Lo sapevo che c'era.
Il fatto di non riuscire a rintracciarlo per tutto questo tempo non ha mai escluso che prima o poi sarebbe saltato fuori.
Si tratta del primo racconto delle silloge di "Whittling", scritto nell'ottobre del 1994.
A partire dall'inizio di questo blog, che decolla proprio con la sequenza dei 13 racconti autobiografici di Whittling, io ricordavo che erano quattordici, e ricordavo anche di aver scartato il primo. Il problema era ricordare dove.
Ero comunque sicuro di non averlo cestinato.
Ha fatto capolino soltanto ora, e gli faccio posto.
Rileggendolo risento delle trasformazioni di questi quasi vent'anni.
Alcune delle figure evocate, primo fra tutti mio padre, non ci sono più. Persino i luoghi si sono perduti. Gli impianti di risalita di Palìt hanno chiuso e i tralicci di seggiovia e skilifts probabilmente svettano macabri nell'abbandono.
Non sono mai più passato davanti alla botteghetta nel vicolo, chissà se è ancora là, vuota, piena di fantasmi dimenticati.
Anyway...
...e nell'estate del '68, sul fienile di Ringhiroglio,
a casa di Pia.
Con barbe e baffi disegnati con una matita da trucco,
da sinistra Pierangelo, Sandro e sotto Pit,
con lo stesso cappello indossato
nelle prime foto del post "Western Vintage"
del 9 dicembre 2012.
del 9 dicembre 2012.
I BARBIERI
A Rueglio ne ricordo due.
In realtà ne andrebbe menzionato un terzo, che restò forse per un anno, e naturalmente c'è quello
attuale, che non ho mai visto e che mi dicono viene una volta alla settimana.
Mio padre è ricorso a lui e devo segnalare che il suo aspetto è decisamente
migliorato da quando non si affida più alle disinvolte sforbiciate di mia
madre.
Quest'ultimo comunque è una specie di pendolare, così come pare finirà
col succedere con il prete. Quello che verrà dopo don P.
Gente che si fa vedere, appunto, una volta alla settimana, per tagliare
i capelli o dir Messa, e per il resto del tempo non si sa dove stia e che cosa
faccia dei propri giorni. Questo è uno dei segnali più malinconiosi del
cambiare dei tempi, almeno a mio avviso.
Perché è come se si instaurassero delle condizioni senza prospettive di
rientro, venate di sobria ma definitiva indifferenza, e affiora un disagio che
fa pensare alle solitudini, così, in generale.
Capita di pensarci quando ti accorgi che una figura centrale del tuo
mondo, che è stata rappresentata per generazioni al punto da non poterne
neppure immaginare l'assenza, all'improvviso viene invece a mancare, e a
sostituirla si installa un'altra figura - di passaggio - che per quanta buona
volontà ci possa mettere resterà sempre ancorata ad un'ombra di estraneità.
Qualcosa muore e ci si sente più vecchi. Ma non più esperti, più calmi,
più buoni. Solo più vecchi. Che sia per via d'un prete o d'un barbiere.
Il prete comunque per ora è sempre lo stesso e tenendo conto che ha
battezzato me che sto veleggiando verso i quarantacinque anni e ancora traffica
in tuta da meccanico a volte addirittura sul tetto della canonica, si può
ritenere che terrà duro ancora per un po’.
Per quanto riguarda i barbieri invece è andata diversamente.
Il primo che ricordo é stato Renato.
Non è di qui, mi pare sia originario di qualche posto di pianura e le
ragioni per le quali sia approdato a questo paesino di mezza montagna in quegli
anni - i primi cinquanta - non le so immaginare.
E' arrivato con padre e madre ed ha aperto una botteguccia minuscola e
luminosa che da quando ha smesso di esercitare la professione - vale a dire
come minimo trent'anni fa - non ha mai più ospitato esercizi commerciali.
Mi sono chiesto parecchie volte se là dentro non ci sia ancora la
contusa poltrona girevole, il cavalluccio per i piccoli, e quegli altri
strumenti vari che allora mi apparivano più ambulatoriali che destinati
all'estetica: misteriose aureole di gomma arancione, infilate di macchinette
che sfumavano la nuca con quel rumore di ganascia d'insetto, rasoi temibili,
spruzzatori di smeriglio blu con pompetta di lattice, talchi dai profumi di
vecchia zia, calendarietti tascabili con donnine discinte, impaginati con
fiocchetti e nappine.
