venerdì 17 agosto 2012

ATTI MANCATI

Tra il 1978 e il 1982, ho scritto 5 sceneggiature per lungometraggi. 
Erano gli anni romani e ricordo che mi ci divertivo. Le scene, i dialoghi, fluivano con una certa facilità dalla penna alla carta, e forse in ragione di questa facilità non mi sono mai dedicato con applicazione a trasformarle davvero in film.
Anni dopo le ho cestinate tutte, imponenendo loro un destino tutto sommato meritato.
Il 1983 è stato l'anno del mio esordio alla regia, dell'ingresso a Ipotesi Cinema, sul quale mi sono già ampiamente espresso nel racconto di Whittling "Un mestiere" (vedi post), della realizzazione di due cortometraggi e del mio primo documentario. 
Quell'anno, sulla scorta dell'entusiasmo per il mio "accreditamento" professionale, ho scritto 16 progetti, tra cui 6 sceneggiature per cortometraggi e molti soggetti per documentari, che da recente scoperta si andavano trasformando in una nuova passione e poi, per lungo tempo, nel mio lavoro.
Quattro di quei 16 progetti sono poi stati realizzati. 
L'esperienza degli anni successivi mi ha rivelato che si era trattato di una percentuale piuttosto alta. 
Non so come sia andata o vada per gli altri, ma per me, che ho sempre avuto la tendenza a non saper imprimere troppo slancio alle mie creature, la consapevolezza che con un poco di fortuna forse un progetto su dieci avrebbe visto la luce è diventata abitudine.
Quello che era cambiato era che si era abbassata la percentuale di quelli da buttar via.
Così, nel corso degli anni, si sono accumulate cartelline piene di soggetti, trattamenti, sceneggiature, classificati per anno e dimenticati.
Ero sicuro che quelle cartelline fossero a Rueglio, e invece le ho qui, proprio davanti agli occhi. 
Mi ero fatto un appunto sull'agenda per ricordarmi di cercarle la prossima volta che andrò in Piemonte poi ho alzato lo sguardo e le cartelline erano là dove le avevo collocate da chissà quanto tempo, piene di fogli dattiloscritti, molti ancora con l'Olivetti,  fotocopie di Ipotesi Cinema eccetera.
Ho letto qui e là e ci ho trovato delle cose di me che, pur essendo cambiate, hanno conservato un certo modo di concepire la narrazione, quella audiovisiva, per intenderci.
Così adesso mi andrebbe di postarne qualcuno. 
Ci sono storie che rilette adesso mi fanno rimpiangere di non aver messo maggior convinzione nel tentativo di portarle dalla carta allo schermo. Soprattutto per i documentari.
Allora giravo in pellicola e mettere in piedi una produzione, per quanto piccola, di pochi giorni, presupponeva il supporto di una mini troupe, e poi le spese delle lavorazioni di laboratorio etc. etc.
Oggi sarebbe diverso, le nuove tecnologie permetterebbero - e mi hanno permesso - di affrontare lavorazioni molto meno costose, ma quei soggetti nel frattempo si sono irrimediabilmente perduti.
Ce ne sono un paio, scritti proprio nel 1983, che mi piacciono. 
Il primo è nato durante una cena all'ormai scomparso "Da Danio", a Bologna, celebre per le sue tagliatelle al cacao, per cui andava pazzo Paolo Cottignola, il mio montatore di allora.
Eravamo lì noi due con Paolo Bacchi, ed è da una sua affermazione che ho avuto il titolo.



BAIADERA
 soggetto 


Bologna, dicembre 1983

Dal nostro tavolo si scorgeva la finestrella che si apre sulla vasta cucina della trattoria.
Parlavamo di cinema. Bacchi stava raccontando delle cose su Marco Ferreri dimenticandosi del cibo nel piatto, come sempre.
A un certo punto mi sono voltato verso la finestrella e l'ho vista: sui cinquant'anni, con un rossetto color fragola che debordava dalla linea sottile delle labbra tra le quali penzolava una lunga sigaretta, una fascia a trattenere i capelli tinti d'un nero pece che non impediva ad alcune ciocche di ricaderle umide sulla fronte, pesanti anelli d'oro ai lobi delle orecchie, uno sguardo assente, incattivito, gesti distratti ad affondare le stoviglie in un grande acquaio.
Una lavapiatti con gli occhi da zingara, cinquant'anni difficili tutti individuabili in quello sguardo lontano, in quella piega della bocca di cui la sigaretta sembra essere un'appendice anatomica.
A me è sembrata bella.
Non mi ha fatto pena, non ho provato pietà, quella pietà un po' vergognosa che si ha di fronte a chi non ha avuto occasioni, l'ho davvero vista bella, vera, sola, come poche altre persone viste nella mia vita.
L'ho fatta notare ai Paoli e Bacchi, dopo averle lanciato un'cchiata valutativa troppo preso dai suoi discorsi per soffermarsi sulla bellezza sfinita di quella donna, ne ha colto solo l'aspetto provocante, ha visto solo i capelli tinti, il rossetto debordante, l'aria da vecchia puttana e ha detto
- Qui da noi i tipi così le chiamano baiadere - 
Io non so nulla di lei, mi fido della sorte che mi ha fatto voltare verso la finestrella e dell'istinto che non mi ha mai tradito quando c'era da riconoscere una donna o un uomo con una "buona" storia da raccontare.




Il soggetto si conclude con la richiesta di un certo numero di scatole di pellicola, nastrini, un'Arriflex SR, un Nagra, qualche quarzo, insomma il solito corredo. Più un operatore e un fonico per una lavorazione di due giorni per "...provare a raccontare quella sua bellezza."
Ed è andata buca, come tante altre volte.
Pochi mesi fa Paolo Cottignola mi ha spedito una fotografia che lo ritrae con Paolo Bacchi e Anne Canovas durante la lavorazione di "Zeder" di Pupi Avati, film in cui avevamo lavorato insieme nell'82. Sarebbe perfetta per concludere questo post ma non mi riesce di trovarla. Quando salterà fuori la aggiungerò.
 

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