere, un batterista, anche lui nero, che potrebbe avere anche più di settant'anni, con un sorriso serafico e bonario e un fisico ossuto e fragile, e poi un bianco sulla trentina, con capelli lunghi crespi e, a tracolla, un basso Fender screpolato.
Sono bravissimi. Così pure il coro, che tuona all'improvviso, facendomi venire la pelle d'oca, diretto da una bianca con una cotonatura laccata di capelli neri immobili, nonostante lei si dimeni parecchio. Un elmo. A modo suo bella. Di quelle bellezze passate di moda alla fine degli anni cinquanta.
Credevo che mi sarei annoiato ed invece la funzione mi avvince. Mi irrita tutto questo sbraitare l'amore di Gesù, ma lo fanno con una teatralità irresistibile, da professionisti.
Sui banchi del lato corto Bernardo si agita, facendo svolazzare la tonaca marrone, col braccio alzato e il pugno chiuso, urlando Jesus a tempo, sulle cadenze dettate dal coro. Molti lo imitano.
Guardo Fiorenza. Anche lei l'ha visto. Lo osserva con un mezzo sorriso di condiscendenza.
- E' sempre stato un po' ingenuo. Un sentimentale. Però affidabile. Io esco a fumare. Ci vediamo alla fine.
Quando poi siamo già a bordo del furgone e Bernardo, giulivo e sudato, sta avviando il motore, ci raggiunge un tipo che avevo notato all'ingresso, che stava là come un controllore.
Ha il viso butterato, i capelli unti, e passandogli accanto avevo sentito che puzzava.
Bernardo abbassa il finestrino. Il tipo gli parla con una certa concitazione, sibilando sottovoce tra i vuoti dei denti mancanti. Bernardo sembra tranquillizzarlo.
- C'è gente a cui non va che si mescolino razze, religioni come facciamo noi - dice dopo che ci siamo avviati.
- Harry è un alcoolista. Si è inventato questo ruolo di protettore. E' un buon diavolo, e poi conosce un sacco di gente, gente strana, del sottobosco, non so se mi spiego. Una volta è riuscito a sventare una specie di aggressione da parte di un gruppo di fanatici episcopali o battisti o non so più cosa. Davvero un buon diavolo, sì, si.



















TREDICI


- E' per stasera.
Fiorenza me lo dice senza guardarmi, fumando, seduta su una di queste seggiole che stanno accanto agli ingressi delle stanze del motel, al riparo di una pergola che corre tutt'attorno.
- Io non ho mai sparato - mormoro.
- Non è che tutti hanno ammazzato qualcuno - risponde.
- No. Voglio dire che non ho mai preso in mano una pistola in vita mia !
- Punta come hai visto fare nei films. Un po' più in basso di quello che credi sia giusto. Per il rinculo. E non chiudere gli occhi. Per il resto ci sono io, sta tranquillo.
Un'insegnante di matematica di un istituto per geometri.
Come ho potuto seguirla fin qui ?
Per Paola ? Dopo tutti questi anni ?
Ho passato una giornata d'inferno malgrado le gocce di Lexotan che Fiorenza mi ha provvidenzialmente somministrato.
Siamo partiti col buio. La borsa con le armi sul sedile dietro di noi. Vestiti di scuro. Con il pensiero fisso - almeno io - all'assurdità di quello che ci preparavamo a fare.
A un certo punto sono sbottato.
- Senti, lasciamo perdere. E' una follia !
Fiorenza ha accostato al bordo sterrato della maledetta 281, su cui non incrociamo un'auto da Burnet. Ha spento i fari. Fuori il buio è totale.
- Scendi - ha detto.
- Ma sei scema ?
- Scendi. Io non ho tempo di riportarti indietro. Arrangiati. Io vado.
Ho incrociato le braccia e ho sussurrato
- Metti in moto.
Ero furioso e impotente. Volevo farla finita in qualche modo, pur di uscirne. Credo che lei l'avesse previsto. E' ripartita senza guardarmi.
La rete metallica che corre lungo il confine posteriore della proprietà delle Clarisse sarà alta più o meno un metro e mezzo. Non capisco perchè Fiorenza intenda usare le cesoie che ha preso dal pianale del baule.
Come fa ad averle ? Quando se le è procurate ?
E glielo dico.
 - Possiamo scavalcare - dico.
Lei un po' ansima nello sforzo di tagliare la griglia, ma non mi ha chiesto aiuto.
- Adesso sì, ma quando veniamo via, forse...sarà meglio un'uscita comoda e veloce.
Ha fatto un lavoro preciso, senza sbavature, geometrico. Ha liberato lo spazio tra due montanti.
Il furgone l'abbiamo parcheggiato poco più avanti, al riparo di un vecchio capanno d'assi lungo la strada.
Ci torniamo.
Lei posa le cesoie e sfila da uno zainetto due berretti di lana neri, uno per lei e uno per me. Lo indosso senza fiatare. Fiorenza si ficca una torcia in una tasca del gilet e apre la cerniera della borsa delle pistole.
Ce ne sono quattro. A me ne passa una a tamburo, se ne infila due nella cintura e una la tiene in mano.
- Andiamo - dice.
Le chiedo sottovoce, anche se lì attorno non c'è anima viva per chissà quanto spazio, perchè mi abbia dato una sola pistola.
- Mi hai detto che non sai sparare. In ogni caso vedremo. Se occorrerà te ne passerò un'altra.
Fa una risatina inaspettata.
- Guarda che non è la sfida all'O.K. Corral. Rilassati.
Torna subito seria.
- D'ora in avanti fine della conversazione. Non avere paura ma stai all'erta. Come ti senti ?
- Nervoso.
- Devi cercare di restare calmo. Quando sarà il momento ti dirò cosa fare. Andrà tutto bene, O.K.?
- Bene... - rispondo senza convinzione.
E si va.
Il boschetto si attraversa facilmente. Gli alberi sono radi e piuttosto esili. La luce lunare è più che sufficiente. Poi ecco la casa.
- Cazzo ! Non è solo ! - sussurra Fiorenza.
Sul fronte posteriore la casa mobile ha una parete a vetri, e al di là di questi c'è una specie di soggiorno.
Da lì ora arrivano anche dei suoni. Voci, musica. Tex-mex.
Di fronte a noi un'altra rete metallica. Non possiamo avvicinarci di più.
- E questa che cazzo è ? - Fiorenza sibila furiosa.
Seguiamo cautamente il perimetro delimitato dalla rete. Racchiude un ampio spazio posteriore della casa mobile. Non si capisce che funzione abbia.
- Cani ? - ipotizzo.
- Ci avrebbero già sentiti da un pezzo. S arebbero tutti qui ad avventarsi contro la rete con la bava alla bocca. No...
- Magari un orto, sai, le suore...- sussurro.
- Dobbiamo arrivare più vicino. Torniamo a prendere le cesoie - dice lei.
- Eh, no ! Cazzo ! - mi sposto sulla parte più lontana dalla vetrata ed inizio a scuotere la rete. Questa oscilla, è fissata a paletti poco profondi. Fiorenza cerca di fermarmi.
- Ma sei matto ? Cosa credi di fare ?
- La tiro giù ! Non faccio avanti e indietro per tutta la notte in quel cazzo di boschetto !
Un rumore improvviso davanti a noi ci zittisce. Una specie di fruscio, seguito da un batter sul terreno, ma non sono passi.
- Cos'era ? - chiedo.
- Non so - risponde lei.
Intanto la rete ha ceduto, si è quasi adagiata a terra per un tratto che ci permette di passarci sopra.
- C'è qualcosa qui dentro - dico, e si capisce che ho paura.
- Non ha ringhiato, non ha latrato, non ha muggito. Sarà uno dei cavallini delle suore, più spaventato di noi.
L'ipotesi è plausibile. La seguo.
Avanziamo con cautela lungo la rete rimasta in piedi fino ad avere la vetrata di fronte, poi iniziamo ad avvicinarci, acquattati.
Là dentro sono in quattro.
I due di cui vediamo i lineamenti sono inequivocabilmente latino-americani. Di quelli che ci danno le spalle uno deve essere Taliercio.
Siedono su grosse poltrone imbottite. Accanto a loro, incongruo, un inginocchiatoio. Un omaggio delle suore, sicuramente.
Tra noi e la vetrata adesso ci saranno una decina di metri. Non possiamo avvicinarci di più senza rischiare di essere visti.
- Si alzerà prima o poi, no ? - sussurra Fiorenza.
Io annuisco.
Saggio l'impugnatura del revolver che mi sono infilato nella cintura. Il calcio mi preme fastidiosamente contro lo stomaco.
- Dovevamo andare all'ingresso, bussare e quando veniva ad aprire, pam, pam. - mormoro. Non so cosa mi stia prendendo. Una specie di smania.
Fiorenza scuote la testa.
- Sì, nel cuore della notte...Ma con chi credi di avere a che fare ? Questi sono sempre in campana. O li becchi di sorpresa o niente. Sta calmo e aspetta...
Sto per accettare il consiglio quando percepisco un movimento sulla mia sinistra. E' simile a quello di prima, come uno scuotimento frusciante. Mi volto e dal buio compare quest'occhio spalancato che fluttua in cima ad un corpo, un collo, non so.
Mi prende un accidente. Non esistono serpenti che si possano ergere a quell'altezza, non esistono serpenti con quegli occhi, mi dico.
E' un collo. Adesso ruota, protendendosi verso di me. Tra gli occhi ha un becco.
Cazzo, è uno struzzo.
Fiorenza lo vede solo ora e lancia un urlo.
Lo struzzo reagisce di scatto e frulla via nel buio, urtando qualcosa, qualcuno che era dietro di lui, ancora più guardingo, e che si allontana con una specie di galoppo leggero.
Un cavallino delle suore ?
Intanto, però, i quattro hanno sentito.
I due che ci danno le spalle si sporgono oltre gli schienali delle poltrone a scrutare il buio, verso di noi.
Eccolo Taliercio. Dice qualcosa che noi non possiamo sentire, vediamo le sue labbra muoversi al di là dei vetri. E gli altri ridono. I latino-americani soprattutto.
Lui si alza e si sposta fuori dalla nostra vista.
Ma tutto questo lo realizzo dopo. Adesso sono pietrificato, e Fiorenza più di me.
Il quarto uomo non ride. Ci fissa, e anche se sappiamo che non ci può vedere ci fa sentire scoperti. Quegli occhi senz'anima, stupidi e pericolosi.
Italo Sarno.
- Hai detto che era morto !
Fiorenza non risponde. Mentre alza il braccio improvvisamente si accende una luce che illumina il recinto.
C'è una porta di fianco alla vetrata. Lo struzzo è lì accanto. Un cervo gli zampetta attorno. E' tutto assurdo. poi la porta si apre e nel vano compare Taliercio. Ci vede subito. Fiorenza spara a raffica verso di lui.
E io contro la vetrata. Non a raffica.
Il grilletto mi sembra durissimo. Devo impugnare l'arma a due mani.
La vetrata va in frantumi. Esaurisco i sei colpi in un tempo che mi sembra fulmineo ed eterno allo stesso tempo.
Un frastuono spaventoso ed eccitante.
Poi silenzio.
Fiorenza impugna una seconda pistola.
Giunge improvviso il rumore di un'auto che si mette in moto rabbiosamente.  Uno stridere di pneumatici. L'auto che si allontana aldilà della casa mobile.
- L'ho preso. Devo averlo preso ! - mormora Fiorenza. Ha l'aria stravolta.
Io fisso il soggiorno. Un corpo è riverso sull'inginocchiatoio.
Ci avviciniamo guardinghi. Sono terrorizzato. Non ho mai visto un morto ammazzato, se non nei film, ma capisco subito che questo lo è. Vedo per la prima volta quella fissità fotografica, quell'immobilità scomposta di oggetto inanimato.
- L'hai preso - constata Fiorenza.
- Ma chi ?
- Non so, sembra messicano, qualcosa del genere.
- Ho ammazzato uno sconosciuto, uno che non c'entrava niente !
- Se era qui, con loro, c'entrava eccome, in qualche modo, non ti crucciare. Sarà stato uno di quei trafficanti di gente, droga, organi, i loro affari.
- Ma lo hai visto Sarno, si ?
- Sì...
- Avevi detti che era morto. Un conflitto a fuoco con la Polizia.
- Era scritto sui giornali...dobbiamo andare via !
Si avvicina alla porta sulla quale era apparso Taliercio.
La seguo. Ci sono tracce insanguinate sulla parete.
- Allora l'ho preso - dice lei, e entra.
- Cosa fai ?
- Devo vedere se è qui.
- Vieni via !
Ma lei è già sparita.
Resto lì, con una pistola scarica in mano ad osservare lo struzzo e il cervo, che osservano me.
Ho bisogno di stare in pace, penso.
Ridicolo.
Dopo un'eternità Fiorenza ricompare.
- In casa non c'è. Se lo sono portati via, ma c'è un sacco di sangue fino all'ingresso di fronte. L'ho preso.
Lontanissimo arriva il suono di una sirena.
- Via adesso !
dice lei, e corre.
La seguo attraverso il boschetto, inciampo, non mi oriento.
L'essere stato alla luce finora mi confonde, mi sembra d'essere in un buio totale
- Accendi quel cazzo di pila ! - impreco.
Lei lo fa.
La spegne quando arriviamo al varco nel recinto.
Siamo già a bordo del furgone quando sentiamo spegnersi il suono delle sirene, laggiù, in direzione della casa mobile.
Lei guida tranquilla.
- Italo Sarno è vivo, ed è qui. E' pazzesco. devo subito telefonare in Italia.
- No ! Noi dobbiamo tornarci, in Italia, non telefonare !
- Stai calmo. Arriviamo da Bernardo e facciamo il punto.
- Io domani parto. E questo è quanto.
Getto il revolver, che ho impugnato spasmodicamente fino a questo momento, a terra, tra i miei piedi.
Mi ha chiesto di accompagnarla ad uccidere un uomo, beh, l'ho fatto.
Uno l'ho ucciso. E chissà chi era.





