L'andare da Renato mi pare di ricordare che fosse una cosa allegra, come
se si trattasse sempre della vigilia di una festa.
Lui era un tipo di buon umore, sposato giovane con una delle ragazze di
una famiglia numerosa che allora veniva definita anziché con il cognome con un
epiteto cameratescamente spregiativo: Causùgn, che sta a significare qualcosa
tipo calzerotti rattoppati.
Una famiglia numerosa appunto, animata da un'allegria un po’ barbara,
che ha suscitato momenti di rassegnata invidia nella mia infanzia di figlio
unico.
I maschi tutti musicisti, le femmine tutte belle, e tutti tra loro
somiglianti negli sguardi di una vivacità allarmante, nei sorrisi franchi che a
volte sembrano però sottintendere lo scherno, generosi e permalosi, insomma una
genìa speciale che oggi di quell'epiteto inglorioso, con il quale la gente li
definiva sottovoce in loro assenza, ha fatto una specie di blasone ammiccante.
" Nèt Causùgn ": noi calzerotti rattoppati, dice ogni tanto
Gianni, posando il sassofono per abbeverarsi alla scodella di vino nelle
nottate di festa. E la gente attorno ormai sorride come se nulla fosse. Suona
un po’ come se dicesse " Noi Orfei ".
Ma per tornare alla nostra storia: quando il Renato sposò la Piera smise
di fare il barbiere ed entrò all'Olivetti.
Per un certo periodo il paese
deve essere rimasto sguarnito, perlomeno fino al momento in cui Iraldo, detto
Coppi per via d'un naso adunco e vistoso ereditato dalla madre, aprì bottega in
un vicoletto ombroso in una zona detta Gugnèia.
Il Coppi era di tutt'altro impasto rispetto al Renato.
Più amante della caccia, o per meglio dire del bracconaggio, che non
dell'arte della sfumatura e abituato ad amministrare il tempo delle sue giornate
secondo programmi anarcoidi al punto che credo
mai si sia potuto, nel periodo del suo esercizio, contare su un orario
ragionevole o perlomeno prevedibile di apertura della bottega. Che era altrettanto piccina ed
angusta di quella del Renato ma in più squallidetta, vistosamente connotata dal
disamore del suo proprietario, che inoltre non si può dire padroneggiasse con
competenza l'arte sua, anzi.
In breve: l'attività cessò.
Coppi si è poi dedicato a tutta una serie di lavori saltuari, sfumati in
epiloghi sempre più o meno fallimentari.
Negli ultimi tempi si era dato al bere e per questa ragione gli è
occorso un incidente che in una certa misura ne ha determinato una specie di
tacita messa al bando.
Ubriaco, alla guida di un'auto in parziale avaria, ha investito sul
ponte Preti una motocicletta uccidendone i passeggeri: una coppia di fidanzati
in procinto di sposarsi. Mi pare che il ragazzo fosse una promessa in qualche
disciplina sportiva.
Il Coppi si è quindi fatto un po’ di galera ma ne è stato messo fuori
più rapidamente di quanto fosse legittimo immaginare.
Nel frattempo la moglie aveva avviato le pratiche di separazione e lui
una volta libero si è venduto la casa di famiglia - quella che sul retro
ospitava la sua dimenticata attività di barbiere - ed è finito a fare non so
che dalle parti di Saint Vincent.
Curiosamente sua figlia - una ragazzona di buon senso, non bella ma
placidamente dotata di un certo sex appeal - si è recentemente sposata proprio
con il figlio del Renato, uomo schivo e laconico fin da bambino, detto
affettuosamente Compare Orso dal mio amico Pierangelo.
Poco tempo fa, in un giorno feriale, sulle piste degli impianti di
Palìt, mentre consumavo una rapida colazione al sacco fuori del rifugio
prefabbricato, mi è capitato di orecchiare distrattamente una conversazione tra il
Renato e un certo Batti, trombone della banda musicale, quartinternazionalista
nonché marito della sorella di Coppi.
