Molti anni fa ho scritto un racconto intitolato "Khir", mai completamente dimenticato ma mai riletto, e oggi che l'ho fatto mi pare di poterlo cacciare in un post.
Mi era capitato di vivere un'esperienza sentimentale incontrollabile con una ragazza bisessuale che, però, privilegiava le relazioni omo, lasciandomi turbato e impotente nel tentare decifrare quale sarebbe stato il comportamento più consono alla circostanza.
Avevo poi anche conosciuto un'altra ragazza che faceva il mimo a Parigi. E a Parigi ero davvero finito, al giro di boa del trent'anni, senza progetti e senza speranze.
Là ho davvero vissuto per un po' al "Le Central", e per partire mi ero davvero venduto i miei cavalli.
Insomma, come per ogni racconto che si scrive, almeno per me, le esperienze personali vissute in luoghi e con persone diverse, si prestano ad un certo punto ad un rimescolamento di carte che permette di rievocarle insieme, magari associando caratteri dissimili per costruire un unico personaggio. Ma questo lo sanno tutti. Aggiungo solo che ho davvero avuto quella specie di percezione pacificata in Fentiman Road, a Londra, che davvero c'è stata una delicata Francoise d'una sola notte su una nave che scendeva da Venezia a Patrasso e così via.
Là ho davvero vissuto per un po' al "Le Central", e per partire mi ero davvero venduto i miei cavalli.
Insomma, come per ogni racconto che si scrive, almeno per me, le esperienze personali vissute in luoghi e con persone diverse, si prestano ad un certo punto ad un rimescolamento di carte che permette di rievocarle insieme, magari associando caratteri dissimili per costruire un unico personaggio. Ma questo lo sanno tutti. Aggiungo solo che ho davvero avuto quella specie di percezione pacificata in Fentiman Road, a Londra, che davvero c'è stata una delicata Francoise d'una sola notte su una nave che scendeva da Venezia a Patrasso e così via.
Tutto è in qualche modo accaduto e poi ricondotto ad una narrazione che ha sfruttato le caratteristiche dell'accaduto per un'invenzione dove fare stare tutto insieme, in un armonia che la vita non ha.
KHIR
1
Il van si fermò sul piazzale sterrato di fronte alle rimesse mentre i cani abbaiavano isterici, correndo avanti e indietro trattenuti dalle catene.
Dalla cabina scese il vecchio. Portava una giacca di velluto consunto e zoppicava. Aggirò l'automezzo rivolgendoci un cenno di saluto ed abbassò il portello posteriore. Mentre lui armeggiava con le cinghie andai a prendere i cavalli.
Lagrimas venne avanti docile, abbassando ogni tanto il muso sulla mia spalla e sbuffando.
Il vecchio fece un gesto verso la cabina e ne scese un garzone scontroso che si avvicinò ad agganciare una lunghina all'anello della cavezza.
I cani continuavano ad abbaiare e a slanciarsi inutilmente, tendendo le catene. Lagrimas li controllava con la coda dell'occhio, fingendo indifferenza, pronto a calciare.
Seguì il garzone fino alle tavole inclinate e qui si fermò.
Il ragazzo, come se lo fosse aspettato, afferrò la cavezza e cominciò a tirare, mentre Lagrimas puntava gli anteriori. Non era nervoso, non recalcitrava: se ne stava semplicemente inchiodato sulle quattro zampe.
Per un po’ il vecchio stette a guardare scuotendo la testa, poi gli percosse leggermente i garretti con la punta di una frusta lunga.
Lagrimas sobbalzò e prese ad arretrare mentre il garzone, aggrappato a due mani alla lunghina, scivolava lungo le tavole.
Il vecchio all'improvviso cominciò a gridare incitamenti, roteando la frusta in aria e facendola schioccare.
Tornai alla rimessa e feci uscire Generale Lee che fremeva, fradicio di sudore per l'emozione d'esser stato lasciato solo. Quando Lagrimas se lo sentì alle spalle si fece remissivo e seguì il garzone, pestando gli zoccoli sulle tavole di legno.
Il vecchio si guardò attorno e si frugò nelle tasche. Disse che a valle avrebbero trovato la nebbia ed io risposi che era probabile, poi sospirò la cifra con tono interrogativo ed io annuii. Finalmente si decise ad estrarre un rotolo di banconote e prese a contarle lentamente, con una specie di tremolio senile, avaro, umettandosi le dita sulla lingua spessa.
Fece un cenno al garzone che stava accovacciato a guardarci con aria assente, mi tese il denaro e si portò una mano alla fronte in segno di saluto.
Salì in cabina con fatica, bestemmiando sottovoce. Si avviarono verso valle con i miei cavalli, che avrebbero probabilmente finito col vendere in un macello clandestino.
Quando furono lontani chiusi la rimessa e tornai a casa.
Lo zaino era pronto.
Il giorno dopo avrei cambiato in franchi i soldi del vecchio e sarei partito.
Mi pareva strano.
Ci avevo pensato per un mese intero senza riuscire a liberarmi dell'idea che ormai fosse troppo tardi per fare qualsiasi cosa, poi avevo cominciato a preparare lo zaino e adesso era lì, con troppe cose dentro per quel viaggio di cui non avevo calcolato il ritorno.
Il giorno successivo arrivai alla stazione ferroviaria con due ore d'anticipo. Decisi di lasciare il bagaglio al deposito e farmi un giretto per riabituarmi all'idea della città.
Il tipo che mi consegnò lo scontrino era pallido, giovane, con lunghe dita magre e unghie orlate di nero. Pensai per un po’ alla sua faccia mentre bighellonavo intorno alla stazione: avevo voglia di chiedergli se pensasse davvero che valesse la pena di starsene lì per i prossimi trent'anni, al calduccio, vicino alla stufa, a testimoniare con indifferenza che c'era gente che se ne andava o che tornava, a raccogliere senza curiosità bagagli d'ogni genere, a riconsegnarli sempre con gli stessi gesti assenti, in quell'odore povero e tranquillo di kerosene.
Ce la mettevo tutta per disprezzarlo e intanto un piccolo demone meschino mi invitava ad invidiarlo.
Finì che l'allegria incosciente che aiuta tutti quelli che partono senza sapere cosa vanno a fare nel posto dove hanno disperatamente deciso di andare prese il sopravvento. Camminai per le strade intorno alla stazione con l'impressione che ci fosse nell'aria un odore di primavera.
Annusavo. Riempivo con ingordigia i polmoni di ossido di carbonio con la convinzione di far scivolare dentro di me anche un impercettibile segnale olfattivo che mi desse ragione.
2
Fuori della Gare de Lyon cadeva una pioggia leggera.
La gente scendeva dal treno e filava via a passi rapidi.
Raggiunsi la stazione della metropolitana e nonostante la pioggia, nonostante che il cielo di Parigi avesse un rassegnato colore d'asfalto, provai quello che si prova quando finalmente, dopo tanto tempo, si trova il coraggio di prendere fiato.
Dovevo comunque trovarmi una sistemazione che fosse economica. Amici o amiche cui telefonare non ce n'erano più ormai, e mi pareva che fosse meglio così. Non essere costretti a rivelare la propria sconfitta.
Scesi a Odeòn. La pioggia era aumentata e non potevo mettermi a cercare sotto quell'acquazzone, così scelsi un alberghetto che era lì a due passi.
Alla reception un negro con gli occhiali cerchiati d'oro mi consegnò la chiave della stanza.
Era all'ultimo piano, piuttosto piccola, con il pavimento stranamente inclinato verso destra, impregnata d'un forte odore di tabacco scuro, freddo, come se chi era stato lì prima di me non avesse fatto altro che fumare una sigaretta dopo l'altra, aspettando qualcosa.
Non era un buon posto per un'attesa, di qualsiasi genere fosse.
Spalancai la finestra e mi lasciai cadere sul letto.
Era un gesto che conoscevo, quello di arrivare in una stanza d'albergo dove non esistevano camere con bagno, gettarmi sul letto sgradevolmente depresso al centro e dormirci su vestito per pensarci più tardi, così non mi sembrò così deprimente come ora che ne scrivo.
Mi svegliai verso le due del pomeriggio per il freddo umido che entrava attraverso la finestra aperta.
La stanza adesso era in ombra, ed in un certo senso appariva più confortevole, ma non appena richiusi i vetri l'odore del tabacco fumato riconquistò l'ambiente.
Mi sciacquai la faccia nel lavandino d'angolo, ci pisciai dentro e mi osservai accuratamente allo specchio, come a cercare i segni che un posto del genere poteva avermi già lasciato addosso, ma avevo soltanto gli occhi gonfi per il sonno inutile e si vedeva che non ero contento, tutto lì.
Uscii.
Mentre scendevo le scale, strette e scricchiolanti sotto una consunta passatoia di moquette fiorata, si aprì la porta di un cesso minuscolo, quasi impraticabile, e insieme ad un odore di feci fresche e disinfettante se ne uscì anche una donna delle pulizie che mi rivolse un sorriso imbarazzato.
Si strinse contro il muro per lasciarmi passare mentre io pensavo che dovevo cercarmi un altro posto dove vivere, perché quella donna di mezza età, sfiancata, che sgattaiolava fuori da un cesso impossibile con atteggiamento colpevole, non volevo incontrarla più.
Fuori la pioggia era cessata. Il cielo, pur senza spiragli nel grigio, aveva una sua gradevole luminosità metallica.
In rue des Ecòles sedetti sulla terrazza vetrata d'un bistròt. Ero affamato.
Mentre divoravo il sandwich di paté mi resi conto d'esser seduto in una posizione contratta, un poco proteso in avanti, sicuramente con un'espressione da fuggiasco. Scoprirmi così mi mise addosso un'allegria molle, infantile. Allungai le gambe sotto il tavolino e sospirai. Ero a Parigi. Il primo passo comunque era fatto.
Rimasi in quel caffé ancora per una mezz'ora, come un pesce senza pensieri nel suo acquario, osservando la gente che scorreva oltre i vetri.
3
Ero risalito lungo rue de la Montagne Sainte Geneviève controllando con distrazione i prezzi fissi dei ristoranti cinesi e all'improvviso, proprio sulla piazzetta di fronte al cancello di ferro dell'Ecòle Polytechnique, mi era tornata in mente una ragazza di molti anni prima, che proprio lì, una notte, si era fermata ad indicarmi i sottotetti, esprimendo con insospettabile nostalgia il desiderio di abitarci.