QUATTORDICI

Fiorenza ha giudicato inevitabile raccontare tutto a Bernardo, e forse ha avuto ragione.
Mi hanno lasciato dormire. Ho fatto una tirata di dodici ore così profonda che al risveglio, per un attimo, credevo di essere a casa mia.
La realtà dei fatti mi è piombata addosso subito e mi sono fatto prendere dal panico.
Adesso siamo in quello che Bernardo chiama il suo ufficio. Tavoli robusti, sedie impagliate variopinte, con disegni infantili e scritte in spagnolo sulle liste dello schienale, libri, riviste, pubblicazioni sparpagliate un po' ovunque. Foto incorniciate alla pareti: Martin Luther King, Madre Teresa, Emma Goldman, Bakunin, altri che non riconosco.
Bernardo ha già fatto un primo controllo al computer. Lui e Fiorenza hanno ascoltato i notiziari mentre io ancora dormivo.
L'uomo che ho ucciso era uno di quelli che chiamano "polleros", un contrabbandiere di esseri umani sulla frontiera messicana.
I primi comunicati hanno parlato sbrigativamente di un regolamento di conti. Non hanno fatto accenni al convento delle suore.
- La Polizia di qui accomoderà la cosa senza troppe indagini. Per loro è solo un chicano di meno, e se non aveva troppi carichi pendenti o legami in alto, per cui ci dovessero mettere il naso i federali, la cosa si smorzerà in pochi giorni.
Bernardo non ha dubbi, ha soltanto insistito molto nell'assicurarsi che fossimo certi che nessuno abbia visto noi e il furgone.
- Ci sono i bossoli sparpagliati in quel cazzo di recinto...- mormora Fiorenza.
- Da quelli non risaliranno a nulla. Harry le va a prendere in Nebraska.
Da non crederci. Allora Bernardo sapeva tutto ? Ma non importa.
- Quello che importa a me - dico - è fissare il primo volo di ritorno utile e chiudere questa storia assurda.
- Sì, probabilmente ha ragione.
La reazione di Bernardo è inaspettata. Fiorenza tenta di replicare.
- Ma non è il caso di aspettare almeno...
Bernardo la interrompe.
- Se ci saranno novità vi farò sapere, ma è davvero meglio che partiate.
- Fai pure sapere a lei, di me dimenticati - dico.
Lui sorride mesto.
- Va bene...- risponde.
L'abbiamo chiusa così.
Ventiquattr'ore dopo ero in studio, con Fabio e Vittorio che facevano finta di niente, dissimulando faticosamente la loro curiosità, e Anita che mi riservava sorrisi come se sapesse tutta la storia, per filo e per segno.
Dicono che chiunque uccida un proprio simile da questa esperienza esca trasformato, forse mutilato, non so.
Quello che più mi turba è che io sono sempre lo stesso. Senza sensi di colpa, senza incubi, eppure credo di essere una brava persona.
Ci penso spesso, certo, ma tutto quello che ricordo è la durezza di quel grilletto, che chissà perché avevo immaginato morbido, il panico innestato dal timore di non poter far fuoco, e poi l'inatteso fragore brutale degli spari e, soprattutto, il pensiero ossessivo di doverli uccidere tutti, perché se no avrebbero ucciso me.
In ogni caso ho ripreso la mia vita di sempre.
Con Fiorenza ci siamo salutati all'aeroporto.
Lei mi ha abbracciato.
- Mi dispiace - ha detto.
- Fa niente. Succede - ho risposto io, e l'ho fatta ridere. Non la smetteva più.
- Suerte, amigo - mi ha salutato così, come tra pistoleri.




















