Ero certo di averla affrontata solo recentemente - e recentemente abbandonata - quest'idea di romanzo.
Tendevo a ritenerla una conseguenza del fatto di aver scritto "Il sostituto" e che poi questo avesse trovato un editore.
Un altro lavoro con una struttura a suspence, un giallo - anche se nell'accezione che avevo utilizzato io, un po' anomala forse - mi pareva potesse andare.
Sto parlando di "Navasota city limits" (questo era, e resterà, il titolo del romanzo incompiuto).
E' stato necessario addivenire alla consapevolezza della definitiva sospensione della sua stesura e della conseguente disponibilità a confessarne su questo blog le ragioni - o meglio - a cercare attraverso l'esercizio di questo blog le ragioni che spesso mi portano a piantare tutto in asso (o in Nasso, come sarebbe più corretto dire) per andare, intanto, a rintracciarne le origini.
Così è saltata fuori una cartellina del 1998 con due incipit differenti, il primo del 25 dicembre...
l'altro senza data, ma coevo, dal momento che sta nella cartellina del '98, e ce li cacciavo in ordine coronologico di stesura.
ambedue in una versione esclusivamente manoscritta.
Ho cercato immagini di me del '98 ma pare proprio che non ci sia quasi nulla.
Quell'anno ho girato uno dei documentari che mi è piaciuto di più realizzare e che ha fatto sì che io viva qui, oggi.
La foto che ho trovato è della lavorazione di "Passaggio a Schio".
Sempre in forma solo manoscritta, in una cartellina del 2002, c'è un inizio di sceneggiatura, anch'esso interrotto.
Nel caso della sceneggiatura sopra il titolo ne compaiono altri due, probabili alternative, uno scritto in verde, l'altro in rosso. La sequenzina di avvenimenti descritta nella prima pagina non mi ha detto nulla e ho dovuto rileggere - con gusto, ammetto - le poche successive per intuire lo sviluppo che avrei voluto dare in questo caso alla storia, che comunque parte sempre dagli stessi presupposti.
...la prima pagina...
l'altro senza data, ma coevo, dal momento che sta nella cartellina del '98, e ce li cacciavo in ordine coronologico di stesura.
...la prima pagina...
ambedue in una versione esclusivamente manoscritta.
Ho cercato immagini di me del '98 ma pare proprio che non ci sia quasi nulla.
Quell'anno ho girato uno dei documentari che mi è piaciuto di più realizzare e che ha fatto sì che io viva qui, oggi.
La foto che ho trovato è della lavorazione di "Passaggio a Schio".
ma credo di doverne aggiungere un'altra, sempre legata ad una lavorazione documentaria e sempre con il sottoscritto armato di telecamera.
E' dell'anno prima, il '97, ma quei luoghi sono quelli che poi sono diventati la location di buona parte di "Navasota city limits" e, mentre ero là che giravo tutt'altro, evidentemente mi impregnavo dello spirito di quei luoghi.
Poi, tornato a casa, iniziavo a montare e buttavo giù, su carta riciclata e armato di stilografica, come mi piace fare ancora adesso per la prima stesura (invidio un poco Janis/Laura che da molto, ormai, scrive direttamente al computer) tracce di progetti che, come si è visto, erano destinate all'oblio.
Sempre in forma solo manoscritta, in una cartellina del 2002, c'è un inizio di sceneggiatura, anch'esso interrotto.
Nel caso della sceneggiatura sopra il titolo ne compaiono altri due, probabili alternative, uno scritto in verde, l'altro in rosso. La sequenzina di avvenimenti descritta nella prima pagina non mi ha detto nulla e ho dovuto rileggere - con gusto, ammetto - le poche successive per intuire lo sviluppo che avrei voluto dare in questo caso alla storia, che comunque parte sempre dagli stessi presupposti.
La prima di una dozzina di pagine
Rintracciare, nuovamente a fatica, foto del 2002 mi ha fatto ricordare che, con Laura, abbiamo trascorso alcune stagioni invernali praticamente sempre in montagna. Quella del 2002 è stata una di queste.
