Ogni tanto la mia amica Teresa Pennone (vedi post del 14 gennaio 2015) mi manda uno dei suoi memoir, che a me piacciono molto.
Dopo la segnalazione del post di cui sopra nel frattempo ci siamo rivisti per una cena in Valchiusella, dove sia lei che io abbiamo casa e dove nonostante ciò siamo riusciti a non incontrarci per trentacinque anni.
Vive e lavora a Milano dove oltre ad occuparsi di informatica (malgrado la sua esistenza turbolenta si è a suo tempo laureata in matematica ) è maestra di Tai chi.
Quella sera, dopo cena, a casa sua, ha sottoposto Angela, Pierangelo e il sottoscritto a interessanti e rivelatori test che fanno parte del suo bagaglio.
Ma questa è un'altra storia.
Quella che metterò qui di seguito l'ha scritta lei e riguarda sua nonna. Io la trovo ricca di un'intensa forza rievocativa, con una bella restituzione di un'epoca.
Quella che metterò qui di seguito l'ha scritta lei e riguarda sua nonna. Io la trovo ricca di un'intensa forza rievocativa, con una bella restituzione di un'epoca.
NONNA
Gli ultimi anni li ha trascorsi in una casa di riposo.
Era stato penoso lasciarla lì, ma ogni giorno si andava a trovarla, e, dopo i primi due mesi, come del resto avevano previsto gli operatori, si era adattata al nuovo ambiente. Era un posto triste come tutti i ricoveri, ma aveva un parco con grandi alberi e panchine, e ricordo con nostalgia le nostre lunghe chiacchierate durante le sere estive. Perchè d’estate, quando mio figlio era piccolo e lei ancora viva, i miei andavano in montagna col bambino, e a me restava il compito di andarla a trovare.
Mi piaceva.
Senza il piccolo a cui badare, mi sentivo libera come non ero più abituata ad essere, andavo a lavorare in bicicletta, e, quando finivo pedalavo fino da lei, restando insieme fino a quando doveva andare a cena.
Era ancora in gamba, a parte la memoria breve. Mio figlio entrò nel periodo dei perché proprio quando lei smise di ricordare, era bellissimo guardarli, era come se i loro tempi fossero sincronizzati. Le domande di mio figlio per lei erano sempre nuove, e rispondeva sempre come se fosse la prima volta che le sentiva.
In quei pomeriggi estivi, io le raccontavo i miei segreti, quello che mi capitava, quello che provavo, certa che con lei erano al sicuro, e lei mi capiva, e diceva cose profonde, che mi toccavano. Altre volte, invece, era lei a raccontare, e allora prendevano vita davanti ai miei occhi, scene di altri tempi, Tripoli, il ballo del console, la sua sfrenata vitalità. Certo, era colonialismo, fascismo, ma lei non ne era affatto consapevole allora. Si era sposata molto giovane con un ufficiale più vecchio di lei, molto affascinante. E la vita in caserma le piaceva. Era bella, giovane, sportiva. Credo che abbia fatto innamorare più di un militare, e che ne fosse vagamente consapevole, che le piacesse sentirsi ammirata.
Dopo un po’ che erano di stanza in un posto lei diceva a suo marito che aveva voglia di cambiare, lui la assecondava, e si faceva trasferire. Così viaggiarono parecchio.
Continuò anche dopo che nacquero le gemelle (mia madre e mia zia), che invece soffrirono di questi continui spostamenti.
Poi arrivò la guerra, e finì tutto, mia nonna si trovò sola con le bambine, sfollata in una valle sopra Ivrea, dove molto più tardi mia madre conobbe mio padre, ma questa è un’altra storia.
Durante la guerra fu fame, inverni in cui i doni di Natale erano un’arancia, e settimane in cui non c’era altro che castagne. E la nonna che andava a piedi avanti e indietro da Ivrea per racimolare qualcosa da mangiare. E i partigiani impiccati nella piazza del paese. E quel suo amore di cui non parlò mai a nessuno, ma che le bambine intuirono, e che finì, perchè nè lei, nè quel signore gentile ebbero il cuore di far soffrire altre persone.
Poi il nonno tornò - era stato due anni in India prigioniero degli inglesi - parecchio malconcio.
Io lo ricordo come un vecchio dolce (assomigliava molto a Eduardo De Filippo), sempre seduto in poltrona, che mi chiamava Sopi e condivideva con me certi scherzi da fare ai miei.