Eravamo noi tre soli, seduti sul rialzo in cemento della base del
prefabbricato, sotto un cielo di latte di mandorle che si confondeva con la
neve tutt'attorno. Una neve bagnata e frenante per via della temperatura
curiosamente alta di quei giorni. Lungo le piste non scendeva nessuno.
Avevo deciso di tornare a valle dopo lo spuntino e altrettanto
intendevano fare quei due, così
consumavamo con calma i panini, circondati dal silenzio ovattato che ci
avvolgeva come se fossimo stati seduti dentro una nuvola.
Loro, Renato e Batti, avevano preso a chiacchierare in dialetto e l'argomento era Coppi.
Si raccontavano aneddoti della sua scioperataggine, con severità ma anche con un che di assolutorio, come se
si fosse trattato di qualcuno che non poteva essere che così, per una qualche
ragione indipendente dal suo volere: un destino, un'eredità del sangue, una
congiura di false occasioni. Insomma era curioso stare ad ascoltarli e scoprire
che se fosse dipeso da loro gli avrebbero impartito volentieri una lezione,
anche impietosa, e nelle stesso tempo intuire - senza che probabilmente nessuno
di loro due ne fosse consapevole - che se qualcun'altro fosse intervenuto a
darla, quella lezione, forse sarebbero stati proprio loro a fare in modo di
impedirlo.
Comunque, per tornare a noi,
Renato e Coppi sono quelli che io considero i barbieri "
storici".
Poi ci fu quell'altro di cui ho fatto un accenno all'inizio.
Era il 1968 e arrivò questo ragazzo, pugliese credo, che prese
in affitto proprio la bottega dismessa del Coppi conferendole un aspetto
accogliente e dignitoso, con i suoi giornaletti, le due poltroncine d'attesa in
similpelle, gli strumenti di lavoro in bell'ordine sul ripiano accanto al
lavandino, gli specchi lucidati e un'illuminazione confortante per chi entrava,
soprattutto durante l'inverno, dopo aver percorso il vicoletto della Gugnèia,
costellato di case abbandonate e decrepite, intriso di quell'umidità pervicace
data dalle piogge interminabili che sono le madrine del verde esuberante per
cui la nostra valle gode di una certa notorietà.
Approdato in paese senza amicizie e senza legami quel nuovo barbiere ci
si innestò piuttosto solidamente, nonostante una certa ritrosia di carattere,
un vistoso accento meridionale che in quell'epoca lassù appariva come una
stravaganza, e una curiosa disposizione ad interpretare ciò che gli veniva
detto in modo a volte incongruo.
Durante quell'estate noi si
approfittava delle notti fino ad esserne pacificamente estenuati.
Per noi intendo quel gruppo che poi ovviamente si disperse
frettolosamente nelle estati successive, alla spicciolata, per via di
matrimoni, cambi di residenza e di luogo di villeggiatura, urgenze di maturità
che allontanavano sempre più la possibilità di tirar irresponsabilmente
mattino.
Quell'estate comunque l'attraversammo ancora con una rincorsa ebbra,
paludata di risate per nulla, banchetti notturni sul campo di foot-ball accanto
al cimitero e impavidi innamoramenti.
E durante una di queste notti il nuovo barbiere si unì a noi per una
scorribanda che ci portò ad una fiera in
un paese che non ricordo, dove io e Naty, la mia morosetta d'allora, vincemmo
una coppia di criceti.
Ci spostavamo a bordo di due automobili: la Dyane di Piero, il figlio
più grande del medico condotto, e la Giulia 1750 color melanzana di Giorgio, il
figlio dei gestori del bar Americano.
Pigiati all'inverosimile con grande naturalezza ci spostavamo come razziatori
da un posto all'altro, sempre in cerca di qualcosa o di qualcuno che quasi mai
trovavamo, senza che per questo venisse meno la nostra disponibilità al
girovagare.
Quella notte dalla fiera ad un certo punto raggiungemmo un paesino che
porta il nome curioso di Strambinello.
I criceti, che si erano aperti una breccia nella scatola di cartone che
li ospitava, scorazzavano sul pianale dietro il sedile posteriore su cui io
Naty e Pierangelo si interpretava senza molto coordinamento "La
notte" di Adamo.
Il barbiere sedeva avanti, accanto a Giorgio che guidava in silenzio.