Dunque questo abbozzo di sceneggiatura deve essere nato ad un tavolo di fronte alla finestra di un appartamentino che avevamo affittato a Serrada, praticamente sulle piste, dove mi sedevo a fine giornata a scrivere.
Dunque questo abbozzo di sceneggiatura deve essere nato ad un tavolo di fronte alla finestra di un appartamentino che avevamo affittato a Serrada, praticamente sulle piste, dove mi sedevo a fine giornata a scrivere.
Bei tempi.
Di assoluta, beata, irresponsabile dedizione edonistica.
Niente telecamere, questa volta, ma solo sci.
Ecco allora tre avvii che avevo completamente dimenticato.
Rivederli scritti a mano, con le correzioni, le cancellature etc. mi ha fatto uno strano effetto, come se vedessi me, più che loro, un me che non conosco, o che non riconosco, spaesato e turbolento, uno strano me.
Forse bisognerebbe, se si scrive inizialmente a mano, conservare quelle versioni originali...bah ! in ogni caso, ormai, è tardi, ed è un conforto anche quello.
Rivederli scritti a mano, con le correzioni, le cancellature etc. mi ha fatto uno strano effetto, come se vedessi me, più che loro, un me che non conosco, o che non riconosco, spaesato e turbolento, uno strano me.
Forse bisognerebbe, se si scrive inizialmente a mano, conservare quelle versioni originali...bah ! in ogni caso, ormai, è tardi, ed è un conforto anche quello.
Per la versione che credevo l'unica bisogna dunque arrivare all'11 aprile del 2008. Questa è la data d'avvio che ho trovato in calce alla versione riesumata da un hard disc esterno.
Anche per quest'anno, fotograficamente, sono malmesso.
Beh, a questo punto non è il caso che continui a tergiversare.
Anche per quest'anno, fotograficamente, sono malmesso.
all'inaugurazione di una mostra fotografica di Piero Martinello
NAVASOTA CITY LIMITS
UNO
Ottobre
2000
Il
giorno che la donna è venuta in agenzia ero in saletta di proiezione per
una presentazione.
Si
visionava quello che in gergo si definisce “rough cut” – una specie di
imbastitura di montaggio – per il documentario promozionale di un Istituto di
Credito.
E’
un momento delicato.
I clienti sanno di avere ancora ampio margine
d’intervento e friggono dalla voglia di farne uso.
Anche
se si trovassero di fronte ad un capolavoro – ed escludo, comunque, che
saprebbero riconoscerlo – non si asterrebbero dal richiedere modifiche, variazioni, spinti dall’incontrollabile impulso a prevaricare, ad imporre un punto di vista,
ammesso che ne abbiano uno.
Il
regista, dal canto suo, è nervoso come un cavallo al canapo del Palio di Siena.
Sa
cosa lo aspetta, si macera nell’indecisione tra il difendere la propria opera e
l’accettazione spietata della realtà, e cioè che il suo film, comunque vadano
le cose, non lo vedrà quasi nessuno, non ha nulla di memorabile, e per
realizzarlo è stato retribuito con una cifra esagerata.
Io
sono lì per mediare.
Lo
faccio con l’abilità decorosa e apparentemente competente che mi deriva
dall’indifferenza assoluta che nutro nei confronti del filmato e del suo autore
e dal disprezzo che celo dietro una melliflua disponibilità nei confronti dei
committenti.
E’
il mio lavoro. Non è un lavoro che ho scelto. In qualche modo si può dire che
lui ha scelto me.
Molti
anni fa un paio di amici che avevano le mie stesse esperienze alle spalle mi
hanno acciuffato per i capelli mentre stavo scivolando verso il fondo e mi
hanno offerto questa opportunità.
Oggi
siamo soci e la nostra agenzia pubblicitaria è tra le più quotate. Non
chiedetemene le ragioni.