Entrai al “Le Central” e chiesi una stanza.
Il gestore era spagnolo. Rispose che non c'era posto ed io per incoraggiarlo dissi che volevo una stanza per almeno un mese.
Lui se ne stava affacciato alla finestrella quadrata che dava sul suo alloggetto di servizio e mi studiava.
Si sporse a vedere il bagaglio che non c'era.
Appoggiai una banconota da mille franchi sul piano della finestrella e chiesi se l'anticipo fosse sufficiente. Lui rispose che l'indomani avrebbe avuto una camera per me. Si affrettò a preparare una ricevuta mentre mi comunicava con un certo orgoglio che c'era la doccia in tutte le stanze. Il prezzo era addirittura più basso di quello della stamberga dalla quale venivo.
Mentre già scendevo le scale mi inseguì e, aprendosi in un sorriso raggiante, disse che ero davvero fortunato. Disse che entro la settimana nella mia camera avrebbero messo un materasso nuovo. Mi assicurò che ero arrivato al momento giusto. Lo ringraziai in spagnolo e lui se ne tornò alla sua finestrella rotondo e soddisfatto come uno dei sette nani.
Nel pomeriggio, al Centre de Jeunesse, mi avvicinai al banco informazioni cercando un esordio credibile per una richiesta di lavoro che non apparisse dettata dalla necessità, ma fu superfluo: là dentro andavano di fretta. Il ragazzo al quale mi ero rivolto disse di attendere e si allontanò verso certi scaffali.
Accanto a me c'era una ragazza: un tipino d'una magrezza triste, con corti capelli gialli. Stava in silenzio di fronte alla signorina che da dietro il bancone la osservava con perplessità.
Quando si decise a parlare lo fece mescolando poche parole di francese ed inglese per formulare una specie di richiesta d'aiuto. Era polacca.
Non aveva dove dormire e non aveva soldi per mangiare, le sue scarpe da ginnastica erano malridotte e quando saltò fuori che non aveva neppure un passaporto si udì un mormorio alzarsi tra la gente in coda.
Lei si voltò e sembrò spaventata.
Tutto stava improvvisamente prendendo una piega drammatica e pareva impossibile fare qualcosa che potesse essere utile in quel momento per toglierle dagli occhi la paura.
La signorina dietro il bancone scrisse su un foglietto l'indirizzo di una specie di centro profughi e lo mise sotto gli occhi della ragazza. Scandì il nome della via e lei lo ripeté, sillabando come una bambina. Stava già per andarsene, dopo un incredibile piccolo inchino, quando la signorina dietro il bancone la trattenne e le consegnò un biglietto da cento franchi. Era chiaro che si trattava di un'iniziativa personale ma riuscì ad offrire quei soldi con un gesto così naturale che si sarebbe potuto credere che non facesse altro che seguire una prassi: i soliti cento franchi per chiunque si presenti al banco.
La ragazza polacca ebbe un attimo di indecisione: ci guardò e noi lì attorno recitammo tutti la nostra parte alla perfezione, concentrandoci su prestampati, mappe turistiche e punte delle scarpe, così lei prese i soldi e si avviò verso l'uscita con una minuta dignità commovente.
Tornò il ragazzo dagli scaffali e mi consegnò un elenco delle scuole private di lingue straniere dove avrei potuto presentare domanda per insegnare. Ringraziai e mi avvicinai alla colonna degli annunci per dare un'occhiata.
Cercavano un aiuto istruttore in un maneggio del Bois de Boulogne.
Cavalli.
Una specie di dannazione, ma forse era meglio cominciare da lì.
Uscii e mi incamminai lungo il quai. Non c'era fretta e mi sforzai di considerarlo un lusso.
Prima d'imboccare il Pont d'Iena mi voltai versi i giardini del Campo di Marte.
Proprio al di là della strada c'era il furgone di un gelataio e sulla panchina accanto era seduta la ragazza polacca.
Mangiava coscienziosamente un cono di crema e cioccolato e anche se teneva lo sguardo fisso nel vuoto si aveva l'impressione che pensasse a cose gradevoli, che facesse progetti per il futuro.
Dietro di lei lo spazio era tutto occupato dalla Tour Eiffel. Non era facile dire in che senso, ma stavano bene insieme.
4
Il lavoro al Bois non era male anche se non propriamente da aiuto istruttore. In realtà era un posto da ragazzo di stalla, che comunque avevo accettato.
Avevo il turno pomeridiano.
Rifacevo le lettiere e portavo via lo stallatico, strigliavo, preparavo fieno e pietanza, controllavo che l'aggeggio che forniva l'acqua nei boxes funzionasse a dovere, roba così.
Alle sei rientravano cavalieri che stavano bene in sella: uomini in giacca di tweed e stivali di cuoio rossiccio e belle ragazze con i capelli raccolti. Parevano sempre tutti un poco eccitati, fieri dei loro cavalli che lasciavano alla stanga con qualche buffetto sul collo e qualche parolina, prima di andarsene di sopra, a bere aperitivi seduti nelle poltrone di pelle della sala del Circolo.
Rientravo al “Le Central” verso le otto e mezzo e mi cacciavo sotto la doccia. Non che l'odore di cavallo che mi portavo addosso mi dispiacesse, ma non ero sicuro che potesse piacere a tutti.
Ero a Parigi da una dozzina di giorni e contavo prima o poi di incontrare una ragazza: sarebbe stato meglio poterle raccontare del mio lavoro prima che lei lo capisse dal mio odore.
Pensavo queste sciocchezze sotto la doccia, ridacchiando tra me e cantando sempre la stessa canzone.
In genere cenavo nei ristoranti cinesi che erano lì attorno, poi andavo al cinema, senza quasi mai uscire dal Quartiere.
Prima di rientrare all'hotel salivo fino a Place de la Contrescarpe a bere una birra.
Sedevo ad un tavolino sulla veranda del bar e guardavo gli ubriachi che pisciavano contro le auto posteggiate.
Tornavo fumando l'ultima sigaretta e accorgendomi di non aver detto una parola in tutta la giornata, tranne qualche monosillabo rivolto ai cavalli.
Avevo la sensazione che non ci fosse modo d'uscirne se non attraverso un intervento esterno, il miracolo di un incontro fortuito, dal momento che la pigrizia scontrosa nata con quelle poche cose sicure che mi ero conquistato diventava sempre più una custode gelosa della mia solitudine.
Durante tutto il giorno mi accontentavo dell'ombrosa soddisfazione di bastarmi e alla sera, rientrando all’hotel, avrei dato la paga di un mese per avere qualcuno con cui parlare.
Non ero ancora alla fine della terza settimana e già avevo quasi finito di chiudermi in faccia, disciplinatamente, tutte le porte che avevo intravisto aperte il giorno che avevo trovato il coraggio di partire.
5
C'era un tipo, un certo Yves, che faceva l'istruttore al corso dei bambini e che incontravo il giovedì.
Veniva ai boxes verso le quattro e gironzolava dando occhiate qua e là, mentre aspettava i ragazzini.
Ogni tanto parlava. Si esprimeva in un italiano fitto di termini d'uno slang giovanile in disuso da anni.
Così, quando rientrava una ragazza carina da una passeggiata accettavo con un sorriso imbarazzato che lui mi si avvicinasse e mi sussurrasse con accento francese
- Sana quella pivella eh ?
La ragazza poi, in genere, non riusciva ad allontanarsi senza che lui cercasse di trattenerla blandendola con complimenti disordinati e uno sguardo da maniaco.
Io mi tenevo a distanza, fingendomi indaffarato e sperando che non credessero che io e lui eravamo amici.
Un giovedì arrivò prima.
Sedette su una balla di fieno mentre io oliavo i cardini del portello d'un box e chiese se volevo andare con lui a Villerville, per il week-end.
- Ho due tipe giuste in pista - disse.
Io ero così stanco di cinema e ristoranti cinesi che risposi di sì, senza neppure riflettere. Lui concluse che sarebbe passato a prendermi il sabato alle tre e se ne andò urlando
- Ti faccio scannare una bella gnocca !
Il giorno successivo non ci pensai, anzi, addirittura me ne dimenticai.
Il tempo si era rimesso al brutto e rimasi tutto il mattino sdraiato sul letto a leggere. Avevo trovato da un bouquiniste una vecchia edizione de "Il riflusso della marea" e me lo stavo divorando.
Me lo infilai nella tasca del giubbotto e lo portai con me quando mi venne fame.
Stavo sulla veranda del bistròt di Place de la Contrescarpe e mangiavo, in faccia alla piazza lucida e agli ubriachi fradici di alcool e pioggia che ciondolavano aggrappati alle loro bottiglie. Accarezzavo il dorso del libro e pensavo ai mari del Sud.
Fu allora che mi tornò in mente Yves e l'appuntamento. Forse perché era la cosa in assoluto più lontana da quella che stavo sognando, o forse solo perché Villerville é sul mare.
6
Aveva una R5 gialla.
Salii e lui mi rivolse un’occhiata valutativa, come a controllare che tutto fosse a posto.
Chiese se non avessi una giacca e quando risposi di no parve contrariato. Disse che la sera saremmo andati a ballare e che se avessi avuto la giacca sarebbe stato meglio.
Così adesso potevo farmi un'idea di quello che mi aspettava.
Avrei potuto fingere un malore improvviso ma non mi ero neppure lontanamente preparato ad un'eventualità del genere, così rimasi immobile e - quel che é peggio - con una faccia che poteva sembrare quella di chi é mortificato perché non ha una giacca per andare a ballare a Villerville.
Yves mi incoraggiò afferrandomi un ginocchio con un morso del mulo e mise in moto.
Ammiccò indicandomi il sedile posteriore: appeso ad una stampella agganciata alla maniglia sopra il finestrino c'era un doppiopetto blu con revers avveniristici e grandi bottoni dorati. Troppi e troppo grandi per una giacca sola. C'era anche una cravatta, appoggiata sulla spalla della giacca appesa, e per un attimo ebbi la tentazione di dirgli di toglierla di lì e appoggiarla sul sedile: aviogetti paonazzi si impennavano su uno sfondo verde pallido. Ero sicuro che se la sarebbe stretta al collo con un nodo grosso come un pugno.