QUINDICI

Sono trascorsi un paio di mesi.
Un venerdì pomeriggio Anita mi ha chiamato per annunciarmi che c'era la signora Scolari per me.
Mi è corso un brivido lungo la schiena, ho provato un imprevedibile afflato di nausea.
- Dille che sono già andato via - ho risposto.
- Non posso - ha detto Anita.
- Come, non puoi ?
- E' qui davanti a me.
- Arrivo.
Ha un aspetto provato. Le ricordavo un atteggiamento di distacco severo, ma adesso mi sembra un poco afflosciata.
Andiamo in saletta riunioni.
- Bernardo è morto - dice subito.
- Bernardo ? Come ?
- Lo hanno ammazzato.
Io taccio. Una vertigine di fantasmi inizia a ballarmi attorno.
- Lo hanno investito nel parcheggio della chiesa del Revival.
- Ah, un incidente - dico, sollevato.
- No, lo hanno proprio mirato. Schiacciato contro il suo furgone. E poi sono scappati. Un fuoristrada senza targa.
Non trovo parole con cui rispondere.
- Sono loro, Piero.
- Come puoi dirlo ?
- E chi altri ?
Io alzo le spalle.
- Se sono arrivati a lui arriveranno anche a noi.
Era un'idea che mi aveva sfiorato ma che avrei preferito non sentir esternare a voce alta.
- No, non qui, non oggi. Le cose sono cambiate - tento di replicare.
- Se fosse stato per Taliercio non mi preoccuperei. Dopo quella notte si sarebbe limitato a correre a farsi nascondere da qualche altra parte, sempre che sia ancora vivo, ma con Sarno è tutto un altro paio di maniche.
- Perché dici se è ancora vivo ?
- Mi sono allenata al tiro per mesi. Sono sicura di averlo centrato un paio di volte quella notte. Se lo sono portato via nel caso di doverlo far sparire con calma.
- E perché non anche quell'altro, allora ?
- Quell'altro non contava. Questa è una storia che ha agganci in alto. Come credi che avrebbe reagito l'opinione pubblica scoprendo un neofascista evaso, accusato di omicidio, ospite in un convento di suore ?
- In ogni caso, se è come dici tu, dov'è il problema ?
- Sarno, è il problema. E' diabolico, ed è uno psicopatico. Ricordi il testimone al processo di Paola e Chicco ?
Scuoto la testa con un gesto di diniego.
- Il pensionato ! Quello che portava a passeggio il cane e diceva di aver visto tre figure accanto all'auto di Chicco. Che quando erano scappate una di loro zoppicava.
- E allora ?
- Sarno, dopo il volo che Chicco gli aveva fatto fare dalla finestra, ha sempre zoppicato. Poi hanno beccato Taliercio e Notarianni e quelli hanno confessato, negando la presenza di un terzo uomo. Ho parlato con un compagno che allora aveva coordinato l'inchiesta parallela del Movimento. Avevano contattato il pensionato e lui aveva insistito nella sua versione. Era un vecchietto stizzoso, furibondo perché al processo non si era tenuto sufficiente conto della sua testimonianza, e sai che fine ha fatto ? Steso sulle strisce pedonali, lui e il cane, una sera di nebbia, da un'auto pirata.
- Cazzo...
- Questo è Sarno. Ho raccontato al compagno solo una piccola parte della nostra avventura, per dirgli che ho visto Sarno vivo, e lui non si è stupito più di tanto. In Colombia, se si è legati al cartello giusto, si può anche passare per morti, se fa comodo.
- Vabbè, e allora ?
- Non so. Voglio dire, se è arrivato a Bernardo...
- Erano là, nello stesso stato, legati in qualche modo alla stessa struttura, no ?
Fiorenza mi guarda perplessa.
- La Chiesa, no ?
- Ah !...beh, si. In realtà Bernardo si era dato il tormento per un bel pezzo per questa mia idea. Lui era più incline a denunciare la presenza di Taliercio alle autorità. Poi è successo qualcosa. Gli è arrivata una segnalazione da Roma. Insomma ha capito che Taliercio era coperto. E quello che più lo addolorava era che la copertura arrivava dalla Chiesa. C'è un certo monsignor Benoffi. E' lui che si occupa di queste storie.
- Un monsignore ?
- Già.
- Che cos'è esattamente un monsignore ? Un cardinale ? Cosa ?
- E che ne so !
- E perché lo fa ?
- Ma non lo so ! Sarà fascista anche lui ! Oppure un anticomunista isterico, non è che mancano in questo periodo, no ? La Chiesa è sempre stata da quella parte, con Mussolini, Franco, Pinochet, Videla. In prima fila sul palco.
- Beh, c'era la teologia della Liberazione in America Latina...
Fiorenza batte un pugno sul tavolo delle riunioni.
- Sai quanti giorni quel cazzo di papa polacco ha lasciato in attesa il cardinale Romero, rifiutandogli udienza e lasciandolo tornare a casa con tutta la sua bella documentazione per farsi sparare sull'altare ?
Fiorenza è paonazza.
- E sai quanto gli ci è voluto invece per ricevere e benedire Fujimori che ancora non si era pulito le mani dal sangue dei ragazzini di Tupac Amaru che aveva fatto ammazzare dalle squadre speciali ?
- Senti, questa discussione non ha senso. Io non credo che sia così grossa come la vedi tu.
- Ah ! Tu non credi ! E Bernardo ?
- Ma chi lo sa. Ci saranno stati altri balordi come quell'Harry attorno a lui, non è detto che...
Fiorenza si alza.
- Sarno è protetto da un alto prelato. E' pazzo, sadico e vendicativo. Se vuole venire qui e fotterci lo agevoleranno.
- Ma dai !
- Sono le stesse persone che non hanno trovato niente da ridire sul fatto che lui sparasse in faccia ad una ragazza di vent'anni incinta !
Ha assestato la sua randellata sul nervo scoperto.
Mi ha mozzato il respiro. Riesco a malapena ad articolare.
- E cosa mai potremmo fare ?
- Giocare d'anticipo.
Guardo Fiorenza senza capire. Sul suo viso si è steso un velo di placidità improvvisa, che somiglia ad un sorriso senza esserlo. Poi capisco.
- Tu sei pazza ! Ma nemmeno per sogno !
- Gli amici che mi aiutano hanno individuato un paio di posti dove potrebbero stare sotto copertura. Sempre roba legata alla Chiesa.
- Non se ne parla nemmeno, almeno per me.
- Questa volta non saremmo soli...
- E chissenefrega ! Basta così !
- Ti sto dicendo che voglio andare a chiudere un conto con due che hanno ammazzato tua moglie e tuo figlio, perdio ! Che a un'ora di viaggio da qui c'è uno che tutte le mattine prende un cazzo di cialda da pasticceria e dice " Il corpo di Cristo" e la caccia in bocca a dei deficienti superstiziosi, ed è la stessa persona che sta aiutando quei due ! E tu cosa mi dici ? Che vuoi stare qui a fare soldi con i tuoi filmetti del cazzo ? Di cosa hai paura ? Di morire ? Cosa ti fa credere di essere vivo ?
Le ultime frasi le ha pronunciate a voce alta, stridula. Le faccio segno di abbassare il tono. Lei sbuffa e distoglie lo sguardo.
- Ma perché vuoi che sia della partita ? Hai visto che non sono il tipo. Se volete un sostegno sono disposto a darvelo, di qualsiasi genere, ma non sono un killer, non ho la stoffa e nemmeno le palle, dai !
- E' una questione di principio. Siamo rimasti io e te. Solo noi due. Glielo dobbiamo. E lo possiamo fare.
Sono senza parole, le sue mi hanno insinuato il sospetto che  sia vero quello che pensa. Devo prendere le distanze.
- Cosa c'entrano le ostie ? - chiedo.
- C'entrano eccome ! Senza quel monsignor Benoffi cadrebbero un sacco di protezioni. Si sentirebbero meno sicuri.
- Ma come è possibile ? Voglio dire...è tutto così...
Non so cosa mi stia prendendo. E' come se all'improvviso il peso di tutte le ingiustizie del mondo si stia manifestando a deridere la mia impotenza.
Senza preavviso e senza che potessi far nulla per impedirlo sono scoppiato in singhiozzi. Mentre piango mi chiedo cosa mi stia succedendo e ho paura di questa mia reazione. Dietro il velo delle lacrime intravedo Fiorenza di fronte a me, immobile.
- Piangi. Va bene così. Butta fuori. - ha detto ad un certo punto, ed io mi sono sentito sollevato. Contento del mio dolore e del mio riuscire a manifestarlo, senza imbarazzo, senza remore.
Lei ha allungato una mano sul tavolo e l'ha appoggiata sulla mia. Io mi ci sono aggrappato.
- Va bene - ho balbettato con voce rotta, come un bambino.
- Lo so. - ha risposto lei.


