Strambinello risultò deserta.
La Dyane si era arrestata di fronte ad un bar chiuso e Piero era balzato
a terra, chiamando a gran voce una ragazza che probabilmente abitava lì
attorno.
Nel silenzio della notte le sue urla suscitavano un imbarazzo che noi si cercava di superare
ridendo ansiosamente. Il barbiere si guardava attorno con indifferenza, come se
fossimo stati fermi a un semaforo.
Si affacciò un uomo ad una finestra, a gridare minacce, e Piero lo mandò
al diavolo. Quello scomparve per riapparire in un tempo incredibilmente rapido
sulla porta di casa, in mutande e canottiera, impugnando un bastone.
Il barbiere per un momento lo osservò con curiosità distratta.
Piero abbandonò la sua abituale baldanza incosciente e saltò in
macchina.
Ripartimmo in fuga con banditesco stridere di pneumatici e quell'uomo -
che risultò essere il fratello della
signorina cui Piero aveva rivolto i suoi ululati richiami - ci inseguì a piedi
per un tratto, maledicendo, poi la notte si ingoiò Strambinello e la sua figura
ferma in mezzo alla strada. Tornò il silenzio e il rumore sommesso del motore
che frusciava lungo i campi, accompagnando paziente il nostro forsennato
girovagare.
I criceti zampettavano dietro le nostre teste e noi certamente si conversava,
ma oggi sapere di che è definitivamente impossibile.
Poi Piero ci fece accostare per comunicarci che intendeva raggiungere
una tale di sua conoscenza, una che batteva sul vialone che corre davanti ai giardini
di Palazzo Uffici, alle porte di Ivrea.
Ci arrivammo e lui fece scendere i suoi passeggeri senza molte cerimonie
assicurando che sarebbe ripassato al massimo entro mezz'ora, caricò quella sua
amica vistosa, sui quarant'anni, che per noi all'epoca erano quasi una
vecchiaia, e dopo un laconico "Aspettatemi qui " se ne andò a
consumare quel sesso d'emergenza che allora a me pareva piuttosto imbarazzante.
Restammo accanto al marciapiede deserto, sotto luci giallastre da
raccordo tangenziale, borbottando tra noi dialoghi assonnati, rassegnati ormai
alla fine, almeno per quella notte, dell'avventura.
I passeggeri di Piero sedevano accoccolati sul marciapiede.
Tra questi Sandro era intento a pulirsi gli occhiali. Era stato allora
che Pierangelo dal sedile posteriore, sporgendosi in avanti e appoggiando una
mano sulla spalla del barbiere, aveva chiesto: "Chiamami Sandro, per
favore."
Il barbiere si era limitato ad annuire, senza fare altro.
Non ricordo quello che avvenne subito dopo ma poi certamente tornò
Piero, ricaricò il suo equipaggio e si tornò in paese, poco prima dell'alba.
Approdando alla piazza, nel discendere dalle automobili, poco prima di
disperderci in silenzio ciascuno verso casa, il barbiere si rivolse a
Pierangelo e chiese:
- Oh, Sandro, c'hai ancora
sigarette ?
Pierangelo rispose che le aveva finite e aggiunse che comunque Sandro
era quell'altro, quello che fumava la pipa. Disse che il suo nome era
Pierangelo e che lui lo sapeva: com'era allora che lo chiamava Sandro? Il barbiere disse:
- Ma me l'hai chiesto tu.
- Chiesto cosa ? - interrogò Pierangelo.
- Prima, in macchina. M'hai detto: chiamami Sandro.
E così da allora, nonostante i decenni trascorsi, può ancora accadere
che io e lui ci si guardi e ci si dica "Chiamami Sandro", con
quell'accento strambo e quella voce nasale che aveva il barbiere. E si rida un
poco.
Ma ormai si smette quasi immediatamente e si cambia argomento perché di
loro abbiamo già parlato a lungo senza che le parole trovino rimedio, perché il
barbiere è morto a ventinove anni d'un tumore e Sandro, che nel frattempo era
diventato medico, si è sparato in bocca, dicono perché il tumore se l'era
diagnosticato da sé, senza ombra di dubbio.
Pit e Pierangelo
Nessun commento:
Posta un commento