Quando fummo alle porte di Parigi mi fece un cenno, perché aprissi il cassetto del cruscotto e mi indicò un walkman. C'erano anche un paio di cuffie.
Dal momento che restavo immobile lui afferrò il registratore e lo incastrò dietro il freno a mano, tra i due sedili, poi prese la cuffia migliore e passò a me l'altra.
Quando ormai stavamo per abbandonare la banlieue Yves aprì di nuovo il cassetto e ne estrasse una scatola di latta, mi lanciò un'occhiata valutativa quindi tirò fuori un sigarotto conico, rollato in papier mais: uno spinello eccessivo quanto i revers della sua giacca.
Me lo affidò con gesto bonario e autorevole, come chi é consapevole di concedere un grande privilegio, e disse
- Accendi.
Mi sorpresi a notare solo in quel momento che era strabico. Non molto, ma comunque con un occhio che picchiava un po’ in dentro.
Accesi e l'auto filò via per una strada tra filari di alberi.
Com'era prevedibile tutto si ammorbidì quanto prima e mi sentii soddisfatto di questo nostro viaggio verso la Manica.
Il registratore aveva una specie di insulso ingranaggio che permetteva, schiacciando un pulsante e parlando nel microfono incorporato, di inserire la propria voce, sovrapponendola alla musica.
Yves prese a farlo sempre più spesso, vaneggiando.
Diceva cose sull'istinto, sull'aristocrazia dell'istinto.
Gli chiesi se facendo così non cancellasse le canzoni e lui rispose di no.
Le sue parole, pronunciate con un timbro di voce nasale e assolutamente prive di senso, mi solleticavano le orecchie e mi scatenavano un'ilarità che trattenevo fino a che lui disinseriva il microfono. Allora ridevo fingendo di sbadigliare.
All'improvviso iniziò una canzone di Gordon Lightfoot che non avevo mai sentito e che mi parve celestiale. Da quel momento non feci altro che riportare il nastro indietro ogni volta che la canzone finiva, per risentirla da capo.
Arrivammo con un tramonto in corso dietro nuvole commoventi.
Yves scese e si precipitò in un bar per telefonare.
La cabina era nel seminterrato, accanto alle toilettes.
Mi disse di aspettarlo e scese. Aveva assunto un atteggiamento che voleva essere rassicurante e non ne capivo la ragione. Mi appoggiai al bancone ed ordinai una birra.
Non riuscivo a farmi un'idea della popolazione di Villerville. Non che ci avessi pensato nei dettagli ma in qualche modo mi ero aspettato gente ruvida con fiammeggianti sguardi di normanni rissosi, e invece questi che avevo intorno erano identici agli avventori di qualsiasi bar del Marais.
Yves tornò e disse che era tutto sistemato.
Sorrideva in maniera forzata ed ebbi l'impressione che le cose non stessero andando come lui si era aspettato ma non dissi nulla. Non lo conoscevo abbastanza per indagare.
Annunciò che saremmo passati a prendere le ragazze verso le nove. Io non chiesi dove avremmo passato la notte dal momento che mi era sembrato di capire che saremmo stati ospiti delle sue amiche; che anzi avrebbe dovuto finire tutto in una specie di orgia.
Yves ordinò una birra e per un po’ tacque. Ogni tanto mi lanciava un sorriso abbozzato, con quell'occhio che gli si nascondeva sempre più dietro il naso, ed avevo l'impressione che fosse uno di quei tipi che, quando le cose non vanno per il verso giusto perché le hanno organizzate male, tendano a cercarsi attorno qualcuno di cui poter pensare che porti sfiga e scaricare su di lui.
Lo fissai con uno sguardo misericordioso e lontano, cercando di convincerlo telepaticamente della mia assoluta inoffensività. Lui si guardò attorno e mi indicò una saletta buia sul fondo del locale: disse che potevamo piazzarci lì e mangiare qualcosa mentre si aspettava. Si avviò ed io, seguendolo, pensai con nostalgia al ristorante cinese di rue de la Montagne Sainte Geneviève.
Passando davanti alla cassa fece un gesto al cameriere, poi entrò nella saletta, tastò la parete e trovò l'interruttore.
L'ambiente si illuminò al neon in tutto il suo squallore: i tavolini erano ricoperti di tovagliette di plastica che imitavano un ricamo all'uncinetto, le seggiole marroni offrivano le loro concave rigidezze in immobili girotondi. Tutti dava l'impressione di non esser stato visitato da anni, come se la saletta, per qualche misterioso motivo, non venisse utilizzata mai.
Venne il cameriere e Yves ordinò altre birre e dei sandwiches. Io lo tenevo d'occhio e pensavo alla sua giacca e alla cravatta con gli aeroplani.
Non capivo perché ma adesso, in fondo a quel viaggio che minacciava di concludersi in un niente mortificante, quel tipo strabico e presuntuoso che azzannava il panino impugnandolo a due mani, mi stava diventando simpatico.
Mangiammo in silenzio e continuammo così fino all'ultimo sorso di birra, poi lui ordinò due caffé e mi disse di aspettare.
Quando venne il cameriere e chiesi il conto disse che aveva già regolato il mio amico: per un attimo ebbi il timore che mi avesse abbandonato lì, in quella saletta, ma ricomparve quasi subito, sfoggiando una baldanzosa allegria. Gli dissi che il suo caffé si stava freddando e lo ringraziai per i panini e le birre. Lui fece un gesto mozzo, come per farmi capire di lasciar perdere, ingollò con una smorfia il caffé senza zucchero e disse andiamo, con un tono come se l'appuntamento ce l'avessimo per un duello.
Ci fermammo di fronte al cancello d'una villetta dal tetto spiovente, lui si sfilò il maglione indossò la giacca dai bottoni dorati, poi accese la luce sullo specchietto retrovisore e si annodò la cravatta.
Io, in silenzio, grattavo con l'unghia del pollice una macchia sul cruscotto. Lui fischiettava.
Quando ritenne d'esser prontò aprì il cassettino, ne estrasse uno spruzzaprofumo e lo utilizzò abbondantemente. L'aroma ricordava la fragranza invadente di certi incensi per ambienti.
Quando me ne spruzzò addosso un poco non dissi nulla: in fondo già ero senza giacca, quindi gli sorrisi riconoscente rendendomi conto che stava cercando di portarmi all'altezza della situazione.
Quando scese per suonare al campanello abbassai il finestrino ed inspirai: per la prima volta da quando eravamo arrivati sentivo l'odore del mare.
Le amiche di Yves erano sorelle.
Arrivarono ridacchiando lungo il vialetto d'ingresso e lui le baciò un sacco di volte.
Scesi quando mi chiamò per presentarmi e le ragazze mi sorrisero senza interesse: scherzavano tra loro e sembravano entusiaste di rivederlo. Lui mi concesse una furtiva strizzatina d'occhio.
Presero posto sul sedile posteriore. Parevano perennemente ansiose di raccontare a Yves fatti di gente che non conoscevo.
Lui annuiva e ogni tanto rideva.
Arrivammo al dancing e mentre camminavamo verso l'ingresso lui mi trattenne per sussurrarmi di pagare l’ingresso alla mia ragazza. Io chiesi quale fosse e lui rispose di non preoccuparmi.
La sala era meno affollata di quanto avessi temuto. Era più che altro un posto per coppiette e la musica era tenuta ad un volume non sufficientemente basso per conversare agevolmente ma neppure abbastanza alta per ballare. La gente che era lì però ballava lo stesso.
Le sorelle si assomigliavano: tra loro c'era una differenza d'età di forse tre o quattro anni ma avevano identici fianchi larghi, fasciati da jeans di velluto elasticizzato, e il petto inguainato in reggipetti sporgenti che rilevavano con una certa arditezza le camicette.
Avevano capelli rossi e occhi molto belli e assenti, labbra lucide sulle quali tutte e due passavano ogni tanto la lingua con un gesto rapido, meccanico come un tic, eppure notevolmente sensuale.
Yves ordinò rhum e coca per tutti e poi si alzò a ballare. Mi lanciò un'occhiata severa e così li seguii sulla pista.
Per un po’ non riuscii a trovare il coordinamento necessario: la musica era realmente troppo bassa ed il fruscìo dei piedi della gente che ballava mi distraeva.
Le due sorelle scuotevano la massa di capelli fulvi a destra e sinistra, Yves ogni tanto piroettava su sé stesso per poi bloccarsi saettando una rapida occhiata attorno, a vedere che effetto avesse sortito la sua mossa da torero ubriaco.
Io risparmiavo energie con passettini un po’ avanti e un po’ indietro, tenendomi d'occhio in una parete a specchio che era sul fondo della sala. Ogni tanto mi perdevo di vista, poi mi ritrovavo laggiù, a muovermi fuori tempo con la faccia seria.
Tornammo a sedere mentre Yves continuava a lanciarmi sguardi enigmatici. Io non sapevo cosa fare per rassicurarlo. Pareva disturbato da qualcosa e temevo che si trattasse della mia scarna socievolezza.
Quando attaccarono gli slow lui spiazzò tutti con una mossa inaspettata: invitò la sorella più giovane che lo seguì sulla pista senza riuscire a nascondere la sua gioia trionfante.
L'altra rimase di sasso e capii d'esser stato testimone involontario d'un avvenimento grave. Yves doveva aver dato il cambio alla guardia senza preavviso.
Tentai di sorriderle ma lei dovette interpretarlo come un gesto di commiserazione, perché si voltò dall'altra parte con una smorfia d'insofferenza.
La situazione in sé era piuttosto comica ma mettersi a ridere poteva rivelarsi rischioso. Lei era fuori di sé. Fumava e beveva in continuazione. Quando terminò il suo bicchiere le offrii il mio e lei accettò senza ringraziare.
Si stava gonfiando di Coca Cola forse sperando che quel poco di rum che c'era dentro sarebbe bastato a sbronzarla, oppure agiva così solo per fare qualcosa, per tenersi occupata.
Finì il mio bicchiere e attaccò quello della sorella.
Non guardava mai verso la pista, dove gli altri due intanto ballavano avvinghiati baciandosi come forsennati. La serie dei lenti pareva interminabile.