SEDICI

Monsignor Benoffi veste in borghese ma è più prete che mai nei gesti, nella bonomia altezzosa. E' quasi caricaturale. Corpulento, con un testone tondo e calvo e il collo grasso che deborda dal colletto.
Non so se davvero distribuisca particole come dice Fiorenza. Ha un ufficio in un palazzo di proprietà dell'arcidiocesi. Si sposta su una berlina con autista. Offre l'impressione di non dover rendere conto a nessuno di quello che fa.
Fiorenza ha un dossier su di lui, che mi ha fatto leggere.
E' poco più vecchio di me, anche se nelle foto che lo ritraggono dimostra molti più anni. Ha pubblicato dei saggi. Tiene conferenze. Ha seguito. Pare che ci sia ancora una consistente frangia di alta borghesia ansiosa d'esser messa in guardia dal complotto demoplutogiudaico, compiaciuta dal sentirgli affermare - ci sono passi riportati dei suoi discorsi - "...c' è da rimpiangere che la lingua franca non sia il tedesco, quello di Goethe,  Schiller, Hegel, Nietsche, invece che la barbarie di questo idioma anglofono, imbastardito dall'influsso di mille borborigmi negroidi, che si ostinato a chiamare inglese. Purtroppo la Storia è andata com'è andata (applausi) ".
Il dossier è molto dettagliato. Descrive abitudini, inclinazioni, storia personale.
E' un uomo metodico, apparentemente senza lati oscuri. Vive ospite in un convento di Carmelitane fuori città, ma dispone anche di un piccolo appartamento in centro, non lontano dal suo studio. Ci si ferma a dormire un paio di volte a settimana. Sempre solo. Viaggia parecchio.
Tutta questa documentazione è frutto di un lavoro di equipe, è evidente. Non può averla raccolta Fiorenza da sola. Ma lei non ne vuole parlare. Quando indago un po', cambia argomento.
La certezza che ci sia una squadra, e anche molto efficiente, ce l'ho quando mi fa ascoltare delle registrazioni telefoniche. Non mi dice né chi né come, ma hanno intercettato la linea del suo ufficio.
Monsignor Benoffi ha una vocetta che contrasta con l'immagine che ho di lui, desunta dalle fotografie, quella di un uomo sovrappeso, magari un po' flaccido ma corpulento.
Le registrazioni non hanno nulla di compromettente. Accordi per un ciclo di conferenze, sue mansioni riferite alla curia, un programma di raccolta fondi per un'iniziativa mariana, tutta roba così.
Chiedere a Fiorenza il perché di tutto questo sforzo di indagine nei confronti di Benoffi quando gli assassini veri sono liberi, negli Stati Uniti, non porta a nulla.
- Meno sai e meglio è - questa, in genere, la sua risposta.
- Non è che non ci fidiamo di te, figurati - mi ha detto un giorno - Dopo il nostro tour in Texas, poi, ci mancherebbe. Ma Benoffi è il ragno al centro della tela. A noi interessano Sarno e Taliercio  ma ce n'è un'altra mezza dozzina che lui ha messo al sicuro. Sono stati rintracciati quasi tutti. Ne manca uno solo. Quando saremo al dunque chiuderemo con Benoffi.
Io cerco di continuare le mie giornate in agenzia anche se è difficile. In realtà non faccio che attendere, persino di notte sogno delle strane attese, in luoghi angusti, di qualcosa di oscuro che viene rinviato continuamente. Di giorno seguo i lavori di produzione con un'apprensione che fa a pugni con la mia abituale imperturbabilità.




















DICIASSETTE


Trascorre un altro mese. Interminabile.
Da quando ho accettato l'idea di tornare là a chiudere la partita, anche se l'ho fatto con consapevolezza solo approssimata, non riesco a pensare ad altro.
Vorrei che fosse subito.
Attendo perennemente che squilli il telefono e Fiorenza mi dica "si va".
E invece sono io che devo cercarla, senza quasi mai riuscire a parlare con lei.
Quelle rare volte che la trovo in casa, o che non ha il cellulare spento, è laconica, sbrigativa. Ho il sospetto che abbia un altro recapito telefonico di cui non mi ha dato il numero.
Detesto essere tenuto all'oscuro di tutti i progetti che lei e tutti quegli altri che non so chi siano stanno elaborando. Ho ucciso un uomo per loro, mi dico.
Avrei diritto a maggior considerazione, credo. E poi mi rendo conto che non l'ho fatto per loro. L'ho fatto per me, magari sollecitati da loro, questo sì, ma per me. E ho di nuovo fallito.
Ho accettato tardivamente di vendicare la morte di Paola pur non avendo nella mia natura nessuna inclinazione alla vendetta. In realtà non ce l'ho neppure al perdono. Sono un miserabile senza carattere, tutto qui.
Il telefono di Fiorenza è sempre libero, senza neppure l'opzione di una segreteria. Sono furioso, frustrato, impotente. Trascuro il lavoro. La tentazione della bottiglia, che mai avrei creduto si sarebbe ripresentata, riaffiora sinistramente irresistibile.
In studio cerco di mascherare questo turbine di stati d'animo, ma non sono sicuro di riuscirci sempre.
Alla fine mi decido e vado ad appostarmi di fronte allo stabile dove lei mi aveva dato l'appuntamento la prima sera.
Sto lì per un bel po', rannicchiato in macchina. Scruto attraverso il parabrezza i piani della casa, cercando di immaginare quale sia il suo appartamento. Poi, all'improvviso, vengo colto da una specie di folgorazione. Quella sera, quando siamo andati in pizzeria, io sono arrivato qui e lei era già sul marciapiede, ad aspettarmi.
Scendo. Attraverso la strada e controllo minuziosamente, ripetendo l'operazione più volte, i cognomi sui campanelli del citofono. Nessuno Scolari. C'è l'indicazione di una portineria, ma siamo fuori orario.
Mi rassegno ad andarmene. Una parte di me ancora non vuole accettarlo, ma probabilmente lei non abita qui.
Il mattino dopo mi ripresento.
Il portone è aperto. La portinaia sta distribuendo la posta nelle cassette.
- Sto cercando la signora Fiorenza Scolari - dico.
La donna mi scruta con sospetto. E' robusta, con un piglio autoritario.
- Perché ? - chiede.
Io ho un istante di perplessità.
- Sono un amico... - borbotto.
La donna sogghigna.
- Un amico ? - chiede ancora. Ho persino avuto l'impressione che ci abbia messo un'intonazione imitativa nella domanda, come se volesse scimmiottarmi.
- Senta, lei é la portinaia ? - chiedo, recuperando distacco. Lei annuisce - Bene. Allora faccia il suo lavoro. La signora Scolari a che piano sta ?
- A nessuno - ribatte lei - la Scolari non abita più qui da almeno sei anni. Un amico dovrebbe saperlo.
E riprende ad infilare bollette e plichi nelle cassette.          



