Vinciamo
dei premi, partecipiamo a rassegne internazionali, le riviste del settore ci seguono
e ci coccolano. Si parla di noi.
La
metà delle parole che usiamo nel nostro linguaggio corrente sono in inglese, ma
dubito che un inglese capirebbe cosa intendiamo dire.
Tutto
qua.
Il
mio ruolo è quello di dirigere una casa di produzione consociata all’agenzia.
Come si suol dire ce la suoniamo e ce la cantiamo.
Pochi
tra i nostri concorrenti riescono a gestire questo doppio ruolo mantenendosi su
un livello alto, ma nel nostro mestiere è impossibile individuare il punto di
separazione tra abilità, intuito e culo, e allora non so dire se il successo
che ci arride sia meritato o meno.
Non
ho né moglie, né figli né parenti stretti.
Sono
proprietario di una barca a vela e di uno chalet che d’inverno si raggiunge
solo con la motoslitta.
Molti
mi definiscono un orso.
Non
sono sempre stato così, ma questa è un'altra storia.
Per
arrivarci occorre andare con ordine, partendo da quello squillo del telefono
interno che ha fatto sì che mi liberassi temporaneamente dei due imbecilli
mandati dall’Istituto di Credito.
La
voce flautata di Anita, la ragazza che abbiamo al centralino d’ingresso, mi ha
segnalato che c’era la signora Scolari per me.
Io
non conosco – o meglio non conoscevo, o credevo di non conoscere nessuna
signora Scolari - ma ho risposto “Arrivo
subito” ed ho improvvisato un atteggiamento di velata preoccupazione.
- Un
cliente da Londra, vogliate scusarmi un momento. Voi andate pure avanti…
Fabio
e Vittorio, i miei soci, hanno mangiato la foglia e si sono prestati molto
blandamente alla mia scenetta di contrizione.
Loro
due non sono convinti, al contrario di me, che sia opportuno e remunerativo offrire ai nostri interlocutori
la libbra di carne che assaporano con maggior voluttà: quella che gli dà l’idea
che tu sia nei pasticci, che abbia una rogna, che ti stia per dover confrontare
con un cliente meno importante ma ancora più stronzo di loro.
Così
i bancari mi hanno rivolto un sadico cenno d’assenso, il regista ha annaspato
sulla sua poltrocina, Fabio e Vittorio hanno proposto un caffè.
E
io me la sono filata.
Anita
mi ha detto che aveva fatto passare la signora Scolari in sala riunioni.
- Ma
chi è? – ho chiesto.
Lei
ha alzato le spalle. Conosco quello sguardo.
Anita
è molto giovane ma favorita da una dote innata, che le permette di percepire
aspetti nascosti in persone che non conosce, aspetti che forse vorrebbero
celare o addirittura che non sanno di avere. Una specie di detector per qualità
mascherate e altrettanto mascherati difetti.
Me
ne sono accorto dopo che già l’avevamo assunta. Lei non esibisce questa
difficile qualità, non sono nemmeno sicuro che sia completamente consapevole
delle sue potenzialità.
Così, in risposta alla mia domanda, ha alzato le
spalle.
-
Aveva un appuntamento? – ho chiesto, sapendo che la domanda era oziosa.
Anita ha simulato una rapida occhiata
all’agenda e poi mi ha sussurrato un no che ha suonato come un sì.
Così
sono entrato in sala riunioni.
La
donna – la signora Scolari – ha alzato gli occhi e immediatamente ho capito di
averla già vista. Mi ha suscitato una sensazione allarmante, come se fosse
balzata fuori da un passato per me sepolto, almeno quando sono in stato di
veglia.
Sui
cinquant'anni.
I
suoi occhi.
Avevo
già incrociato quello sguardo, non ricordavo dove, ma qualcosa mi diceva che
l’occasione era stata dolorosa. E infatti.
- Signor
Bertocchi? – ha chiesto.
- Sono
io.
- Sono Scolari.