Stavo calcolando se dovessi invitarla a ballare o se invece mi convenisse mantenermi completamente neutrale quando lei all'improvviso mi fissò senza dir nulla, senza fare un gesto.
Mi alzai, anzi balzai in piedi, e la invitai.
Mi precedette sulla pista, poi si voltò e io le appoggiai le mani sui fianchi, allora lei posò le sue mani sulle mie spalle ed incredibilmente si aprì in un sorriso amichevole.
Si muoveva bene: guidava lei con piccole mosse sincopate come se ballasse un calypso al rallentatore. Io cercavo di non pestarle i piedi.
Ce ne andavamo in giro per la pista e lei continuava con le sue mossettine, e dopo un po’ m'accorsi che tutto quell'ondeggiar di fianchi sotto le mani mi metteva in subbuglio. Pensai che lo facesse apposta, ma guardandola vidi che aveva un'espressione distratta, allora presi lentamente ad attirarla verso di me, guadagnando millimetro su millimetro e riducendo lo spazio che ci separava con i muscoli delle braccia e delle spalle tesi in uno sforzo statico, mascherato.
Lei, sempre senza guardarmi, emise un piccolo sospiro e docilmente, interrompendo il mio sforzo impietrito, mi si adattò contro e addirittura, come se fosse la regola per due che ballano uno slow, si sistemò in maniera tale che una mia coscia si inserisse tra le sue.
Cercai di baciarla e lei scostò impercettibilmente la testa, facendomi sentire ridicolo. Le spostai le mani dai fianchi lungo la schiena, le afferrai la nuca e la costrinsi a voltarsi verso di me. Mi guardò sorpresa e si lasciò baciare: teneva la bocca spalancata e la sua lingua si muoveva con rapidi guizzi esplorativi per poi ritrarsi e nascondersi, senza che la mia riuscisse ad acciuffarla.
Gli slow terminarono e sulla pista si riaccesero le luci intermittenti.
Yves e la sorellina ci avevano preceduti al tavolo.
Sarebbe stato bello non essere lì.
Yves cercò di dire spiritosaggini a proposito dei ballerini che ora volteggiavano sulla pista al suono di un valzer. Le due sorelle tacevano.
Per qualche insondabile motivo provai il desiderio perverso di vedere crescere quell'imbarazzo e chiesi a Yves se allora si era deciso dove avremmo dormito.
Lui mi guardò perplesso, mentre la sorella maggiore lo osservava e pareva curiosa di sentire la sua risposta.
- Da loro, credo ...
Azzardò lui senza molta convinzione, ma lei lo interruppe, dicendo che non se parlava nemmeno.
La più giovane mormorò qualcosa che non riuscii ad afferrare, l'altra la zittì e quella scoppiò a piangere.
Yves disse - Andiamo - e nessuno si mosse. Allora si alzò e si avviò da solo verso l'uscita.
Le due sorelle non lo guardarono: già la più vecchia sporgeva una mano ad accarezzare i capelli dell'altra con un gesto di affettuosa comprensione e quest'ultima, spostandosi sul divanetto, le si accoccolava accanto, appoggiandole la testa sulla spalla e continuando a piangere sommessamente.
Si scambiarono sussurri che non riuscii a decifrare. Intanto Yves era scomparso ed io mi sentivo improvvisamente esausto, senza neppure la forza di alzarmi.
Le due sorelle parevano essersi dimenticate che ero ancora lì.
Pensai che ora Yves sarebbe partito, abbandonandomi a Villerville in piena notte, eppure non mi riusciva di preoccuparmene: mi pareva di poter restare in quel posto, di fronte alle due sorelle, per l'eternità.
Dopo un po’ mi sporsi in avanti e chiesi se potevo fare qualcosa per loro. La più giovane alzò la testa e mi guardò come se mi vedesse per la prima volta, l'altra disse che ormai le cose stavano come stavano e che ero gentile ma tanto valeva che raggiungessi il mio amico.
Mi alzai e mormorai confusamente il mio rincrescimento, poi mi allontanai dopo esser stato congedato dai loro sguardo vagamente ostili.
Yves era seduto in macchina.
Si era tolto giacca e cravatta e stava in maniche di camicia aggrappato al volante.
- Diofà due pice così mai più ! Te com'é che ci hai messo tutto sto tempo a sganciarti ? - disse.
Io non risposi, lui mise in moto e tornammo a Parigi.
7
Non lo rividi che il giovedì successivo.
Arrivò, sedette su una balla di fieno e chiese se sapevo giocare a poker.
Io, che dopo Villerville avevo deciso di tenere un buon margine tra noi, risposi che dipendeva. Come nei film.
Lui prese a grattarsi un orecchio e mi guardò senza capire.
- Che cazzo vuol dire ? Sai giocare o no ?
Dissi che sapevo ma non mi piaceva.
Per un po’ stette a guardarmi con un velo di sospetto, poi mormorò che era un peccato, mentre io continuavo a riempire le magiatoie.
Yves non era comunque il tipo da arrendersi di fronte ad una resistenza così pacifica. Mi si mise al fianco e disse che c'erano due tali carichi di soldi da ripulire. Risposi che non sapevo giocare così bene e lui mi abbracciò come se avessi detto che ci stavo.
Avremmo giocato in cinque: lui, il suo socio, i due polli ed io. Mi spiegò che per il loro metodo occorreva questo quinto inerte. Disse che non avevo nulla di cui preoccuparmi ma solo seguire le istruzioni che mi avrebbero impartito: andare, rilanciare, passare a seconda dei segnali. Disse che era facile come bere un bicchier d'acqua e che potevamo vincere un diecimila a testa.
Avevo il timore che sarebbe finita come a Villerville ma gli chiesi lo stesso quando e con quanti soldi. Lui rispose che era per il giorno dopo e che la puglia me l'avrebbero anticipata loro, poi se ne andò fischiettando.
La sera uscii dal quartiere per andare a rivedere “La Stangata” in un cinema di Montparnasse.
Il giorno seguente ero sul solito angolo di rue des Ecòles ad aspettare con un po’ d'anticipo.
All'ultimo momento, quando già avevo intravisto tra le auto che si avvicinavano l'R 5 gialla, attraversai in fretta e mi misi ad attendere sull'altro angolo. Dal momento che si andava a giocare d'azzardo tanto valeva non vergognarsi d'un istintivo gesto scaramantico.
8
Si giocava a casa del socio, un certo Gérard, che venne ad aprirci in vestaglia, rivolgendoci un sorriso scoraggiante che poi si tenne ormeggiato sulle labbra sottili per tutta quanta la serata.
Ripassammo i segnali, facemmo qualche prova e poi Gérard mi consegnò cinquemila franchi dicendo che se volevamo qualcosa da bere potevamo servirci. Lui andava a prepararsi.
Visto di spalle era molto massiccio, molto di più di quanto non sembrasse di fronte. Era strano.
Yves versò da bere anche per me e passò il bicchiere: sorrideva come credo pensasse debba sorridere un gangster. Portava la sua giacca blu con i bottoni dorati ma era stato molto più sobrio con la cravatta.
Mi guardai attorno. La stanza dove eravamo era grande, con un'intera parete vetrata che si affacciava sulla Senna.
Il tavolino da gioco era in un angolo, sotto la luce di un'abath-jour ad arco: appoggiati sul panno verde c'erano due mazzi sigillati ed una scatola di legno chiaro che probabilmente conteneva le fiches.
Yves si accese una sigaretta e disse che il giorno dopo avrei avuto i soldi per farmi un bel viaggetto, se avessi voluto. Gli sorrisi ed annuii mentre Gèrard ricompariva in un abito di lino color aceto. Doveva essere sui cinquant’anni.
Quel suo sorriso meccanico mi metteva a disagio.
Non riuscivo ad immaginare come lui e Yves si fossero incontrati e soprattutto come avessero deciso di associarsi.
Dovemmo attendere ancora per una mezz'ora mentre loro due chiacchieravano di donne.
Di ognuna Yves si premurava di comunicare qualche particolare caratteristica sessuale per farci sapere che, come diceva lui, aveva dato una bella botta a tutte quante.
Gèrard lo ascoltava distratto, forse abituato alle sue smagiassate, ma si incuriosiva per le età: di tutte voleva sapere quanti anni avessero e da quanti anni scopassero. Credo che se Yves ne avesse conosciuta una che aveva cominciato intorno ai sette o otto anni sarebbe riuscito a conquistare tutta la sua attenzione. Probabilmente era un po’ maniaco, anche se in fondo dava l'impressione di essere relativamente innocuo.
Finalmente suonarono alla porta e improvvisamente mi sentii come quando da ragazzino gli amici mi costringevano a salire sull'ottovolante che odiavo. Sul quale comunque salivo perché non pensassero che avevo paura.
Uno degli ospiti era grasso, sulla quarantina. Portava all'anulare sinistro un brillante grosso come una nocciola. L'altro era più giovane, parlava con una voce sgradevole, tutta di naso, e si guardava attorno come se cercasse qualcosa.
Aveva occhi troppo chiari, acquosi.
Ci sistemammo al tavolo e Gèrard fece scivolare il carrello a portata di mano.
Offrì al ciccione di togliere i sigilli da uno dei mazzi e questi rifiutò cortesemente, come a denunciare la sua fiducia.
Intanto l'altro estraeva dalle tasche altri due mazzi chiedendo che si cambiassero le carte ad ogni ora.
Stabilirono un limite molto alto per il rilancio e cominciammo.
Dopo quattro ore perdevamo.
Io non ero sceso sotto i miei cinquemila ma Yves e Gèrard sì, e di molto anche.
Tutti i nostri giochi avevano dato risultati mediocri, come se i nostri avversari ogni volta avessero subodorato qualcosa.
Avevo la vaga impressione che quello che noi si cercava di fare in tre loro riuscissero a fare in due.
Io mi attenevo scrupolosamente alle istruzioni ricevute ma non conoscevo i segni tra Yves e Gèrard, e non capivo come mai avessero preso a giocare come se fossero uno contro l'altro.
Gli altri due ritiravano imperturbabili le fiches.
Verso le tre mi parve che fosse arrivata l'occasione di fare da solo e tirarmi sù almeno della mia parte. Volevo comunque restituire la puglia a Gèrard.
Ero secondo a parlare con tre assi in mano, dopo il tipo con gli occhi acquosi. Lui passò ed io aprii senza esagerare, perché mi seguissero tutti ma il grassone, dopo un attimo di esitazione, si ritirò.