A quei tempi si erano trasferiti a Rapallo, in un piccolo appartamento che è stato il nostro posto delle vacanze per tutta l’infanzia.
Stavamo in otto pigiati in quel bilocale: i nonni, le mamme (mamma e zia), e noi quattro cugini, che dormivamo accampati in una stanza su brandine e lettini, e si rideva come matti prima di crollare addormentati.
Se il tempo era bello e non c’erano in programma altre gite particolari - la mia preferita era quella a Riva Trigoso, perché lì c’era un’enorme spiaggia, e per me spiaggia era sinonimo di festa, adoravo farmi rotolare sulla sabbia dalle onde - si andava a piedi fino a San Michele, una scarpinata di quasi tre chilometri, che percorrevamo carichi di pinne, maschere, asciugamani, cibo stipato nella mitica borsa frigorifera chiamata familiarmente “il picnic”.
Niente sedie, niente ombrelloni, e mai e poi mai stabilimenti balneari, non tanto per risparmiare quanto per una certa idea di autosufficienza, di rigore, di rinuncia al superfluo, che ha sempre fatto parte della nostra educazione. E niente spiaggia, la mia famiglia amava gli scogli, sempre credo per questo atteggiamento “rude”.
Mamma, cugina Enrica, cuginetto Alessandro
e Teresa - Punta Chiappa, 1970
e Teresa - Punta Chiappa, 1970
fratello Luca e cugino Alessandro - 1970
In effetti dove ci sono gli scogli l’acqua è più limpida, e andare con la maschera è uno spasso, ma tutti i bambini piccoli che conosco vengono portati in spiaggia, non sugli scogli. Tranne, ovviamente, mio figlio.
Teresa con il figlio Nicola
La scogliera di San Michele, comunque, era bellissima. Ne conosco ancora ogni palmo, so dove è comodo stendersi, dove è facile entrare in acqua, dove è sicuro tuffarsi, e ho un nome per ognuno di quei posti, un nome che condividevo con la mia famiglia. Lì abbiamo imparato a nuotare, ci siamo abbronzati, fatti male, divertiti, abbiamo mangiato, gridato, riso, pescato, raccolto pinoli, estratto pietre friabili che erano i nostri coltelli, insomma, abbiamo vissuto le estati dell’infanzia.
Nel tardo pomeriggio si tornava e lungo la via ci compravano il ghiacciolo, a volte il mottarello, infine arrivavamo a casa esausti e ci accasciavamo sul divano a vedere la TV dei ragazzi, dopo che a turno e con molta fatica le tre donne erano riuscite a cacciarci sotto la doccia.
Per cena si mangiava quello che avevano architettato a cominciare dalla spesa mattutina, prima di partire per il mare. Due volte a settimana, passava presto sotto casa il carrettino che vendeva pesce fresco, sardine, sgombri, acciughe, e la nonna, che era sveglia dall’alba e magari era anche già stata a messa, scendeva a comprarlo.
Gli altri giorni, venivamo spediti a turno al negozio di alimentari che c’era all’angolo, il cui proprietario, Renato, grande e grosso, ci conosceva bene.
Teneva prezzi più alti per i turisti ma per la nonna e noi, riservava il trattamento dei residenti.
La focaccia la compravamo per strada. Non c’è niente di più buono di quella focaccia, addentata appena usciti dall’acqua, con le mani salate di mare a ungersi nell’olio che si annidava in quelle deliziose tipiche buchette dove la pasta restava più morbida.
Dopo cena, se c’era qualche film, oppure Canzonissima, si guardava tutti insieme la TV, ammassati sul divano e accoccolati per terra, oppure si scendeva in strada a giocare a tamburello.
Se era sera di tv, spesso venivammo mandati a comprare il gelato. La gelateria era vicinissima, ma noi eravamo piccoli, e le prime volte ci sentivamo quasi protagonisti di imprese eroiche.
La nonna era molto importante per me allora. Intanto era l’unica persona che mia madre temesse, e poi aveva una certa freddezza, una misura nelle emozioni che mia madre non conosceva. Era di quelle che per salutare schioccano un bacio a vuoto verso la guancia, non stava a fare tante smancerie, però era una donna divertente, piena di iniziative, e originale. E ci voleva bene, in un modo un po’ maschile, quasi burbero, ma indubitabile.
Poi il nonno morì, fu il primo morto che vidi, lo ricordo benissimo, in quella casa di Rapallo, mia madre con gli occhi rossi e io, con i miei Topolino in mano, che gliene chiedevo la ragione.