Le
ho rivolto un cenno d’assenso mentre me la studiavo, cercando di capire da
quale nicchia dimenticata del mio passato saltasse fuori. Anche la voce mi
diceva qualcosa, pure se più roca di quanto mi sembrava dovesse essere.
-
Si può fumare qui? – ha chiesto lei con un accenno di imbarazzo.
Avevo
intenzione di domandarle chi fosse e che cosa volesse, avevo deciso di essere
sbrigativo e di tornare ai bancari in saletta di proiezione e invece le ho
sorriso e ho risposto di no, ma che si
poteva fare un'eccezione, e le ho anche chiesto se le andava un caffè.
-
Sì, grazie – ha risposto estraendo un pacchetto di Winston e ricambiando il mio
sorriso.
- Noi…ci
conosciamo? – le ho chiesto, con cautela.
- Ero
la compagna di Chicco Costantini.
Si
sa, per quanto spazio tu possa mettere tra te e il tuo passato da dimenticare, arriva sempre il momento in
cui quello, dopo averti tallonato non visto, ti raggiunge e ti posa una mano
sulla spalla, da dietro. Si sa, ma si fa finta di niente.
Fiorenza
Scolari era quella mano.
Non
so che espressione mi si sia dipinta sul viso ma lei ha smesso di sorridere e
si è affrettata a scusarsi.
- Mi
dispiace…mi rendo conto che capitare qui, così, non è giusto, ma avevo paura
che a telefonarti non avresti voluto incontrarmi, e allora…scusami, mi dispiace
davvero, ma è importante, molto.
Mi
sono seduto di fronte a lei. Ho sollevato la cornetta e ho chiamato Anita. Le
ho chiesto di farci arrivare due caffè.
- Vuoi
qualcos’altro? – ho chiesto alla donna che mi sedeva di fronte. Lei ha fatto
cenno di no.
Quindi
non ha cinquant’anni, ma molti di meno, al massimo può avere la mia età, ed io
sto per compierne quarantadue, ma c’è qualcosa in lei di sfiorito, di esausto.
L’ultima
immagine che la riguardi che riesco nebulosamente a rievocare risale ai tempi
del processo. Una bruna con i capelli a caschetto, magra e imbronciata. Quella
che ho di fronte ora è una donna con fianchi solidi e ampi, petto abbondante,
capelli corti sale e pepe, occhi stanchi.
Fiorenza
era la compagna di Chicco. Una figura di spicco di Lotta Continua.
La
sera che gli avevano sparato era d’ottobre e pioveva.
Era
in macchina, sotto casa mia. Con lui c’era Paola.
Paola
era mia moglie da un mese ed era incinta di sette.
Otto
proiettili in tutto.
Io
ero fuori città.
Era
il 1975.
Avevamo
vent'anni, stavamo insieme da due.
Nonostante
la giovane età, nonostante la libertà di cui disponevamo e il mondo cui
appartenevamo, costituivamo una coppia tradizionale, ma non nel senso deteriore
del termine.
Eravamo
una coppia come dovrebbero esserlo tutte e come non lo è quasi nessuna.
Ci
amavamo e ci rispettavamo. Malgrado fossimo poco più che ragazzini, eravamo
molto responsabili.
Io
stavo per laurearmi in biologia, lei si era iscritta ad agraria.
Sognavamo
un futuro nel Terzo Mondo a salvare vite
salvando la Terra.
Ora
può sembrare utopistico, retorico e non m’importa che cosa possiate pensarne.
Il
mio sogno è laggiù, indietro di venticinque anni, in frantumi. Il resto è
storia banale.
Quelle
rivoltellate le avevano sparate dei balordi, fascisti per caso, individuati
quasi immediatamente, cosa rara per quei tempi. Questo era quanto era risultato
dal processo.
Io
avevo presenziato una volta soltanto, mentre mi pare di ricordare che lei non
mancasse mai, così qualcuno mi aveva detto.
