Negli anni settanta mia madre collezionava scatoline.
Di ceramica, d'argento, smaltate, di forme svariate e di dimensioni che andavano, grosso modo, da quelle di una noce a quelle di un pacchetto di sigarette.
E non è che le collezionasse, che della collezionista le mancava la passione monomaniacale, l'organizzazione mentale e la costanza. Le comprava e poi le disperdeva su tavolinetti, ribalte di cassettoni, le accumulava confusamente in ciotole come frutti in una fruttiera, senza dedicare loro più attenzione di quella che avrebbe riservata, appunto, alla frutta, senza contare l'indubbio vantaggio che le scatoline potevano tendere ad accumulare polvere ma non certo a marcire, e così ce le si poteva dimenticare là dove erano state collocate.
Infatti a un certo punto ha smesso di comprarsele.
Io, che l'avevo in qualche modo investita di funzione vicaria dal momento che, al pari di lei, mancavo dello spirito giusto ma aspirava confusamente al collezionismo - di che non sapevo, mi piaceva l'idea ma ogni tentativo mi aveva invariabilmente annoiato - ogni tanto gliene regalavo una, di scatoletta.
Nell'autunno del 1971 ero in Inghilterra, vivevo in un sobborgo di Brighton, a Hove, e mi aggiravo quasi quotidianamente nelle Lines o al Royal Pavillion possibilmente da solo, senza compagni della St. Giles school spagnoli, iraniani o giapponesi, troppo facilmente individuabili dalle bande di facinorosi primi skin-heads che frequentavano, soprattutto durante i week-end, quegli stessi posti.
Durante i week-end allora me ne andavo a Londra.
Durante i week-end allora me ne andavo a Londra.
Un giorno, proprio in quel dedalo di viuzze e bottegucce che erano le Lines, nelle vetrina di un antiquario un po' rigattiere, avevo visto una scatoletta che mi era piaciuta molto e l'avevo comprata.
Per la "collezione" di mia madre avevo pensato. In realtà piaceva a me, ma questa è un'altra storia.
Era un portaqualcosa, e ho trovata incollata su un vecchio album di scrapbooking anche la bustina della confezione del negoziante.
La scatolina adesso è con me, salvata dalla diaspora in cui sono andate perdute quasi tutte le sue compagne di "collezione".
La storia potrebbe finire qui ma si sa, da cosa nasce cosa, e allora mi sono tornati in mente alcuni aspetti della mia vita di quell'epoca che, con l'aiuto del repertorio, sono parzialmente resuscitabili.
Intanto nel post dell'11 agosto 2011 c'è un racconto - Tea time - che rievoca l'atmosfera di certi momenti di quel periodo.
Poi va detto che, di lassù, intrecciavo corrispondenze epistolari piuttosto fitte.
Ce ne sono con Speedy, mia madre, Sara Randaccio ma due missive in particolare mi hanno restituito un'occasione di memoria intensa.
La prima è di Luisella Rossi.
Intanto nel post dell'11 agosto 2011 c'è un racconto - Tea time - che rievoca l'atmosfera di certi momenti di quel periodo.
Poi va detto che, di lassù, intrecciavo corrispondenze epistolari piuttosto fitte.
Ce ne sono con Speedy, mia madre, Sara Randaccio ma due missive in particolare mi hanno restituito un'occasione di memoria intensa.
La prima è di Luisella Rossi.
Nelle sue parole c'è tutto il disagio, l'insoddisfazione e il senso di impotenza che hanno caratterizzato l'infelicità di Luisella per quasi tutto il corso della sua breve vita.
La seconda nel suggerimento del mittente avrebbe dovuto essere bruciata, però è ancora qui, a distanza di più di quarant'anni, e sono contento di averla conservata. E' anch'essa legata in qualche modo a Luisella.
A casa di lei suonavano - lei alle tastiere, Riccardo voce e chitarra, Renato al basso e io alla batteria - quelle stesse persone citate da Vincenzo - che si firma cautelativamente Indian Joe - nella lettera allarmata che segue.
Il padre di Luisella era, in effetti un uomo ricchissimo, potente e spietato. A mio avviso è stato il principale artefice dell'infelicità di sua figlia e, indirettamente, della sua dipartita, ma all'epoca era soprattutto un uomo temibile, che incuteva quasi il panico tra gli amici della figlia. La lettera di Vincenzo, malgrado l'impostazione volutamente indiziaria, lascia trasparire questo sentimento di timore.
C'è da aggiungere che proprio lui, Vincenzo, era fresco reduce da un week-end londinese trascorso con me, Giorgio Mussa e Nadir Fischer all'insegna della trasgressione (a questo proposito c'è una descrizione a riguardo nel post del 15 dicembre 2010. E anche un seguito interessante al 18 dicembre).
Vincenzo, durante la lavorazione di "Flowers & Knives"
Altri tempi.
Alcuni di noi li hanno attraversati indenni, molti altri, come Luisella o Giorgio, hanno finito col bruciarsi le ali. Sta di fatto che il padre di Luisella quella volta ci aveva visto lungo.
Noi suonavamo - io e Renato senza la minima cognizione musicale - ma ci "sentivamo" soprattutto una formazione hippie che non poteva prescindere da sussidi che aiutassero, come si diceva allora, ad espandere la coscienza.
Quando Renato e Luisella abbandonarono la partita Riccardo ed io creammo un effimero super gruppo che provava a casa di Fulvia Magnoni e del quale faceva parte Giorgio Mussa.
Ad ogni modo quella volta all'aeroporto ad attendermi niente polizia, niente ferocissimo papà di Luisella ma solo gli amici, alcuni dei quali, da tempo, non ci sono più.
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