La nonna cominciò allora a girare il mondo, con la sua amica olandese.
E tutti gli anni, oltre a tenerci d’estate, quando non eravamo in vacanza con i rispettivi genitori, a settembre affittava un appartamento in montagna, per lo più in Val d’Aosta - lei e il nonno avevano abitato a Chatillon per qualche anno prima di trasferirsi a Rapallo - dove portava me e mio fratello e, se potevano, anche i cugini.
Enrica, Teresa, Alessandro e Luca - 1965
Teresa e Luca dopo una caduta in acqua,
accuditi dalla nonna - 1966
accuditi dalla nonna - 1966
Luca, nonna, Teresa e mamma
Così abbiamo fatto qualche vacanza ad Entreves, ai piedi del Monte Bianco, con lunghe camminate, scorribande nei prati e allestendo improbabili bancarelle dove noi bambini vendevamo funghi e mirtilli, inventandoci storie lacrimose che i villeggianti fingevano di credere.
Di quei mesi di fine estate è anche il ricordo della “swicia” (non ho idea di come scriverlo, ma la pronuncia è quella), cioè un ramoscello sottile e flessibile di cui si muniva la nonna per colpire le gambe nude di mio fratello e mio cugino quando esageravano. Io e Enrica non l’abbiamo mai assaggiata. Oggi può fare uno strano effetto pensare che li teneva a bada in quel modo. A sua discolpa dirò comunque che i due maschi erano a volte davvero terribili, e lei era da sola a badare a tutti e quattro i nipoti.
Teresa, Enrica e Alessandro - laghetto di Arpy 1970
Teresa
Teresa con papà, mamma e cuginetto Alessandro - 1971
Con lei andammo poi all’Isola d’Elba, io e mio fratello piccoletti, e ci insegnò a leggere le carte stradali e darle le indicazioni giuste mentre guidava.
Un’altra volta ci portò a Perugia e ad Assisi, per un bellissimo giro culturale, accompagnati dal professor Biffi, un vecchio signore molto colto, che le faceva una corte discreta, mettendole talvolta un braccio intorno alle spalle, mentre mio fratello mi dava di gomito.
A Perugia ci portò anche alla “Città della Domenica”, rimasta nei miei ricordi come un magico luogo di sogno, dove per anni ho desiderato di tornare, che poi non doveva essere altro che un grande Luna Park. Non credo che ci sia più nulla del genere già da parecchio.
La nonna era una sportiva, era sempre andata in montagna, aveva partecipato e escursioni serie, sui ghiacciai, e spesso veniva a sciare con noi.
Io ero molto orgogliosa di questa supernonna che andava ancora a sciare.
L’estate della mia seconda liceo, venne con noi in vacanza in Spagna e Portogallo. Le vacanze nella mia famiglia sono un capitolo a parte.
L’anno precedente avevamo comprato una piccolissima roulotte di seconda mano, avevamo passato l’inverno a rimetterla a posto, e in agosto eravamo partiti, due adulti, due ragazzini e un cane, alla volta della Turchia. Un viaggio mitico, che mi è rimasto nel cuore, tre settimane e più di settemila chilometri in un mondo sconosciuto, fino ai confini con la Siria, questa famiglia di pazzi.
Konia - 1974
Nel '76 si era optato per una meta meno esotica, Spagna e Portogallo, ma con un elemento in più, la nonna e la sua 126 verde bottiglia.
Luca, Teresa e il cane Brait
Luca, Teresa e Brait in Camargue
DIGRESSIONE
Non ho foto di Teresa di quando ci siamo conosciuti, se non
quella che ho già postato, e invece ne ho trovata una di suo
fratello Luca, in Salamocca nel 1980, con la sua morosa di allora
della quale non ricordo il nome e Pucci Lunati.
quella che ho già postato, e invece ne ho trovata una di suo
fratello Luca, in Salamocca nel 1980, con la sua morosa di allora
della quale non ricordo il nome e Pucci Lunati.
FINE DIGRESSIONE
Che poi per non lasciarla sola, io viaggiavo quasi sempre con lei.
C’era un’intesa speciale tra noi, ci capivamo al volo, come se pensassimo gli stessi pensieri.
Finì che ci perdemmo, io e lei, con la 126 e nient’altro, niente soldi, niente documenti, pronte a farci rimpatriare dal console che avevamo trovato ad Almeria.