Io
allora ero annichilito, come sordo, intontito. Così annientato che neppure la
disperazione riusciva ad aprirsi un varco. Sono rimasto in quelle condizioni
così a lungo che quando mi sono ripreso il mondo aveva avuto il tempo di
cambiare completamente.
Per
molti anni ho lavoricchiato in settori di sottobosco con mansioni senza
rilievo: edilizia, ristorazione, consegne a domicilio, dogsitting, assistenza
ad anziani e disabili. Naturalmente non mi sono mai laureato. E bevevo.
Ruzzolando
giù per la scala una volta mi sono fermato su uno dei gradini, uno dei più
bassi, ormai. Lì, per caso, mi hanno trovato Fabio e Vittorio. I miei soci di
oggi.
Da
Lotta Continua all’espressione più sfrenata del capitalismo senza etica: la
pubblicità.
Ho
ripassato le tappe a grandi balzi, mentre prendiamo il caffè che Anita ci ha
portato, riservando a Fiorenza un sorriso molto solidale.
-
Cosa posso fare per te? – mi sono sentito chiedere, mentre lei accendeva
un’altra Winston.
Fiorenza
ha aspirato una lunga boccata e, come se con quella avesse assunto coraggio,
espirando ha detto
- Ammazzare
un uomo.
Io
avrei dovuto mettermi a ridere, ma lei rappresentava in quel momento un passato
dal quale, se pur ci erano state, le risate erano state tutte cancellate; era
lì a testimoniare di quel grumo di dolore sordo e disumano, uncinato al fondo
del mio spirito per sempre, era un fantasma shakespeariano venuto a chiedere
vendetta.
Così,
invece di ridere, mi sono limitato a chiedere “Chi?”, anche se immaginavo quale
sarebbe stata la risposta.
Fiorenza
ha schiacciato la sigaretta nel posacenere, fissandolo e ha risposto
- Ettore Taliercio - come mi ero
aspettato.
Il processo si era frettolosamente concluso
con una sentenza severa, che aveva condannato a trent’anni Notarianni e
Taliercio, due picchiatori del Fronte della Gioventù, malgrado nel corso del
dibattimento fossero affiorate altre responsabilità ed un testimone – un
pensionato che portava il suo cane a passeggio – avesse dichiarato di aver
visto fuggire tre e non due persone, dopo la sparatoria.
La
figura che il Movimento sospettava si volesse coprire era quella di Italo
Sarno, quello che si potrebbe definire un ideologo, all’epoca.
Durante
un assalto ad una sede del Fronte della Gioventù, nel 1974, lui e Chicco
Costantini si erano trovati di fronte. Nonostante Sarno brandisse una spranga
era lo stesso volato dalla finestra del primo piano in cortile, riportando
fratture che lo avevano lasciato zoppo.
Per
quello e per un’infinità di sordide ragioni che alimentavano i suoi deliri
nazisti, da quel giorno il destino di Chicco, a sua insaputa, era stato
segnato.
Le
indagini parallele del Movimento, avevano inizialmente riconosciuto Sarno come
mandante dell’esecuzione, poi lo avevano identificato come il terzo fuggiasco,
quello visto dal pensionato con il cane.
Io
non ero stato in grado di seguire il decorso degli eventi. Mi ero acquattato in
un limbo di assenza indifferente.
Nessuno
mi informò che Notarianni in carcere aveva ritrattato, affermando di esser
stato presente ma di non avere sparato, e che Taliercio, al contrario, non negò
mai le sue responsabilità.
Fiorenza ora mi sta dicendo che è evaso dal carcere un
paio d’anni dopo la sentenza, facendo immediatamente perdere le proprie tracce,
mentre invece Notarianni non ce l’ha fatta, è morto in galera, d’infarto pare.
In
ogni caso, per tutto l’arco del dibattimento, ambedue avevano sempre negato la
presenza di un terzo uomo nel commando.