DICIOTTO

E' trascorsa un'altra settimana, durante la quale ho cercato disperatamente di immaginare come rintracciare Fiorenza, finché stanotte ha squillato il telefono.
Ho annaspato nel buio, mi è scivolata la cornetta a terra, l'ho riafferrata grugnendo.
- Sì ! Sono io !
All'altro capo un respiro, poi una voce femminile che mormora incerta.
- Sono Marta...
Io non conosco nessuna Marta.
- Ha sbagliato numero - rispondo irritato.
- Mia madre mi ha lasciato questo recapito...
Adesso ricordo. Me lo aveva detto che si chiamava Marta. Che vive a Lisbona. All'improvviso ho il cuore in gola.
- Sì ?...
- Mi aveva detto di mettermi in contatto se fosse successo qualcosa...
- In che senso ?
- Ho una busta per lei.
- Ma lei dov'è ?
- A Lisbona.
- No, Dico sua mamma. Lei è la figlia di Fiorenza, no ?
- Sì...
- E lei, allora, dov'è ?
- Non so.
- Ah...
- E' scomparsa.
- Come sarebbe a dire ?
- Era in viaggio con un amico. C'è stato un incidente. L'amico è all'ospedale e lei è sparita.
Marta parla con una specie di incertezza che non so se imputare alla distanza, a qualche ritardo sulla linea, o se è proprio lei che si esprime così. In circostanze analoghe una persona normale dovrebbe essere concitata, febbrile, lei invece pare un po' più che calma.
- Tu stai bene ? - chiedo.
- Si, si...
- C'é qualcuno che ti sta vicino, qualcuno lì con te ?
- Ho una gatta.
Non capisco se è suonata o cosa.
- Hai bevuto ? - chiedo, irritato.
- No ! Perché ?
- Insomma tu stai bene e tua madre è scomparsa. Questo è il messaggio. Tutto qua ?
- Senta. Mi dispiace averla svegliata nel cuore della notte. Capisco che sia infastidito, ma mi hanno appena telefonato. Dagli Stati Uniti. Là deve essere giorno... E' là che erano, la mamma e il suo amico, voglio dire. E lei mi aveva fatto giurare che se fosse successo qualcosa io avrei dovuto immediatamente informarla...
La interrompo.
- Scusami ! scusami... tu sarai preoccupata e io... scusami, davvero... dici che Fiorenza è in America. Dove ?
- Il suo amico è ricoverato a El Paso.
- Ma chi ti ha chiamata ?
- Non so…personale dell'ospedale, credo…
El Paso. E' tornata laggiù. Perché senza avvertirmi ? E con chi ? Un altro fesso come me, probabilmente.
- ... così ho pensato alla lettera e l'ho chiamata.
La voce di Marta ha continuato imperterrita nella sua pacatezza.
- Aprila - dico.
- Come ?
- Aprila ! Leggi cosa c'è scritto !
- Ma io...lei ha detto...
- Sono le quattro del mattino. Tu sei a Lisbona. Leggi quel cazzo di lettera.
Non risponde. La sento trafficare. Sento persino la gatta miagolare.
- Non é proprio una lettera - mormora all'improvviso.
- Cosa intendi ?
- Sono appena due righe.
- Leggile !
Marta sembra avere un groppo in gola.
- Dice " Se leggi queste parole io probabilmente sono fuori gioco".
- Tutto lì ?
- C'é un numero di telefono.
- Dammelo.
Scrivo con un mozzicone di matita sulla scatola di ansiolitici che ho sul comodino.
- Sicura che non ci sia altro ?
Marta tace, poi sussurra.
- Se puoi stai vicino a Marta.
Adesso ho la certezza che stia piangendo. Stiamo in silenzio, per un bel momento.
- Quanti anni hai ? - chiedo.
- Ventisei - tira su col naso.
- Come mai a Lisbona ?
- Lavoro.
- Che lavoro ?
- Faccio l'interprete. Conferenze, convegni, turismo...
- Saprai un sacco di lingue.
- Insomma...
- E non hai un compagno, qualcuno ?
- Vivo sola.
- Senti, io ho bisogno di qualche giorno per organizzarmi, poi vengo lì. Tu ti senti sicura ?
- In che senso ?
- Lasciamo stare. In ogni caso se ricevi telefonate, messaggi, se si fa vivo qualcuno tu mi chiami immediatamente, O.K. ?
- Va bene.
- Sta tranquilla. Risolveremo tutto.
- Si, grazie...
Leggo ad alta voce il numero che mi compare nel display.
- E' il mio numero di casa.
- E se voglio cercarti al lavoro ?
Mi detta un numero di cellulare.
- Arrivo - le dico, prima di salutarla.
Fisso il buio chiedendomi che cosa stia succedendo, che cosa sia successo.
Aspetto le otto per chiamare il numero che era nel messaggio di Fiorenza.



















DICIANNOVE

- Tom Joad - la voce femminile, perentoria, non aggiunge altro.
Buongiorno, ho ricevuto un messaggio che mi indicava di chiamare questo numero...
- Un messaggio di chi ?
- Di Fiorenza Scolari, ho parlato con sua figlia e...
- La richiamiamo.
Sto ancora parlando quando la donna interrompe la comunicazione.
Avrò sbagliato numero ? No. Forse l'ho trascritto male quando me lo ha dettato Marta.
Tom Joad. Dove ho già sentito questo nome ?
Aleggia nella mia memoria come una presenza lontana ma significativa. Nel mio mestiere ho conosciuto molti americani ed inglesi, anche australiani, canadesi, neozelandesi, un paio di sudafricani, ma nessuno che si chiamasse così, eppure il nome non mi è nuovo, anzi. Per un istante ho il sospetto che sia il marchio di qualche jeans, o birra, o chissà che, visto e archiviato senza rendermene conto.
Cosa intendeva con "La richiamiamo" ?  Tom e chi altri ?
E di colpo eccolo là. Henry Fonda con il berretto a coppola e la camminata di chi va coraggiosamente verso un destino incerto. Henry Fonda in "Furore" di John Ford. Tom Joad era il personaggio che interpretava. Lo stesso del romanzo di Steinbeck da cui era tratto il film.
Libro e film nel mio empireo personale. Come ho potuto non riconoscerlo subito ? Forse perché non me lo aspettavo al telefono, con una voce di donna, alle otto del mattino, sessant'anni dopo i fatti raccontati in "Furore".
Sarà anche strano ma mi sento improvvisamente e inspiegabilmente confortato.
Tom Joad.
Chiunque tu sia siamo dalla stessa parte.
Mi alzo e vado a cercare tra i CD. Ricordo che Springsteen gli ha dedicato una ballata. Ascoltarlo mi potrebbe dare qualche indicazione ? Lo escludo. Voglio soltanto riappropriarmi di quelle atmosfere. Ho anche il DVD del film. Stasera me lo riguardo.
Intanto non devo dimenticarmi che in studio mi attende una giornata infernale.
Un casting, uno spot in lavorazione per uno stilista rampante che ha imposto un suo regista incompetente ed isterico, la post-produzione di una collana home-video di viaggi d'avventura che si avvicina alla scadenza di consegna, corredata di inesorabili vincoli contrattuali e conseguenti penali economiche cui non voglio pensare.
Naturalmente, malgrado tutto, non riesco a togliermi dalla testa la telefonata del mattino.
Richiamo per tutto l'arco della giornata senza che mai nessuno risponda.
Incarico Anita di risalire all'utenza tramite il numero. Immagino ci sia un servizio che fornisce informazioni del genere. E infatti c'è. Semplicissimo.
Anita mi porge il post-it con nome e indirizzo e ritorna alle sue occupazioni, poi alza gli occhi e mi osserva.
Dimentico sempre quel suo sesto senso.
- Qualcosa non va ? - chiede.
Io sto lì, a fissare il foglietto, senza rispondere. Inutile bluffare con lei.
- Non so...
- Posso aiutarla in qualche modo ?
Io mi ci sono in parte abituato ma non ho ancora detto che Anita è una di quelle bellezze che invitano a fissare più che a guardare. In aggiunta, sul viso perfetto, leggermente segnato da una leggera traccia di efelidi, aleggia sempre un'espressione di fiducioso candore infantile, di attitudine armonica, che invece di contrastare con l'indiscutibile sensualità del suo fisico e del suo modo di muoverlo, l'accentuano.
Tutti i fotografi, i registi, i clienti che, passando da noi in agenzia, non hanno resistito all'idea di proporle di lavorare per loro, si sono sempre trovati di fronte ad un cortese, imbarazzato ma definitivo rifiuto.
Non vuole posare, non vuole recitare, non si vuole vedere né in toto né in parte, sulle pagine dei giornali o sui muri degli edifici. L'esatto contrario di ciò che desiderano la maggioranza delle sue coetanee, molto meno dotate di lei.
- Non so... - ripeto.
- Non sa se posso aiutarla ?
In un mondo in cui tutti ci si da del tu immediatamente lei, tra le altre cose, persegue questo inappellabile ricorso al lei.
Il foglietto che ho in mano dice che il numero che mi ha dato Marta è intestato ad un certo cavalier Massironi.
L'indirizzo è in un quartiere che conosco, borghese e piuttosto tranquillo.
- Tu hai da fare dopo ? - chiedo ad Anita.
Per una qualche istintiva associazione ho pensato che una ragazza irresistibile può essere un passe-partout per ottenere udienza da un cavaliere. Mi rendo conto della sciocchezza della cose mentre ancora sto ponendo la domanda.
- No... io vado a casa... - risponde Anita.
So che vive con un'amica e che ha un fidanzato violoncellista in un'orchestra sinfonica. Un tipo asciutto, con un gran naso e vistose orecchie a sventola. Uno che ti verrebbe da dire che è brutto proprio mentre ti rendi conto che, invece, ne sei affascinato.
- No, una fesseria... è che devo passare in un posto e, forse, sarebbe meglio che fossi accoppiato.
Anita ridacchia, ma poi arrossisce leggermente. Devo affrettarmi ad uscire dall'equivoco.
- Niente di sconveniente ! - rido, imbarazzato a mia volta.
- Certo, lo so, lo so - si affretta a rassicurarmi lei.
- Un'idea senza senso, non pensarci...
- Poi mi riaccompagna a casa ?
- Ma certo ! Però davvero, non importa, se hai dal fare... non so cosa mi sia passato per la testa.
- Allora ci vediamo alla sua macchina quando chiudiamo ?




