Gèrard gli rivolse una strana occhiata: prima a lui e poi all'altro, che però guardava le sue carte come se pensasse che era ora di andare a dormire nonostante non si fossero ancora chiamati i giri.
Yves e Gèrard rimasero in gioco.
Il ciccione, all'occhiata di Gèrard, aveva avuto un istante d'imbarazzo, ma me ne ricordai soltanto dopo.
Per ora ero preso dalle due donne che erano venute a tener compagnia ai tre assi dopo il cambio.
Occhi Acquosi aveva cambiato una carta e pareva meditare di ritirarsi. Mi guardava con indifferenza, come uno che ormai ha deciso di uscire dal gioco, ed aspettava che parlassi.
Io volevo trattenerlo: volevo portargli via un po’ di quelle dannate fiches ed esitai, con la faccia di uno che sta pensando ad un cip, poi rilanciai di poco, ma Yves alzò in maniera sciocca, ostinata, e Gèrard rilanciò a sua volta.
Credevo che ormai saremmo rimasti noi tre soli a scannarci in maniera ridicola quando inaspettatamente Occhi Acquosi raddoppiò.
Lo guardai senza capire.
Lui giocherellava in maniera provocatoria con la sua montagnola di fiches.
Il piatto era discreto, più o meno la metà di quello che stavo perdendo: con il raddoppio sarei andato in pari.
Lui aveva l'aria di voler fare una fesseria solo per vivacizzare il gioco: non aveva aperto all'inizio, come primo di mano, poi aveva cambiato una carta. Anche se gli era andata bene la sua scala non batteva il mio full.
Dissi che vedevo e in quel momento mi folgorò l'idea che potesse essergli entrato un colore. Ma era andata peggio. Abbassò il poker di dieci che aveva avuto in mano, servito, fin dall'inizio.
Era stato bravo, aveva calcolato bene il suo rischio passando con un poker servito per poi farci a brandelli. Però adesso sghignazzava soddisfatto e questo era insopportabile.
Avevo in tasca un coltello a serramanico che ero convinto mi portasse fortuna. Pensai di tirarlo fuori. Sapevo che non ne avrei avuto il coraggio ma per un momento mi piacque immaginare cosa sarebbe successo se all'improvviso ci fossi riuscito.
Mi voltai verso il ciccione e vidi che aveva perso quell'espressione di trionfo gioviale che aveva conservato per tutta la partita.
- Lavorate sotto il tavolo - disse Gèrard.
Occhi Acquosi smise di ridere così in fretta che fu come se avesse risposto che era vero poi, a parole, negò con indignazione.
Yves posò il bicchiere e scostò leggermente la sedia.
Ora la tensione era così pesante che pareva di poterla in qualche modo addirittura toccare. Era chiaro che la partita era finita e che ora sarebbe successo qualcosa.
Gèrard fece per alzarsi, ed il suo gesto mi parve solo quello di uno che rinuncia a proseguire il gioco, ma i due scattarono insieme a lui. Così si trovarono a guardarsi, in piedi tutti e tre.
Era evidente che il ciccione ed Occhi Acquosi avrebbero dato chissà che per non essersi mossi, per esser rimasti a sedere senza lasciarsi tradire dal nervosismo, così forse l'incidente si sarebbe chiuso, mentre ora invece era aperto, spalancato.
Gèrard tolse la mano di tasca e sulle falangi brillarono gli anelli acuminati di un tirapugni. Ribaltò il tavolo e agguantò il ciccione. Occhi Acquosi schizzò verso la porta d'ingresso ma Yves gli si buttò alle gambe.
Gèrard teneva il suo uomo che scalciava con gesti convulsi, stranamente femminili, poi gli allentò un pugno alla mascella e l'osso mandò un suono di legno scheggiato.
Yves stava sotto Occhi Acquosi e le prendeva.
Raccolsi la scatola delle fiches, aggirai i due a terra e rimasi un po’ a guardare per scegliere il punto, poi colpii sul profilo, sotto lo zigomo, tenendo la scatola di taglio e impugnandola a due mani.
Gli occhi acquosi si sgranarono e lui emise una specie di ruggito straziato. Colpii di nuovo, questa volta di piatto, sfasciando la scatola. Lui si afflosciò addosso a Yves che lo rigirò sul tappeto imprecando.
Il ciccione era in ginocchio a mani giunte e implorava Gèrard. Piangeva e le parole gli uscivano a fatica dalla bocca che non riusciva più a chiudere completamente.
Gèrard gli portò via tutto: soldi, orologio, braccialetto, catena, carte di credito ed il brillante che portava all'anulare.
Yves mi chiese di aiutarlo a ripulire Occhi Acquosi che se ne stava svenuto sul tappeto.
Ormai mi muovevo come un automa: avevo superato da un pezzo la fase in cui uno pensa che quello che sta accadendo accada davvero. Ora mi sentivo pesante nel corpo e leggero in testa come nei sogni, ma non volevo sapere cosa fosse, volevo soltanto che finisse.
Aiutai Yves ed uscimmo in fretta dall'appartamento. Sull'ascensore fecero una divisione rapida del bottino.
Io non capivo come mai Gèrard stesse scappando lasciando quei due in casa sua. Guardavo tutti quei soldi in quello spazio ristretto ed immaginavo che avrebbero finito coll'aumentare sempre di più, fino a soffocarci.
Gèrard intascò due mazzette di banconote chiuse con una fascetta senza neppure contarle e Yves alzò le spalle.
Mi stava aggredendo una nausea fluttuante, come quella che si prova a volte in aereo. Mi misero in mano la mia parte mentre si aprivano le porte automatiche dell'ascensore. Attraversammo la hall deserta e corremmo fuori.
Gèrard fece solo un gesto, senza guardarci, prima di scomparire.
In macchina Yves continuava a ripetermi che non dovevo preoccuparmi di nulla. Disse che di quella casa Gèrard aveva fatto un doppione delle chiavi asportandole per pochi minuti dall'armadietto di una palestra. Aveva tenuto i proprietari sotto controllo e sapeva che erano via per un viaggio. Se il ciccione e Occhi Acquosi si fossero rivolti alla Polizia avrebbero finito col passare dei guai.
Rideva. Era evidente che era fiero di come erano andate le cose. Ripeté che potevo stare tranquillo. Io risposi che avrei lasciato il lavoro al maneggio e che sarei fuggito.
Ora mi rendevo conto che stavo diventando isterico ma non facevo nessuno sforzo per controllarmi.
Urlai che non volevo avere più niente a che fare con lui e con tutte le sue maledette idee, minacciai che lo avrei denunciato, dissi che per quel che ne sapevamo Occhi Acquosi poteva anche essere morto.
Yves disse di darmi una calmata e di non farmi venire strane idee. Sussurrò che se quel bastardo era morto lo avevo ammazzato io e quindi ero quello che ci avrebbe rimesso di più se la cosa veniva a galla.
Aveva ragione.
Mi sarei messo a piangere, mi sentivo perduto. Completamente.
Avrei chiesto perdono in ginocchio a chiunque pur di togliermi quel peso di dosso ed ero indeciso se approfittare di Yves, che era lì, a portata di mano, incazzato con me, o se ricorrere direttamente a Dio.
La città era semideserta e noi filavamo lungo i boulevards mentre io mi ritrovavo a sperare che quella notte, quel viaggio, quelle strade vuote non finissero più per non rimanere solo.
Ad un tratto Yves riprese a parlare e raccontò che Gèrard era fratello di sua madre, che aveva ricevuto una brutta ferita durante la guarra d'Algeria e che aveva combattuto anche in Indocina.
Disse che aveva dei vizi costosi. Che quei due li avremmo derubati comunque, anche senza scoprire che baravano e che aveva scelto me perché Gèrard gli aveva detto di trovare un coglione qualsiasi. Uno che si potesse manovrare con facilità e togliere di mezzo con altrettanta facilità se avesse creato dei problemi. Mi chiese se capivo cosa intendeva.
Scesi quasi al volo sull'angolo di rue des Ecòles senza salutare.
Yves non sapeva dove abitavo e a questo punto non volevo che neppure lo immaginasse.
9
La prima volta era stato per caso, in una birreria.
Sedeva al tavolo con gente che conoscevo.
Mi ero avvicinato per salutare ed avevo finito col fermarmi a bere con loro, seduto di fronte a lei.
Stava con le ginocchia sotto il mento, le gambe raccolte ed i talloni sull'orlo della sedia. I suoi zoccoli svedesi erano diligentemente appoggiati uno accanto all'altro sotto il tavolo.
C'era in lei qualcosa di clownesco, di sospeso. Sgusciava dentro la salopette di parecchie taglie più grande della sua come se si muovesse in una stanza e non dentro i suoi abiti.
Io bevevo birra e l'ascoltavo. Stava dicendo che l'indomani sarebbe tornata a Parigi. Qualcuno mi spiegò a mezza voce che lei lavorava lassù, in una scuola per mimi.
Mi incuriosivano i suoi occhi azzurri dietro le lenti rotonde: parevano sempre scrutare piuttosto lontano. Erano stretti, orientali, sapientemente inespressivi.
Le dissi che aveva degli occhi strani e lei rispose che era epicanto. Spiegò che era tutta una questione anatomica di palpebre rare.
Ad un tratto, mentre parlava con un'amica che le sedeva accanto, si sfilò i calzettoni ed appoggiò i piedi nudi nel grembo di lei, che prese ad accarezzarglieli come si accarezza un bambino.
C'era in quel gesto qualcosa di bello che nello stesso tempo mi procurava un disagio infantile.
Lei aveva poi chiamato un cameriere senza riuscire a farsi sentire e allora lo aveva inseguito, scalza, ed io mi ero incantato a guardarle quei piedi agili e belli.
Tutto era accaduto in Italia mesi prima, ed ora avevo sognato passi scalzi di donna, armoniosi sul porfido di una strada battuta dal sole. E non li avevo riconosciuti.
Erano le undici del mattino e la luce invadeva da un pezzo la mia stanzetta del “Le Central”.
Trascorse un breve momento prima che ricordassi quello che era successo la sera precedente, ma quando ci arrivai fu come se mi avessero scagliato addosso un sacco di cemento: rividi Gèrard e Occhi Acquosi e le carte e l'ascensore.