In
quella sera di pioggia, sotto casa mia, si erano accostati all’auto di Chicco
fingendo di voler chiedere un informazione ed avevano aperto il fuoco
contemporaneamente con una Beretta cal.7,65 ed una Mauser P38 cal.9.
E’
possibile che Notarianni dicesse la verità, ma in questo caso Taliercio avrebbe
dovuto impugnare una pistola per mano, mentre l’altro stava a guardare. E’
assurdo.
Fiorenza
ha dato la stura ad una serie di considerazioni che, si sente, deve aver
ripetuto per anni, più o meno nella stessa forma. C’è nelle sue parole una
specie di rabbia addomesticata dalla frequenza. E io voglio tornare di là, da
quegli stupidi bancari, non voglio ascoltare lei.
Glielo
dico, così, anche con una certa laconica brutalità. Lei fa un sorriso. Un
sorriso così triste, così impregnato di rassegnazione all’ingiustizia che mi fa
salire il cuore in gola. Cerco di rimediare.
- Abbi pazienza, ho dei clienti molto
importanti che mi aspettano, se non torno i miei soci mi fanno a pezzi. Ma
possiamo vederci più tardi…Ti va se ti invito a cena?
Lei
è un po’ meravigliata ma risponde di sì. Mi da l’indirizzo dove posso passare a
prenderla.
DUE
- Paola
non era il bersaglio. Li avevano seguiti, volevano Chicco e lei ha fatto le
spese…nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Fiorenza
beve un sorso di birra.
Non
mi piace che parli di Paola in questi termini. Per il Movimento e alla fine
anche per me, Paola aveva acquisito l’aura di una martire, di una caduta sul
campo, non di un incidente di percorso.
Siamo
in una pizzeria dove non mi era mai capitato di entrare, ma Fiorenza sembra
essere di casa.
Quando
ho accennato a Sarno ha fatto un gesto come di cosa risolta.
- Morto.
In un conflitto a fuoco con la polizia di Bogotà. Stavo dietro anche a lui, non
credere…
Perché
lei non ha mai mollato. Mentre il paese tornava alla cosiddetta normalità,
Taliercio alla libertà e Sarno a traffici internazionali, lei ha cercato di non
perderne le tracce.
Io
a quell’epoca ero quasi sempre ubriaco e se mai qualcuno mi disse qualcosa in
proposito, lo dimenticai. Ho scoperto tutto dopo, a distanza di più di dieci
anni, e ho chiuso tutto in fondo al posto più profondo che ho trovato in me,
buttando poi via la chiave. Così adesso devo ascoltare questa donna che mi sta
di fronte. E che capisco che continuerà a non mollare.
Lei
non ha fatto come me.
E'
stata sposata, ha avuto una figlia, ha insegnato matematica in un liceo senza
mai smettere di cercare di rintracciarli.
Compatibilmente con il lavoro e le responsabilità familiari, non ha mai ceduto.
Compatibilmente con il lavoro e le responsabilità familiari, non ha mai ceduto.
Lei
lo vuole. Lo ha tallonato per tutti questi anni.
Mi
ha accennato alle difficoltà, ai disinganni, alle complicità imprevedibili
sulle quali lui ha potuto contare e sulle solidarietà inattese che hanno
incoraggiato lei.
Ascoltandola
mi sono sentito a disagio, persino un poco in colpa.
Io
dovrei essere come lei, perché potrei dire di aver perso più di lei, anche se
in circostanze del genere i raffronti non hanno senso, eppure questa ossessione
di giustizia biblica, di vendetta senza remissione non mi ha tormentato quanto
capisco che ha tormentato lei.
-
L’ho trovato – dice all’improvviso, mentre già sorseggiamo il caffé.
Sfila
dalla borsa una busta e dalla busta un paio di fotografie.
Così
mi ritrovo davanti Ettore Taliercio. Più grasso di come lo ricordo ma
inequivocabilmente lui.
- Fino
al mese scorso era a Corpus Christi – dice Fiorenza.
- Dove?
- Corpus
Christi, Texas.