VENTI

L'edificio è un vecchio palazzo in una via silenziosa. Poco più avanti c'è una piazzetta minuscola con un giardinetto deserto al centro.
Un imponente portone tirato a lucido sfiora in altezza un balcone del primo piano.
C'è una fila di campanelli ed un citofono piuttosto antiquato.
Il cavalier Massironi è quello più in basso.
Suono.
- Allora tu dici soltanto Tom Joad, va bene ? - ricordo ad Anita.
Lei annuisce.
Nessuno risponde. Torno a suonare. Uno squillo protratto, anch'esso senza risposta. Tento una scampanellata senza convinzione e, all'improvviso, lo scatto di apertura del piccolo battente che si apre nel portone grande mi fa trasalire.
Un ragazzo compare nel vano della porta e ci osserva. Neppure lui si aspettava noi. Ma è immediatamente catturato dalla figura di Anita.
- Mi scusi, lei abita qui ? - chiedo - perché stiamo cercando il cavalier Massironi eh...
Il ragazzo ridacchia.
- Sì, stanno qui, al pianterreno. Ma sono sordi come campane.
Tiene aperto il battente, invitandoci ad entrare.
- Provate al campanello di casa. Quello, in genere lo sentono.
- Non è che magari sono via ?
- Via ? Ma no ! Non vanno mai via, figuriamoci !
Il ragazzo se ne va, rallegrato dal sorriso riconoscente di Anita.
Quattro gradini, sulla sinistra, salgono ad un portoncino d'ingresso a due battenti. Su un lato una targa d'ottone annuncia il cavalier Massironi. Pigio il pulsante. Il suono del campanello arriva fino a noi. Poco dopo si sente il cigolio di una porta interna. Su quella d'ingresso non c'è spioncino.
- Chi è ?
La voce è anziana, femminile, tremula.
- Tom Joad - dice Anita, prima che riesca ad impedirglielo.
C'è qualcosa che non va. la voce al telefono era giovane, sicura. Qui Tom Joad non c'entra più, lo sento.
- Chi ?! - strilla la donna dall'interno.
- Stamattina ho telefonato al suo numero e volevo sapere...
tento alla disperata.
- Che telefonata ? - la voce mi interrompe, ancora incerta ma alta.
Anita è sorpresa, sembra quasi divertita.
Improvvisamente, dall'interno, si aggiunge una voce maschile.
- Cosa c'è ?
- Cavalier Massironi ?
- Chi è lei ? Cosa vuole ?
- Mi scusi. Stamattina ho fatto una telefonata al suo numero per una questione importante e...
- Impossibile.
Come impossibile, mi chiedo. Ho il biglietto con appuntato il numero che mi ha lasciato Marta. Lo scandisco attraverso la porta.
- Sì. E' il nostro numero. Ma ce l'ha solo mia nipote. Lei come fa a conoscerlo ? Mia nipote non ha chiamato stamattina. Non ha chiamato nessuno, stamattina...Ma lei cosa vuole ? Chi è ?
- Mi scusi, ma non potrebbe aprirci un momento ?
- Aprirvi ? Perchè, quanti siete ? Cosa volete ? Chi vi ha aperto il portone ?
La raffica di domande che sottolinea la sospettosa irritazione dell'anziano mi ammutolisce.
- Insomma, a che gioco giochiamo qui ? - chiede il cavalier Massironi.
Non so cosa rispondere.
- A nessun gioco, cavaliere, volevamo solo un'informazione, va bene così, la ringraziamo.
Anita è provvidenzialmente intervenuta. Dall'interno, silenzio.
Ce ne andiamo. Lei, una volta in strada, mi osserva.
- Scusami  - dico - non immaginavo di trascinarti in una cazzata del genere.
Lei sorride.
- Non è niente, anzi, in un certo senso è stato divertente.
- Ti accompagno a casa.
Mi sono appena seduto alla guida e il cellulare segnala l'arrivo di un messaggio.
Un SMS.
" Abbiamo detto che richiamiamo. Non prenda iniziative inutili. Data la circostanza è sciocco."
Sono pietrificato. Non è la prima volta, dall'inizio di questa storia, che mi trovo di fronte a qualcosa di imponderabile, anzi, ma non mi sono mai sentito così esposto, così vulnerabile come in questo momento, neppure quella notte a Marble Falls.
Come fanno a sapere che sono qui ? Ci stanno osservando ? E se sì, chi ?
- Qualcosa non va ? - Anita sorride, incoraggiante.
E adesso ho coinvolto anche lei, stupidamente, senza ragione.
-   No...solo cose che non capisco...
-   Sa, gli anziani sono sospettosi. E' normale.
-   Certo, certo...
-   Ma cosa c'entra Tom Joad ?
-   E' una lunga storia, e forse è meglio che tu non la conosca. Ti porto a casa.
Anita si allaccia la cintura senza aggiungere nulla.
Strada facendo il silenzio tra noi è insopportabile.
- Ma tu sai chi è Tom Joad ? - chiedo, pur di spezzarlo.
- Sì. Ho letto il libro un anno fa, e poi conosco la canzone di Springsteen.
Anita non finisce mai di stupirmi. So che ha ventitre anni. Com'è che legge Steinbeck ?
- E il film l'hai visto ?
- Il film ?
- Si. L'ha girato Ford, nel 1940.
- Ah, non lo sapevo.
- Molto bello.
- Mi piacerebbe vederlo...
- Ti aspettano a cena ?
- Bèh, non esattamente... insomma sì, Clara dovrebbe essere a casa, ma non è che...
- E il fidanzato ?
- Guido è ad Ancona, per un concerto.
- Ti va di vederlo, il film ?
Ma cosa sto facendo ? Devo riportarla casa e che sia finita così.
- Sì, volentieri - risponde lei.
- Pizza, birra e maxischermo è una proposta indecente ?
Lei ride.
- Dopo deve riaccompagnarmi...
- Beh, ovvio.
- Allora vada per il film.
Ho un attimo di disorientamento. Non sono sicuro che il quadro le sia chiaro.
- Andiamo da me. A casa mia voglio dire, non vorrei che tu pensassi...
- Non immaginavo mica che andassimo al cinema.
- Ah, ecco...
- Senta. Quando mi avete assunta io non avevo esperienza specifica di questo lavoro, ma di ricerca di lavoro sì. E in ogni posto dove sono stata ho trovato gente che ci provava, con me. Non so perchè, ma è così.
- Credo di sapere perchè...
- Però voi no ! Il signor Fabio è pazzo di sua moglie e dei bambini, Vittorio è gay e lei...
- Vittorio è gay !?
Anita tace all'improvviso. Poi riprende.
- Mi scusi. Oddio. lei non lo sapeva ?
- Io no.
- Oh, mamma. Che gaffe ! Comunque Vittorio è una persona meravigliosa e io...
- Ma tu come lo sai ?
- Beh, ne abbiamo parlato. Con lui, voglio dire. Insomma siamo amici e così...e comunque in studio lo sanno tutti.
Tutti tranne me.
- Sono davvero mortificata. E' che ero convinta che lo sapesse.
- Lo conosco da quando eravamo ragazzi. Molto superficialmente, devo ammettere. Il mio vero amico è sempre stato Fabio.
- Le vuole molto bene.
- Chi ?
- Vittorio. la considera un po’ come un fratello.
- Ma dai...
- In quel senso intendevo che, arrivata da voi, ho capito subito che era il posto giusto per me. Quello che cercavo. Sono stata fortunata.
- Che serata...
- E non è ancora finita - aggiunge Anita.
Mi volto verso di lei, leggermente allarmato.
- Pizza, birra e film, no ? Grande ! - conclude.
- Ah, sì...Se avessi saputo che ti piace tanto ti avrei invitata prima.
- No. Non lo avrebbe fatto.
- Cosa vuoi dire ?
- Conosco la sua storia. So come vive. Non lo avrebbe mai fatto. Non le sarebbe venuto in mente. Ma mi fa piacere. Ringraziamo Tom Joad.
Non so cosa sia. Anita, in effetti, oltre agli altri pregi, ha anche una bella voce ma quello che ha appena detto sortisce lo strano effetto di commuovermi. Fortunatamente siamo di fronte alla pizzeria.
- Come la preferisci ?
- Una margherita va benissimo.
- Parcheggio in doppia fila.
- La sposti tu, se occorre ?
Annuisce.
Mentre aspetto, davanti alla cassa, rifletto sugli eventi dell'ultima mezz'ora e mi sembrano appartenere ad un sogno sognato molto tempo fa. Ma non è così. Soprattutto non avrei assolutamente dovuto trascinare Anita in questa storia. E se quelli telefonano mentre guardiamo il film ?
Ci sono momenti di allarme che, per reazione, suscitano ilarità.
Questo, per me, è uno di quelli. Mi trattengo. Intorno a me ci sono altre persone in attesa.
A casa mia ci siamo sistemati per un pasto frugale, prima del film.
- Hai detto che conosci la mia storia ? - ho chiesto, guardingo, ad un certo punto.
- In linea generale. E mi dispiace per lei. Ho provato ad immaginare cosa si debba provare, ma è impossibile, credo. Capisco che lei sia come è.
Anita è diretta, parla tra un boccone e l'altro con comprensione ma senza giri di parole, di ciò che sa della mia vita. Io annuisco.
- Senti, credo di avertelo già chiesto altre volte. Non è che potresti darmi del tu ? - dico.
- Adesso si. - risponde. Si alza, prende piatti, bicchieri e posate e si sposta al lavandino. Volta il capo verso di me.
- Cinema, allora ?
- Certo. Ho anche del gelato.
- Magnifico !
In soggiorno si libera delle scarpe e raccoglie le gambe sotto di sè.
Ci attestiamo alle estremità opposte del divano con i nostri ricoperti alla violetta. Un tocco di originalità che ha apprezzato.
Vado piuttosto fiero del mio sistema home theatre. Fino a stasera, a meno che non lo abbia acceso la signora che si occupa delle pulizie, ne sono stato l'unico fruitore.
Sono appena riuscito a farmi agguantare dalla storia che il cellulare inizia a scalpitare silenziosamente sul tavolino di cristallo accanto al divano.
Mi allontano senza che Anita badi a me.
- Tom Joad.
Questa volta la voce è maschile.
- Ti stavo guardando - dico.
Silenzio all'altro capo del filo.
- Sto vedendo "Furore", in DVD - aggiungo, contento di averlo temporaneamente disorientato.
- Una buona cosa - dice la voce. Parla senza inflessioni.
- Le altre invece no - riprende -  deve essere chiaro: niente iniziative personali. Tu aspetti e noi diciamo cosa fare. E' un accordo non negoziabile.
-  Capisco. Va bene.
-  La ragazza. Chi è ?
-  Lavora da noi, in studio.
-  State insieme ?
-  No ! Che c'entra ?
-  Cosa sa ?
-  Nulla. Assolutamente nulla.
- Vedremo.
- No ! Davvero,  lei non ha niente a che vedere. Sono stato io che, stupidamente ho creduto potesse essermi utile...
La voce mi interrompe.
- Conosci l'ex giardino zoologico ?
- Si...
- Domani a mezzogiorno. Di fronte all'ingresso principale. Cellulari, p.c. portatili, roba del genere. Lascia tutto a casa.
- Va bene.
- Solo.
- Va bene.
- Buona visione.
- Cosa ?
- The grapes of wrath, no ? - e riattacca.
Ha citato il titolo originale del film con una pronuncia impeccabile. Un madrelingua ? In ogni caso anche il suo italiano è perfetto, senza inflessioni.
Torno al divano. Anita non bada a me, è completamente assorbita dal film.
Io, invece, non riesco a seguirlo che distrattamente.
Penso a domani. Penso a Fiorenza. E adesso sono anche preoccupato per Anita, che non avrei dovuto coinvolgere in quella stupidaggine del cavalier Massironi.
Perchè loro erano lì. Chissà dove. Quindi sono controllato.
Avrei dovuto chiedere di Fiorenza e non l'ho fatto. Anche di Marta. Sapere se è al sicuro.
Il giorno dopo la nostra prima telefonata, mentre ancora intendevo partire per Lisbona, mi aveva chiamato dicendomi che sarebbe rientrata in Italia e che si sarebbe fatta viva. E invece niente. Cellulare portoghese sempre spento. Buio.
 





