Anche se Yves aveva detto che non sarebbe successo nulla dovevo comunque trovare il modo di garantirmi una via d'uscita.
Mi preparai in fretta e scesi in strada, mi chiusi nella cabina telefonica che era di fronte all'albergo e chiamai il maneggio del Bois per avvertirli che dovevo lasciare il lavoro. Quando la segretaria mi chiese l'indirizzo per potermi spedire lo stipendio dell'ultima settimana cominciai a gridare - Hallo ? - mentre lei insisteva a domandare se la sentivo. Quando finalmente si stancò ed abbassò il ricevitore ero senza fiato.
Uscii dalla cabina e scesi fino a rue des Ecòles per comprare il giornale.
Era impossibile che ci potesse già essere notizia della nostra avventura ma lo feci lo stesso. E infilando la mano nella tasca interna del giubbotto incontrai la consistenza colpevole del rotolo di banconote.
Me ne ero completamente dimenticato.
Ora la testa aveva preso a ronzarmi e il cuore a pompare sangue a tutto spiano. Restai immobile in quella posizione e la vecchia del chiosco, con il suo grugno rugoso incorniciato dalle copertine delle riviste, ripeté impaziente quanto le dovevo.
Pagai con una di quelle terribili banconote e tornai di corsa all'hotel.
Faticai nel costringermi a non contarle subito. Controllai prima persino gli annunci pubblicitari e quelli personali, poi presi a distendere le banconote una per una sul letto.
All'inizio non parevano rappresentare una gran somma, ma alla fine avevo trentaduemilaquattrocentoventi franchi messi in fila davanti a me, ordinati in mazzette di tagli diversi.
Mi ci sdraiai sopra, e mentre appoggiavo la testa al cuscino obbligandomi all'immobilità nonostante il formicolio che mi stava attanagliando lo stomaco, mi tornò in mente il sogno.
Lo afferrai appena in tempo, o meglio ne agguantai un frammento: quei piedi nudi sul lastricato grigio.
Era faticoso trattenerlo.
Provavo una voglia pigra d'abbandonarlo e pensare ad altro. Per qualche minuto comunque lottai cercando di ricordare il resto del sogno, ma i piedi restavano un'immagine senza storia, che si circondava di scintillanti fosfeni impazziti quando chiudevo gli occhi per uno sforzo inutile.
Alla fine rinunciai. Non sarei mai riuscito a sapere dove conducesse quella strada.
Riaprii gli occhi e ricordai quei passi, sul pavimento della birreria.
La cosa imprevedibilmente mi rese felice e confuso per l'ingiustificato entusiasmo che quel ricordo scatenava. I soldi si spiegazzavano sotto di me ed io mi sentivo eccitato come un innamorato al primo appuntamento.
Mi masturbai frettolosamente, senza pensare a nulla, prima di uscire e andare al Centre de Jeunesse dove avrei potuto trovare un elenco delle scuole di mimo della città.
10
Mi pareva di ricordare che quella sera in birreria avesse parlato di rue Saint André des Arts, così fu facile trovarla, in fondo ad un cortile di rue Git le Coeur.
Sedetti irrequieto sui gradini che salivano ad un ballatoio di legno.
Un uomo anziano, con una barba grigiastra, mi osservò per un momento di lassù, poi si ritirò, richiamando un cane che sentii zampettare sopra la mia testa.
Quando lei uscì non provai stupore. Nell'attesa eccitata si era nascosta la tranquilla certezza d'essere nel posto giusto.
Portava gli zoccoli di cuoio nero, capelli corti sulla fronte e lunghi sulle spalle, gli occhiali dalla sottile montatura di metallo.
Mi alzai sorridendole e lei mi venne incontro inclinando il capo un poco di lato, con un movimento di miopia curiosa, forse diffidente. Quando mi riconobbe chiese che cosa ci facessi lì. Risposi che ero di passaggio, mentendo, per chissà quale desiderio di fare apparire le cose diversamente da quelle che erano.
La invitai a sedere al tavolino di un bar di place Saint Michel e restammo a parlare e bere birra per quasi due ore.
Per tutto il tempo non feci che pensare a come chiederle di continuare a vederci, angosciato dall'idea che avesse qualcuno, che mi rispondesse ma cosa ti viene in mente.
Quando dopo quelle due ore di chiacchiere vaghe lei si alzò e raccolse la sacca io non sapevo che dire. Capii soltanto che, dopo, stare di nuovo solo mi sarebbe parso insopportabile, così mi alzai a mia volta e con un enorme ed insulso sforzo di apparire disinvolto le chiesi se potevo accompagnarla. Rispose che abitava lontano ed io alzai le spalle sorridendole.
Dovetti insistere per portarle la borsa, dalla quale spuntava il lembo di un asciugamano azzurro.
Scendemmo alla metropolitana e mentre salivamo sulla carrozza infilai il braccio lungo i manici della borsa per appoggiarmela alla spalla: dall'interno scaturì per un istante un odore morbido, ancora caldo di lei, intenso ed inatteso come un presagio.
Abitava con un'amica in rue Ramay, una strada che ad un certo punto si inarca in un dosso, offrendo un incoraggiante sguardo al cielo prima di iniziare la discesa. Per il resto tutto portava i segni della resa di Montmartre: i nordafricani pisciavano sui marciapiedi appena fuori delle pensioni dove si stipavano in sei o sette per stanza. Piccoli negozi musulmani, quasi sempre sprofondati in un'oscurità silenziosa, offrivano merce a buon mercato. Nell'aria fluttuavano odori algerini e dialoghi arabi scivolavano sulle porte dei bistrot.
L'appartamento era al secondo piano.
I gradini di legno salivano in tondo, consunti ed inclinati sul lato interno.
In casa c'era Elda, l'amica, che mi osservò come se dovesse per qualche ragione riconoscermi. Aveva un modo obliquo di osservare e camminava con un'incredibile lentezza ondeggiante, come al suono di una musica da incantatore di serpenti.
Sedemmo su cuscini che erano appoggiati in terra e parlammo tra noi, bevendo thé al gelsomino, mentre la luce all'esterno gradualmente si assopiva e la stanza scivolava impercettibilmente nell'oscurità.
Mi invitarono a cena.
Elda offrì il vino del padre, un muratore italiano emigrato in Francia molti anni prima.
Parlò di lui, dei fratelli e delle sorelle, e non capivo se il tono aspro con il quale affrontava l'argomento lo suscitasse l’imbarazzo o la fierezza. Probabilmente tutte e due le cose, senza che lei riuscisse a decidersi per l'una o per l'altra.
Fu un pasto allegro, nonostante il desiderio che Elda aveva di ferire e che l'amica arginava con un sorriso in cui gli occhi si facevano fessure sottili.
Era tardi quando me ne andai.
Scesi di corsa fino alla stazione di Barbès-Rochechouart e balzai col fiato mozzo sull'ultima carrozza.
Restai seduto con i gomiti appoggiati alle ginocchia a fissare il finestrino che rifletteva la mia immagine.
A Odeòn scesi perché volevo camminare e pensare più intimamente a lei e al fatto che all'ultimo momento, sulla porta di casa, mentre Elda ammonticchiava i piatti nel lavello, ero riuscito a dirle che l'indomani sarei passato alle cinque alla scuola di mimo, e lei aveva annuito con un sorriso indecifrabile.
11
Sedevamo sul muretto basso affacciato sulla Senna.
Sull'altra sponda alcuni pescatori se ne stavano pacificamente immobili, come manichini. Sopra di noi il rombo ovattato delle auto che sfrecciavano sul quai de la Tournelle pareva quello di un temporale lontano.
Lei guardava sull'acqua e beveva birra dalla bottiglia che avevamo comprato ad un chiosco arabo di rue Saint Severin.
Aveva insistito dicendo che trovava più tranquillo ed anche più economico bere in riva alla Senna, così io avevo rinunciato ai tavolini assolati dei bistrot per accontentarla. Aveva voluto anche che dividessimo la spesa della bottiglia.
Per quella sera comunque ero riuscito ad invitarla a cena in uno dei ristoranti cinesi più eleganti del quartiere e lei, più incuriosita che disponibile, aveva accettato.
Quando il sole del pomeriggio scivolò docile in qualche punto invisibile dell'orizzonte ci avviammo alla scala che saliva al quai.
Camminavamo lentamente e parlavamo di Elda.
Lei mi raccontò che aveva lasciato un tale che lavorava all'ambasciata dello Zambia, e con il quale aveva vissuto quasi due anni, per dedicarsi ad una relazione omosessuale.
Elda ne aveva fatto un accenno la sera precedente, durante la cena, e alla fine mi aveva fatto vedere delle fotografie: quella in bianco e nero di una donna alta, con un rapace naso adunco su un viso affilato, che fissava l'obbiettivo con sguardo altezzoso, appoggiata ad un cancello, e quella a colori in cui lei e Roland, il tipo dell'ambasciata, stavano accanto su una spiaggia greca. Sorridevano tutti e due, con i piedi affondati nella sabbia e il mare alle spalle, nudi. Il corpo di Elda era come lo avevo immaginato, con i seni rotondi e alti, la pancia levigata un po’ sporgente sul bacino largo, le gambe lunghe, nervose, leggermente arcuate. Roland teneva una delle sue solide mani nere sulla sua spalla. Era massiccio, d'un color melanzana, con il bianco degli occhi e del sorriso baluginanti come in un'ombra.
Mi ero soffermato ad osservare l'appendice portentosa che gli penzolava tra le cosce ed Elda, alle mie spalle, aveva detto ridendo che un arnese così grosso era davvero un'esperienza indimenticabile, e nel dirlo ci aveva appoggiato sopra l’indice.
Ero tornato a guardare la donna, ferma sul cancello in quell'autunno in bianco e nero, pensando al letto di Elda che avevo intravisto poco prima andando in bagno, con le lenzuola blu, d'un tessuto che pareva seta.
Tornai con lo sguardo a lei nuda sulla spiaggia e la immaginai alle prese con quei suoi due amanti, in quel letto disfatto, spostandomi a sedere sul bordo della sedia per assecondare un'erezione incontrollabile.
12
Era molto presto. La sala del ristorante era vuota.
