domenica 20 aprile 2014

I MORTI NON SANNO NULLA 32





                                       TRENTADUE


Impiegò una settimana a trovare Luong.
Scovò il centro massaggi cui aveva fatto accenno Gambarino, ma lei aveva lasciato quel posto da anni. Gli fornirono un indirizzo, cui naturalmente non corrispondeva più il domicilio, e un cognome, che non figurava nell’elenco telefonico. Dino Fabbri contattò il consolato thailandese ma di là non seppero, o non vollero, fornirgli informazioni. Così, alla fine, chiamò Gambarino. Gli disse che soffriva per una cervicale, che gli avevano consigliato dei massaggi shiatsu e che si era ricordato di quello che lui gli aveva detto di Luong. Suonava falso lontano un miglio ma Gambarino non era tipo da accorgersene. Era scoppiato a ridere.
- E che cazz ! Massaggi ! Altro che massaggi bisognerebbe farsi fare da quella lì.
Dino Fabbri aveva abbozzato una risatina conciliante.
- Comunque massaggi nisba, ormai - aveva continuato l’altro, improvvisamente serio - Saranno sette anni almeno che fa la bella vita, caro mio ! Ha sposato uno pieno di soldi, di Modena. Adesso i massaggi ce li fa a lui e basta. Eeeh, così è la vita caro il mio “stampo io”. Ti ricordi ? Che tempi, eh ?
Gambarino gli aveva dato qualche altro ragguaglio e lo aveva lasciato invitandolo ad andare a trovarlo nella sua nuova sede.
- Qui ormai c’ho tutto digitale. C’abbiamo il nouau, caro mio.
Dino Fabbri aveva risposto che sarebbe passato senz’altro.
Non si era arreso. Era partito per Modena e, grazie alle indicazioni di Gambarino, aveva rintracciato l’azienda del marito di Luong e il loro indirizzo di casa.
Da lì, al telefono, gli aveva risposto una voce femminile dall’accento straniero, comunicandogli che la signora era in ufficio. Lui, dopo un lungo momento di esitazione, aveva telefonato in azienda e chiesto della “signora Luong”. Il frammento di incertezza della centralinista e il successivo terzo grado di una segretaria lo spiazzarono. Lo lasciarono in attesa per qualche minuto.
La voce di Luong sopraggiunse inaspettata, senza segnali sulla linea, come se lei fosse sempre stata lì, in ascolto.
Fu gentile, senza gli imbarazzi che Dino Fabbri aveva temuto di suscitare dopo tutti quegli anni, e quel loro trascorso segreto, probabilmente per lei, ora, da non rievocare.
Gli chiese di lui, accennò qualcosa di sé, disse che poteva dedicargli un’oretta nel tardo pomeriggio. Lui capì che lei pensava si fosse fatto vivo per ragioni di lavoro. Naturalmente era impossibile dirle perché l’avesse cercata; in fondo non era certo di saperlo neppure lui.
Trascorse il resto della giornata a passeggiare per la città in attesa dell’appuntamento, tormentato dall’idea di rendere miserevole la sua visita, qualunque ragione avesse accampato per giustificarla. Si chiese inoltre se il marito potesse essere a conoscenza di ciò che c’era stato tra loro due.
Alle sei e mezza entrò nell’atrio luminoso di una palazzina di fine ottocento, suggestivamente rivisitata all’interno secondo criteri di architettura modernissima.
Una segretaria con un fisico da servizio d’ordine lo guidò all’ufficio di Luong. Lungo l’itinerario, gettando occhiate qua e là negli uffici e per i corridoi, non vide che donne.
Lei lo accolse con una simpatia distaccata. Non era quasi per nulla cambiata, pareva addirittura ringiovanita. L’unica variante erano i capelli, accorciati in un taglio mosso invece che nella rigida frangetta di foggia orientale.
Lei entrò immediatamente in argomento, sia pur con delicatezza: gli chiese se facesse ancora il fotografo e dove vivesse. Lui tentò un raffazzonato riassunto della sua esistenza durante quei dieci anni e Luong lo ascoltò senza mai interromperlo, rivolgendogli un sorriso che Dino Fabbri tentava inutilmente di decifrare. Mano a mano che procedeva si rese conto che stava descrivendo una considerevole sequenza di fallimenti, malgrado il tentativo di indorare la pillola con l’ironia, e si convinse che il sorriso di lei non poteva essere che di commiserazione. 
Luong, approfittando di una pausa, gli chiese in che cosa potesse essergli utile. Lui rispose che aveva solo avuto voglia di rivederla, così. Lei abbozzò un sorriso di pacata incredulità.
Sulla scrivania campeggiava la foto incorniciata d’un gruppetto di famiglia.
Nell’immagine dai colori sfavillanti Luong sedeva accanto ad un uomo prestante, giovanile ma dai capelli bianchissimi, evidenziati ancor più dall’abbronzatura. Lui le cingeva affettuosamente una spalla e con l’altra mano rivolgeva un brindisi all’obbiettivo, impugnando una mezza bottiglia di champagne. Due bambini, identici tra loro e somigliantissimi a Luong, sedevano a gambe incrociate ai piedi della coppia.
- Tuo marito ? - chiese Dino.
- Sì. E quelli sono i miei bambini. Gemelli. Ci sono tanti gemelli nella mia famiglia.
Dino Fabbri si sforzò di apprezzare il quadretto familiare e si preparò a congedarsi.
Luong gli chiese se fosse disponibile per un lavoro. Mentre lui si riprendeva dalla sorpresa gli spiegò che avevano in avvio la costruzione di un  nuovo stabilimento e che lei desiderava documentarne tutte le fasi. Gli mostrò i progetti con orgoglio. L’edificio, in mattoni a vista, richiamava l’architettura delle factories americane del New England di fine ottocento. Proponeva un’armonia  di forme inedita, mescolando tradizione a soluzioni d’avanguardia. Dino Fabbri era incantato. Luong ribadì l’offerta. I lavori sarebbero iniziati in primavera. Lui accettò.



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