VENTUNO

Incredibile.
Da queste parti non ci tornavo dai tempi in cui, da ragazzino, mi ci portava mia madre.
Allora lo zoo era attivo e io nutrivo una vera passione per otarie, babbuini e un timidissimo panda minore, che non sempre riuscivo a vedere durante le visite.
Ora una parte degli edifici del giardino sono stati recuperati come sedi di associazioni e roba del genere, un’altra è in condizioni di abbandono.
Sto lasciandomi catturare da nostalgie inattese che non immaginavo avrei rivissuto all’improvviso davanti ad uno zoo abbandonato.
- Signor Bertocchi ?
La voce è flebile. La ragazza è una biondina con capelli raccolti, carina se non fosse per questo sguardo di ansia vagamente anemica che fissa su di me ad occhi sgranati. Qualcosa in me la riconosce all’istante pur non avendola mai incontrata.
- Marta ?
- Sì…
- Grazie al cielo ! ma dove eri sparita ?
Vorrei abbracciarla ma mi limito a tenderle la mano. La sua è umida e sottile, con lunghe dita affusolate. Si capisce che vorrebbe ricambiare una stretta energica ma che proprio non ce la fa.
- Poi le dirò, ma adesso dobbiamo andare.
- Dove ?
- Venga con me.
Si avvia, entrando sotto l’arco dell’ingresso e procediamo sulla destra, verso la parte in abbandono.
Riconosco con emozione la fossa dei babbuini. Mi pareva più grande.
- Sono venuti a prendermi a Lisbona – attacca Marta.
- Chi ?
- Amici di mamma.
- Ma tu li conoscevi ?
- No…
- Non avresti dovuto fidarti…
- Avevano una lettera indirizzata a me. Diceva cose che sapevamo solo io e lei. E poi era la sua calligrafia. C’era scritto che erano gli unici amici che potevano aiutarmi, ma io non capivo in che cosa…
I viali sono infestati di erbacce. In lontananza si scorgono i profili dei palazzi amministrativi. Avevo sentito dire che questo posto era diventato rifugio per tossici e sbandati. Che dormivano nelle gabbie abbandonate.
- …perché la mamma è morta.
- Cosa ?!
- E non è stato un incidente.
- ma chi te lo ha detto ?
- Lui.
L’uomo che Marta ha indicato si è materializzato al mio fianco facendomi sobbalzare.
Siamo arrivati a quella che era la piscina delle otarie.
- Venivo qui da bambino…
L’uomo mi osserva e sorride. Per un istante quel sorriso mi è parso così familiare da farmi correre un brivido lungo la schiena.
- Credo di capire cosa intende – dice.
Altezza media, ha un modo di muoversi che suggerisce agilità e potenza. Viso abbronzato, capelli cortissimi bianchi.
Non riesco a liberarmi da quella specie di déjà vu di poco prima.
Ho già incontrato quest’uomo ? Non mi pare possibile.
- Mi sta studiando ?  - ride.
Mi sorprende il fatto che sia cosi cordiale. Si dà un’occhiata intorno come a voler verificare che tutto sia come lui si aspetta che sia.
- Va bene – dice – andiamo a mangiare ?

