Il direttore ci venne incontro con un sorriso cerimonioso e ci fece accomodare ad un piccolo tavolo per due, che permetteva di stare di fronte ad una distanza ottimale: vicini al punto che non avrei dovuto neppure alzarmi dalla sedia, ma solo sporgermi in avanti, se avessi deciso di baciarla, anche se ormai sapevo che niente al mondo mi avrebbe dato il coraggio di fare una cosa del genere.
Così discorremmo con pazienza ed io finii col raccontarle dei miei primi tempi a Parigi, facendola ridere con la storia di Villerville.
Alla fine un cameriere portò il saké, versandolo in tazzine turchesi. Sul fondo della mia, quando restò vuota, comparve la figura di una donnina nuda.
Il direttore, che nel frattempo si era avvicinato con il conto, sorrideva compiaciuto. Lei volle vedere il fondo della mia tazzina e lui finse imbarazzo: rideva cerimoniosamente come solo loro sanno fare, costellando il suo precederci verso l'uscita con una serie di piccoli inchini e sguardi radiosi.
Quando fummo in strada lei mi rivolse un'occhiata emettendo un piccolo fischio.
- Accidenti, quel tipo mi ha stancata – disse.
13
Seduti sulla veranda di Place de la Contrescarpe bevevamo khir.
Lei alzava la piccola coppa rotonda ed osservava con compiacimento infantile i riflessi color rubino attraverso il vetro. I suoi occhi tornavano poi su di me come a chiedere qualcosa, sempre con uno sguardo d'indagine distratta, di curiosità vaga, a mezzo tra il divertimento e il sospetto.
Ci vedevamo da dieci giorni e in quel breve periodo io ero riuscito a distanziarmi solidamente dalla capacità di essere diretto con lei.
Più passava il tempo e più una maligna forza incontrollabile mi suggeriva di aprirle spiragli su una mia memoria segreta che a lei comunque non interessava e che anzi, spesso finiva con l'irritarla.
Avevo la sensazione che nel raccontarle certi miei ricordi questi si trasformassero, assumessero il valore illuminante del presagio del nostro incontrarci, e così mi ingegnavo di offrirglieli con i miei discorsi sconclusionati.
Quella sera, bevendo khir, le raccontai che dieci anni prima, in un pomeriggio d'estate, nella stanza all'ultimo piano d'una casa in Fentiman Road, a Londra, mi ero addormentato mentre sul giradischi suonava “Foreigner” di Cat Stevens. La ragazza della quale allora ero innamorato sedeva ai piedi del letto e chiacchierava sottovoce con un'amica.
Il mio sonno breve si era impregnato di quella lunga canzone e delle voci sommesse delle due ragazze, trasformandosi in una specie di miraggio nel quale, dopo il risveglio, avevo creduto di riconoscere un senso completo di pace, una specie di serenità prenatale.
Una volta tornato in Italia avevo comprato il disco ed avevo tentato in certi pomeriggi, addormentandomi in compagnia di quel suono, di ricongiungermi alla sua magia. E mai più questa si era ripetuta.
Avevo avuto addirittura l'impressione che la musica non fosse davvero quella, che mancasse di interi passaggi armonici, che fosse misteriosamente un'altra e la stessa.
Alla fine avevo rinunciato a quegli esperimenti semplicemente dimenticandomene e ora, con lei, avevo ricordato quel pomeriggio scoprendone finalmente il segreto evidente, fatto della sua irripetibilità.
Seduto al tavolino di un bar di Parigi in primavera, a dieci anni di distanza da quella Londra estiva dove ogni tanto si udivano gli urti sordi delle bombe irlandesi, rievocavo quel pomeriggio e mi emozionavo nello scoprirvi il dono allora non riconosciuto che era scivolato nella memoria.
Quasi soffocato dall'emozione della scoperta le dissi che in quella stanza io avevo sentito la musica che era nascosta in quella canzone.
Lei posò il bicchiere sul piano di marmo del tavolino e mi fissò per un istante con i suoi occhi sottili, poi scosse la testa ridendo.
- Tu hai bisogno di prendere un po’ d'aria – disse.
14
Dopo ventun giorni di distanze tra noi che si facevano incolmabili e alle quali io mi aggrappavo come ad un'abitudine una sera ci trovammo seduti in Place du Tertre: una nottata di stelle e vento tiepido e gente che rideva senza l'animosa volgarità turistica che mortificava in genere il luogo.
Quella sera lei, come se fosse stata una cosa normale, accaduta altre volte, scavalcò il muro tra noi e appoggiò la testa alla mia spalla.
Più tardi sulle scale scricchiolanti, nell'opacità delle lampadine coperte di polvere, la seguii fin sulla porta di casa sua e ci baciammo prima di entrare.
Elda sedeva in cucina, in camicia da notte, a bere un bicchiere di latte. Ci osservò con uno sguardo vagamente sorpreso ma non disse nulla.
Ci spogliammo in penombra. La stanza era alonata dalla luce indiretta dei riflettori della cupola del Sacre Coeur.
Scivolammo furtivi nel letto.
Lei aveva posato gli occhiali a terra, accanto al materasso, e i suoi occhi si assottigliavano in sorrisi che non le conoscevo. Stentavo a credere che si trattasse solo dell'effetto di quel buio incompleto che ci cambiava le facce.
Non parlavamo. Io cercavo con la lingua i suoi sapori sul collo, sui capezzoli che mi si inturgidivano in bocca, tra le cosce che si erano aperte senza tentennamenti.
Con un respiro lungo aveva inarcato un poco la schiena ed io ero risalito lungo di lei appoggiandomi sul suo ventre.
Se lo guidò dentro con una mano e strinse le gambe.
Sentivo i muscoli delle sue cosce contrarsi ritmicamente sotto le mie. Poi all'improvviso, con un po’ d'affanno, disse
- Quando vuoi vieni.
Io risposi che l’avrei aspettata e lei scosse la testa.
Mi fermai. Chiesi cosa ci fosse che non andava e lei spiegò con comprensiva tenerezza che le piaceva molto sentirmi dentro di lei, che sapeva che le sarebbe piaciuto sentirmi venire, ma che all'orgasmo lei ci arrivava solo scopando con un'altra donna.
Non dissi nulla. Spinsi con rabbia fino a godere sperando che non fosse vero che mi stavo innamorando di lei, e quindi potermi alzare ed andarmene, dopo.
Invece riuscii solo a scivolarle accanto abbracciandola e ad addormentarmi in una posizione scomoda, obliqua, con la schiena contro la parete fredda, perché lei potesse restare con la sua guancia sulla mia spalla e dormire con le labbra socchiuse.
15
Dopo due settimane ero stanco di girovagare senza meta per le strade della città in attesa che arrivassero le cinque per correre a prenderla in rue Git le Coeur.
Per qualche tempo mi ero aggirato al Louvre, poi avevo scelto itinerari bizzarri, spingendomi fino ai capolinea della sotterranea. Qui avevo scoperto le appendici anonime, doloranti, della città e del suo popolo di esclusi, di servi fuori dalle mura, di indiani fuori dal forte. Poi un giorno ero arrivato al Père Lachaise.
Subito, come credo sia capitato a tutti, mi ero avventato in una specie di caccia affettuosa, alla ricerca delle tombe che scoprivo con l'aiuto di una mappa acquistata da un custode.
L'unico realmente difficile da trovare era stato Jim Morrison.
Non era segnato sulla cartina e i guardiani apparivano reticenti, alcuni addirittura offesi da quel morto senza lapidi che tuttavia richiamava un quotidiano pellegrinaggio di vecchi hippies logori e junkies adolescenti.
Lungo il percorso, su imponenti mausolei silenziosi o povere croci di legno marcito, i segni scalfiti con fretta furtiva annunciavano che si era sulla strada giusta. Piccole frecce seguite dal nome - Jim - precedevano la scoperta del luogo: un rettangolo di terra nera, chiuso da un margine di cemento e sul quale affondavano siringhe e bottiglie di vino, in alcune delle quali erano infilati fiori esausti.
Sui muri delle tombe e dei loculi tutt'attorno quei pellegrini disperati avevano lasciato il segno del loro passaggio, scrivendo con pennarelli e con bombolette spray messaggi, frasi sconnesse, brani di canzoni di Morrison. Quelli più duri, senza scampo. Oppure promesse di un arrivederci vicino, desiderato, provocato.
Era l'unica tomba su cui la morte conservasse i segni del suo dominio arrogante. Accanto alle altre, a Colette o a Gerard de Nerval, alla Piaf con il suo Sarapho o ad Abelardo con la sua Eloisa le cose andavano diversamente. Sedevo sulla tomba vicina e stavo lì, a pensare a loro con simpatia, con la voglia di farmi raccontare quei tempi che avevano vissuto e di cui la Storia non ci aveva raccontato che inevitabili fandonie.
Mi fermavo a lungo sotto gli ombrelli di foglie degli alberi secolari, che frusciavano messaggi rasserenanti.
Portavo con me libri, spuntini, una piccola macchina fotografica. Partecipavo a funerali di sconosciuti e seguivo a distanza gente che m'incuriosiva, controllando, dopo che si era allontanata, sulla tomba di chi avesse pregato o pianto o soltanto pensato alla rata del mutuo.
Il quarto giorno un temporale mi sorprese nella parte più selvaggia del cimitero.
Lì il maggior numero delle tombe pareva abbandonato e la vegetazione si era estesa con un'esuberanza che sottolineava, con i suoi grovigli vitali, quanto quei morti fossero stati dimenticati per sempre. Pensai di scendere fino all'ingresso ma l'acquazzone aumentava d'intensità, così mi rassegnai a rifugiarmi in una cripta il cui cancelletto era stato divelto.
Fuori la pioggia alternava al timbro malinconicamente allegro dei temporali di primavera certi scrosci violenti, improvvisi.
Sulle pareti della cripta non c'erano lapidi. Sedevo su una specie di altarino sconnesso e voltandomi vidi a terra una lastra di marmo grigio, invasa dal muschio. Con una curiosità meccanica, dettata dall'immobilità forzata, presi a liberare dal terriccio i solchi corrosi delle lettere incise.
Il nome affiorò e l'immaginazione non servì ad offrire un volto a Isabelle de Longueau Saint Michel, morta a diciannove anni nel 1893.