Invece per fortuna ci rintracciarono i miei, mio padre furibondo, ma io finalmente potevo rilassarmi. Perchè in quelle lunghe ore mi ero sentita in qualche modo responsabile.
Ero stata la prima a capire che qualcosa non andava, ricordo che avevo detto “se ad Almeria c’è il mare, abbiamo sbagliato città”. Di solito a fine giornata facevamo un rapido aggiornamento sulla tappa successiva, ma la sera prima non l’avevamo fatto.
Di regola viaggiavamo tenendoci a vista, ma quella mattina andò diversamente. Noi pensavamo di essere davanti, così verso l’ora di pranzo ci eravamo fermate ad aspettare, prima di convincerci che dovevamo esserci sbagliate, e di ricominciare quindi a correre avanti, avanti, senza mai trovarli, fino ad arrivare ad Almeria, vedere il mare e capire che avevamo corso sulla strada sbagliata.
Senza soldi, senza documenti e senza benzina, avevamo deciso di rivolgerci al camping, appellarci al loro buon cuore perchè ci lasciassero parcheggiare e dormire lì in macchina.
Poi avevamo parlato con il console, e preso accordi per rientrare in Italia. Con gli spiccioli rimasti avevamo comprato del pane, del prosciutto in tubetto e una gazzosa.
Avevamo anche affisso dei segnali e dei biglietti all’entrata della città, sperando che venissero a cercarci. Intanto io avevo fatto dei calcoli secondo i quali loro dovevano essere ad Alicante, così il gestore del campeggio mi aveva permesso di telefonare.
Stavo appunto telefonando ai camping di quella località, quando è apparso mio fratello, e credo di non essere mai stata così felice di vederlo.
Per loro era stato forse anche più brutto. Dopo averci perse, mio padre aveva lasciato roulotte, moglie, figlio e cane, ed era andato avanti in esplorazione per un centinaio di chilometri.
Intanto si era alzata una tempesta di vento.
Per fortuna la coppia di tedeschi che noi avevamo incrociato in precedenza e incaricato di portare il nostro messaggio, avevano visto la roulotte ferma, e informato mia madre di dove io e la nonna ci trovavamo.
A quel punto però avevano dovuto aspettare il ritorno di mio padre, e poi percorrere tutta la strada fino ad Almeria, dove infine ci riunimmo che era ormai sera tardi.
Finì bene, e la vacanza riprese, ma mio padre non volle mai più portarsi dietro la nonna.
Del resto nemmeno io andai più in vacanza con loro, famelica com’ero di indipendenza.
Sui Pirenei, davanti la mamma e dietro Teresa con Brait
Quando a 19 anni me ne andai di casa, mia madre ne fece una tragedia e io diventai improvvisamente la pecora nera della famiglia, lei mantenne un atteggiamento abbastanza neutrale e di sicuro più misurato degli altri.
Invecchiò lentamente. Ultraottantenne faceva ancora volontariato portando i pasti caldi ai “vecchietti”. Studiava, leggeva, era piena di energie.
La fermarono le “tia”, mi pare si chiamino così, dei piccolissimi ictus, che però la gettavano a terra incosciente, e dovette rassegnarsi ad abbandonare la sua casa di Rapallo e trasferirsi da mia madre (i miei erano stati separati 11 anni prima di tornare insieme), finché, dopo qualche anno, non diventò pericoloso lasciarla sola anche per poco tempo, e così anche mia madre si arrese all’idea di ricoverarla. Morì a 93 anni, e stava ancora bene.
La prima volta che perse conoscenza mi disse una cosa che non ho dimenticato. Nonostante fosse religiosa e avesse fede, nonostante avesse sempre sostenuto di avere avuto una vita piena e di essere pronta a morire in qualsiasi momento, disse che quando ti trovi alla resa dei conti, quello che vuoi è solo vivere, con tutte le tue forze.
Morì di giugno.
Mia madre era in vacanza, io ero andata da lei una sera, avevamo avuto la nostra solita lunga e piacevole chiacchierata sotto gli alberi, e avevamo deciso che il giorno dopo dopo sarei tornata con mia cugina.
La trovammo strana. Ci mandò via presto, perché si sentiva stanca, ma la cosa sorprendente è che aveva come un'aura, quella sera. La guardavo e il suo viso mi sembrava un viso antico da vecchia India, piena di sacralità, non saprei come altro definire la sensazione che provai. Così, quando la mattina telefonarono per dirci che era morta serenamente, non mi meravigliai troppo.
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