VENTIDUE

Siamo andati al cinese che si affaccia sul viale di fronte e che in quanto a esotismo ha costituito l’aspetto più rilevante di un incontro al quale mi ero preparato come per qualcosa fuori del comune, forse pericoloso, in ogni caso ansiogeno.
Invece l’uomo, che si è presentato come Elias – nient’altro – sembrava preoccuparsi solo di vederci a nostro agio. Un pranzetto tra amici.
Marta ha attenuato gradualmente il suo atteggiamento da animaletto braccato e io, quando questo Elias ha affermato con pacatezza “Va tutto bene. Siamo al sicuro. Tranquillo”, ho smesso di guardarmi attorno con apprensione.
Il quadro però non è per niente roseo. Fiorenza è morta.
Elias è entrato in argomento con delicatezza ma senza indulgere. Ho avuto la sensazione che gli premesse mettermi al corrente come per un gesto di dichiarata onestà. Per un momento ho creduto che volesse soprattutto studiare la mia reazione, e probabilmente in parte era anche così, ma quello che più mi ha impressionato è stata la sua capacità di affrontare una realtà aspra con uno spirito franco, apparentemente limpido.
Marta, evidentemente, sapeva già tutto. Ha tenuto gli occhi sul menu a lato del piatto per tutto il tempo del racconto, ma senza versare lacrime, come se le avesse esaurite.
L’amico che accompagnava Fiorenza era un po’ come ero stato io. Lei ha optato per lui invece di ritentare di ricorrere a me in ragione della sua disponibilità un po’ guascona.
Beppe Converio é un ex del servizio d’Ordine di Potere Operaio che gestisce un’agenzia di sicurezza per una catena di supermercati. Un improvvisato in buona fede, come ha detto Elias fissandomi.
- Nessuna prudenza. Credeva che il livello dello scontro fosse lo stesso di vent’anni fa. Uno sciocco.
Ha seguito Fiorenza e la sua ossessione senza riconoscere i rischi, senza applicare cautele.
Lei aveva da tempo abbandonato l’organizzazione cui fa riferimento Elias e si era lanciata in una sua personale crociata, forte degli elementi che era riuscita a raccogliere. Ora mi spiego tutta la documentazione di cui disponeva.
Il risultato è che Converio si è salvato ma non camminerà mai più  e che lei è stata investita dalla rosa di pallettoni di un calibro .12 a pompa nella toilette di una stazione di servizio nel tratto semidesertico tra Alpine e Marfa, nel sud ovest del Texas. Sempre laggiù, accidenti.
- Sarno ? – chiedo. Non sono sicuro di desiderare davvero la risposta.
Elias annuisce.
- Forse non lui in persona, ma la mossa è stata sua. Come per Bernardo, del resto.
Marta alza su di lui uno sguardo interrogativo. Forse lei non ha la più pallida idea di chi fosse Bernardo.
- Non ci hanno impiegato molto a risalire a lui e al vostro passaggio.    Nella loro ottica hanno pareggiato il conto di Taliercio.
- In che senso ?
- Quella notte Fiorenza lo ha beccato. Per quel che ne so è su una sedia a rotelle. Paralizzato dalla vita in giù. Come credo sia ora Converio.
- Cazzo…
- Con Marta ieri abbiamo trascorso una giornata impegnativa, in termini emotivi, intendo. Lei non sapeva nulla di quanto stava cercando di fare sua madre.
Marta mi guarda come a voler confermare. Ha negli occhi un residuo di disperata estraneità, come se la vita con i suoi urti l’avesse stanata da un rifugio precario ma che lei doveva aver ritenuto sicuro.
- Non aveva la più pallida idea di cosa stesse architettando Fiorenza. Del resto è cresciuta con i nonni. Non ha mai avuto una relazione stretta con sua madre.
Ho la sensazione che Elias potrebbe essere più delicato ma lui prosegue, come se Marta non fosse lì.
- Fiorenza è stata per un certo periodo con noi, ma era convinta che non ci stessimo muovendo nella maniera adeguata. Aveva fretta, e non è il nostro modo di agire.
- Quando dice noi chi intendi ?
- Ci arriveremo.
Elias abbozza un mezzo sorriso. Improvvisamente mi sento infastidito dal fatto che lui sappia tutto di noi mentre noi non sappiamo nulla di lui, almeno io.
- …ma ci sono prima alcune questioni urgenti da chiarire, qualche aspetto di emergenza che sicuramente ti sfugge.
Io giocherello con la forchetta.
- Cominciamo dall’emergenza. Marta è al sicuro. E’ con noi e non è rintracciabile. Per te è diverso. Sei stato fortunato. Bernardo non ricordava il tuo cognome e quello che gli hanno fatto prima di schiacciarlo contro un muro non gli ha estorto quello che non sapeva. Un Piero era un‘indicazione troppo labile per risalire a te, ma non vanno sottovalutati.
- E tu queste cose come le sai ?
Elias sorride.
- Potrei dire che è il mio lavoro…
- Un lavoro ?
- Ci sono un’infinità di reti invisibili a voi che state, diciamo, in superficie. Ci sono le guerre che seguite al telegiornale e quelle di cui nessuno vi dice nulla. Tu sei capitato dentro uno di questi conflitti, di cui era stata ufficializzata la conclusione. Il Potere e i Movimenti…
- Senti. Io non c’entro. Questa è una storia che neppure voglio sapere. Perché siamo qui ?
- Allora. Prima ti rassegni all’idea che la maggior parte delle cose che non capisci non ti verranno spiegate e meglio è. Non è prioritario. Non c’è tempo né modo. Secondo. Ci sono dei livelli di, diciamo, discrezione, che ci impediscono di fare della nostra attività argomento di conversazione. Terzo, meno sai e meglio è per te. Siamo qui perché il conflitto che dici che non ti riguarda ora ti riguarda, eccome. E’ solo una questione di tempo e sarai una persona in pericolo, ma questi non sono più i fascisti delle manifestazioni degli anni settanta, come credevano Fiorenza e Converio. Quelli che alla fine non si sono rassegnati a convertirsi a una vita più o meno normale sono passati sul lato in ombra, e hanno sviluppato strategie e complicità molto più sofisticate di quando andavano in giro a cercare teste da spaccare con martelli da ghiaccio. Allora c’era qualche sbirro che gli parava il culo, qualche giudice compiacente. Oggi contano su complicità che vanno dai trafficanti latino-americani ai mafiosi kazaki.
Ammazzano preti sugli altari e, per farti capire la complessità della questione, in questo momento per te la persona più pericolosa è un prete che li copre.
- Monsignor Benoffi ?
- Lui.
- In che senso è pericoloso per me.
- Non chiedermi come lo sappiamo. Ma è gente sua quella che cerca la persona che era con Fiorenza quella notte. Ci arriveranno. Dal personale delle linee aeree a quello del servizio immigrazione, sono fonti di  informazione non così difficili da raggiungere. Prima o poi troveranno il bandolo.
Non è la prima volta da quando è iniziata questa storia sciagurata che ho paura, ma questa volta la rabbia che gli sta insieme è anche maggiore.
Volevo vendicare l’assassinio di una ragazza di vent’anni, mia moglie, incinta di mio figlio. Avevo il diritto di farlo, ci sono solo arrivato tardi, e non ho combinato granché, ma se è una resa dei conti alla quale mi stanno chiamando, beh, allora ci sto. Ce l’ho ancora, quel diritto.
Elias sembra mi abbia letto nel pensiero.
- Li potremmo anticipare, è vero… però occorre agire rapidamente, e tu, comunque, dovresti sparire per un po’, darci il tempo di capire quando Benoffi avrà le informazioni che ti riguardano.
- Io non me ne vado da nessuna parte ! Dimmi cosa devo fare, se devo sparare a qualcun altro, ma scappare no. Troppo faticoso.
Mi è venuta così, dopo essermi immaginato in contumacia, in barca o nello chalet, con l’ansia dell’inseguito. Una faticaccia improba. Mi metto a ridere. Ride anche Elias. Persino Marta ci riesce.
- Bene – fa Elias – allora vediamo come organizzarci…
- C’è una cosa che vorrei che mi dicessi, però.
- Cosa ?
- Come avete fatto con il commendator Massironi ? Com’è che io chiamavo il suo numero e c’eravate voi ?
Elias scoppia a ridere.
- Sei  un lettore di thriller ?
- Non particolarmente.
- Perché hai delle curiosità da lettore.
- Da essere umano, direi.
- Come preferisci. In ogni caso non è così difficile. Si individua un generatore di linee telefoniche di riserva e con opportune modifiche ad un attuatore collegato…
Lo interrompo.
- Capito, capito, lascia stare…
- Troppo complicato ? – ride lui – se ti va ti posso spiegare come allestire un ordigno esplosivo con due litri di Diet Coke e quattro Mentos. E’ più facile.
Marta sgrana gli occhi.
- Sentiamo – dice.




















VENTITRE
....................







Non c'è più stato un capitolo ventitre.
Disamore ? mancanza di ispirazione ? assenza di convinzione ?
Per la prima ipotesi direi di no. 
A me, come a tutti quelli che scrivono, perlomeno quelli con cui ne ho parlato, accade di affezionarmi ai personaggi come ad esseri reali. Spesso sono loro a dettare, incredibilmente, la consequenzialità degli  eventi, la logica dei comportamenti e l'illogicità dei sentimenti.
Nemmeno la seconda ipotesi è praticabile. 
Avevo steso un piano piuttosto avvincente, sapevo dove intendevo andare, anche se è vero che, spesso, la storia prende un suo percorso rabdomantico che non puoi che seguire, trascinato dalla forcella vibrante dell'imprevedibile cui aggrappi le tue aspirazioni espressive.
Forse sì, la terza ipotesi. Come al solito.
Probabilmente ha ragione Janis, dovrei trovarmi un buon psicoanalista...



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