Fuori il temporale riduceva il proprio accanimento stemperandosi in pioggetta fitta e delicata. Tra i miei piedi si apriva una fessura nella pietra e là sotto, in quel buio putrefatto, c'erano i resti di Isabelle.
Mi lasciai percorrere da un brivido di necrofilia intenerita, da un indicibile desiderio d'esser stato un amante d'altri tempi di quella ragazza della quale persino il nome scolpito nel marmo si stava cancellando. E per un momento pensai invece a lei, che avrei riabbracciato tra poco, con distacco, quasi con rancore.
Per tutto il tempo, nella carrozza della metropolitana, provai ad immaginare le parole con le quali spiegarle quanto era successo al Père Lachaise, pur sapendo che ancora una volta sarebbe stata ad ascoltarmi con impazienza, senza capire. Avrebbe taciuto per poi guardare altrove, quindi saremmo scivolati nel suo letto per quell'amore dal quale solo io traevo fino in fondo piacere, e che mi mortificava al punto che la notte precedente le avevo chiesto di fingere. Lei aveva riso, dicendo che ero il primo uomo che si desse tanta pena per i suoi orgasmi, poi si era seduta su di me voltandomi la schiena e aveva preso a masturbarmi, dicendo che, a vederlo così, il cazzo pareva suo.
Mi stava aspettando sul portone d'ingresso e indossava una vecchia giacca di tela impermeabilzzata azzurra e nera.
Ci baciammo e capii che non le avrei parlato del Père Lachaise, che non le avrei mai più parlato d'altro se non di noi e di ciò che potevamo fare insieme, nel presente.
Tornammo a casa con una passeggiata lunghissima, salendo verso il nord e abbracciandoci all'improvviso o spingendoci come ragazzini sul margine del marciapiede.
Comprammo vino, formaggi, paté, piccole uova di volatili misteriosi e gommosi dolci nordafricani nei negozi lungo la strada.
A casa imbandimmo un festino e ci sbronzammo.
Elda, quando decidemmo di andare a letto, disse che ci avrebbe ascoltati, solitaria, invidiandoci.
Lei allora, ridendo, la invitò a dormire con noi.
Elda per un momento esitò, fissò il mio imbarazzo e scoppiò a ridere.
- Ti facciamo paura ? -
- Sì - risposi.
- Allora va bene. Meglio nel mio letto però. E’ più grande”.
Così quella notte seppi che cos'era per lei il piacere, mentre prendevo Elda che prendeva lei.
Il giorno dopo arrivò Agnès.
16
Guardavo sull'acqua e ogni tanto spiavo i loro gesti.
Sedevano a poppa su sdraio di legno, chiacchierando come vecchie amiche che non si incontrano da molto tempo.
Emanavano un'aura di distante mollezza aristocratica. La gente che passava sul ponte finiva sempre con l'osservarle, dissimulando la propria curiosità.
Partivamo da Venezia per Patrasso.
La nave stava lasciando la rada e l'eco rapida dei segnali delle sirene immalinconiva il sole del pomeriggio sulla laguna.
La gente sui ponti si assiepava a salutare le figure sulle banchine, indistinguibili ormai per la lontananza.
Saremmo scesi in mezzo all'Adriatico fino al giorno dopo.
Andavamo in Grecia, alle isole, perché così avevano deciso lei e Agnès, ritrovate e felici, indifferente l'una per quello che poteva essere il mio disagio se non il mio dolore, oltraggiosa negli sguardi di vittoria l'altra, gelosa delle notti che avevo rubato nell'appartamento di rue Ramay in sua assenza.
Due giorni prima Elda, mentre ci accompagnava alla Gare de Lyon, mi aveva sussurrato
- Resta. Con Agnès non ce la farai.
Ma io non mi ero voluto arrendere.
Camminai per tutta la lunghezza della nave, osservai i passeggeri che si aggiravano con curiosità infantile per scalette sale e ponti, mi fermai accanto alla piscina ad osservare dei ragazzini tuffarsi e alla fine andai a sedermi al bar e presi a bere dei Tom Collins fino a sentirmi soddisfatto del viaggio.
Partecipai alle manovre di addestramento in caso di naufragio con il mio salvagente arancione appeso attorno al collo ed il fischietto ben stretto tra le dita, tenendomi a distanza da lei e Agnès che scorgevo due file avanti alla mia. Ridacchiavano dello steward che ci istruiva con un impegno da generale di Corpo d'Armata.
La ragazza accanto a me nella fila era bionda, con i capelli mossi, sui trent'anni. Continuava a manovrare il salvagente cercando di farselo ruotare intorno al collo.
I Tom Collins mi aiutarono ad osservarla deliberatamente, senza il sotterfugio di sguardi con la coda dell'occhio al quale sarei sicuramente ricorso se fossi stato sobrio.
Quando lei se ne accorse lasciò stare il salvagente e mi rivolse un breve sorriso, come a dire che non vedeva l'ora che quelle ridicole manovre finissero.
Aveva occhi grigi, seni grandi e qualcosa di buffo.
Continuai a spiarla mentre si metteva praticamente sull'attenti ad ascoltare le istruzioni dello steward.
Si sentiva osservata e dopo un po’ non resistette: si voltò verso di me con uno sguardo interrogativo ed io, per farle intendere che la tenevo d'occhio perché la trovavo particolarmente simpatica, soffiai nel mio fischietto, sorridendole.
La gente si voltò. Lo steward mi guardò con disprezzo e solo la ragazza accanto a me rise, coprendosi il viso con una mano.
Io feci un generale cenno di scusa e poi, dopo aver rivolto a lei un piccolo inchino, mi sfilai il salvagente e mi allontanai lungo il ponte principale cercando di imitare la camminata di Robert Mitchum, sotto gli sguardi esterrefatti della truppa in manovra.
17
Si chiamava Françoise e viaggiava con un'amica e il ragazzo di lei.
Mentre cenavamo allo stesso tavolo mi confidò che la coppia dei suoi amici stava sempre chiusa in cabina.
- Non é molto che stanno insieme, sai com'é... - disse.
Risposi che mi trovavo in una situazione analoga e indicai lei e Agnès che mangiavano ad un tavolo affollato di italiani rumorosi.
Françoise mi osservò e i suoi occhi si raffreddarono di sospetto, allora le raccontai tutta la storia, anche i dettagli: le attese in rue Git le Coeur, le notti sfiorate dalle luci della cupola del Sacre Coeur, quello che avevo creduto l’inizio di un grande amore ed ora non sapevo più cosa fosse.
Lei ascoltava senza mai interrompere, cambiando il suo modo di guardami mano a mano che la storia proseguiva.
Quando finii mi raccontò del suo matrimonio.
Continuai a sorseggiare il vino annuendo ogni tanto, mentre avevo l'impressione che parlasse di cose che le avevo già sentito dire. Al punto che mi pareva di conoscere la faccia di quel suo marito dal cognome impronunciabile, che in quel momento stava nel letto della sua amante, da qualche parte in Francia.
Dormimmo insieme, nella sua cabina.
Ci stringemmo nella cuccetta a scambiarci quei baci che avremmo voluto dare ad altri e nonostante tutto riuscimmo ad un certo punto a dedicarci a noi stessi, allontanando quei fantasmi padroni della nostra sofferenza, a ridere d'allegria e a gorgogliare ansimanti, aggrappati alla cuccetta per non cadere, cullati dal rollio confortante della nave nella notte.
18
Sul piazzale in cemento, dove la gente si guardava attorno smarrita dopo essere scesa a terra, decisi di arrendermi, di metter fine a quel tentativo di starle accanto nonostante Agnès.
Ora, mentre ci ammucchiavamo accanto all'edificio della dogana con i nostri bagagli vacanzieri e gli occhi offesi dal sole implacabile, avevo accettato di capitolare.
Persi con discreta abilità l'autobus sul quale lei e Agnès erano salite e finalmente ci guardammo. Io in piedi, con lo zaino appoggiato ad un ginocchio e un sorriso strambo d'addio, lei al finestrino che scivolò via in un attimo.
In quell'attimo forse capì che non ci saremmo più incontrati, se non per caso, e mi guardò come avevo sperato: con un residuo d'amore, un frammento di nostalgia.
Voltandosi, prima che il riflesso del sole sul finestrino la cancellasse con uno specchio baluginante, mi disse qualcosa. Vidi la sua bocca articolare al di là del vetro, poi l'autobus fu improvvisamente lontano mentre io rivedevo in una ripetizione ossessiva quel suo gesto di voltarsi, e le labbra muoversi per parole mute.
Quando Françoise si avvicinò a chiedere se avremmo preso insieme il prossimo autobus mentii, rispondendo che dovevo aspettare un amico che sarebbe arrivato con la nave del pomeriggio.
Stabilimmo un appuntamento vicino ad un ostello ai piedi della Plaka. Poi all'improvviso le dissi la verità, cioé che sarei tornato indietro, che il mio viaggio per questa volta era finito.
Lei mi guardava e capivo che se per un verso avrebbe voluto poter fare qualcosa che mi fosse d'aiuto, dall'altro pensava che non doveva perdere il prossimo autobus, che doveva arrivare ad Atene e salire su un battello che l'avrebbe portata alle isole per la sua vacanza.
Avevamo avuto troppo poco tempo per pensare di dedicarci l'uno all'altra così all'improvviso: nessuno dei due se la sentiva di correre altri rischi. Non per ora almeno.
Tornai allora a mentire chiedendole il suo numero di telefono per poterla chiamare in settembre.
Non avevamo nulla su cui scrivere così mi segnò i numeri su un palmo della mano e corse via.
Restai immobile anche per quel commiato.
Di nuovo il vetro del finestrino si impose come una distanza enorme. Françoise di là dietro sorrise e salutò con la mano, poi fece il gesto d'accostare la cornetta del telefono all'orecchio ed io annuii. Aspettai che anche il suo autobus fosse lontano prima di muovermi verso la biglietteria per informarmi sul ritorno.
Faceva caldo ed entrai in una toilette per sciacquarmi il viso.
Con il sapone cancellai dal palmo della mano il numero di telefono.
Ero così stanco che pensai che sarebbe stato un bel sollievo piangere, ma c'era gente dappertutto, così mi avviai lungo la banchina costringendomi a fischiettare, alla ricerca di un posto in ombra dove attendere l’imbarco per il ritorno.
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