TRE
Non
conosco nessuno che si sarebbe lasciato trascinare in un’avventura del genere
con tanta docilità. E non so neppure riassumere la cadenza degli eventi, così
come sono precipitati dopo che Fiorenza Scolari è venuta da me in studio.
Quello
che so è che tra un paio d’ore atterreremo a Detroit, da lì ci imbarcheremo su
un altro volo per Houston, e poi ci aspetterà un ultimo cambio, destinazione
Austin.
All’aeroporto
ci sarà un tale ad attenderci, uno di cui Fiorenza non mi ha detto granché, che
ci ha “organizzato” il soggiorno.
Mi
sembra impossibile eppure eccomi qui.
Mi
sono liberato dagli impegni di produzione con mille difficoltà ma con una
determinazione che non mi conoscevo.
Ho
scaricato qualche rogna a Fabio e Vittorio ed ho delegato una serie di
responsabilità ai miei assistenti; due cose che erano sempre state escluse dai
miei criteri di comportamento. Ho seguito questa donna che ora mi sta sonnecchiando
accanto, che ha abbandonato una postazione domestica per assumere un ruolo che
ancora non mi è ben chiaro.
Quello
che è certo è che è riuscita a trasmettermi un desiderio di vendetta tardivo ma
bruciante.
Sono
qui perché lei mi ha chiesto di accompagnarla ad uccidere un uomo ed io non ho
la minima intenzione, sicuramente neppure la capacità materiale, di uccidere un
uomo, neppure uno come Ettore Taliercio, neppure ora che ho la certezza che sia
stato lui a sparare a mia moglie trent'anni fa.
Eppure
eccomi qui.
QUATTRO
Tra
la gente in attesa dei passeggeri in
arrivo da Houston si è fatto largo un frate e ci è venuto incontro.
Tutto
mi sarei aspettato - anzi, in realtà un po’ me lo ero immaginato come una
specie di cow-boy, il nostro uomo - ma non quest’omone calvo, con una gran
barba che gli scende sul petto di un saio non pulitissimo.
Indossa
sandali sui piedi nudi, nonostante faccia piuttosto freddo. Ci accoglie con un
abbraccio vigoroso, parla un italiano corretto con un cospicuo accento
americano.
Carica
il nostro bagaglio su un carrello e ci precede fino ad un pick-up color sabbia,
con le ruote coperte di fango secco.
Gli
effetti del jet-lag si stanno facendo sentire. A parte i brevi assopimenti
durante il volo transoceanico devo essere sveglio da almeno trentasei ore.
Qui
è notte. Dall’Italia siamo partiti che era notte. Oppure no. Comincio a
confondermi.
Il
frate, che si chiama Bernardo, va a fermarsi di fronte ad un edificio basso, al
centro di un’area recintata che mi pare uno sterminato parcheggio. Qui, un
negro svogliato ci fa firmare una scheda e ci consegna le chiavi di un furgone
Chevrolet a noleggio.
Bernardo
dice “Seguitemi, siamo a due passi” e ride.
Fiorenza
si mette alla guida dicendo che è abituata al cambio automatico.
A
me pare di avere brevi allucinazioni, di intravedere figure nel buio, e la cosa
curiosa è che tutto questo mi sembra gradevole.
Arriviamo
dopo più di un’ora di viaggio, il che la dice lunga sull’idea di vicinanza che
hanno da queste parti.
Il
convento è strano.
Un
edificio basso, ad un solo piano, a ferro di cavallo.
Un
cortile centrale, lastricato e costellato di piccole aiole derelitte.
Una
serie di porte numerate si affacciano direttamente sul cortile.
La
struttura fiancheggia la strada, protetta da una cancellata un po’ sbilenca di
maglia di ferro a rombi.
Crollo
su un letto nella stanza che mi è stata assegnata e mi addormento vestito.
Quando
bussano alla porta impiego del tempo a capire dove sono.
Di
fronte a me una luce crepuscolare illumina una parete sulla quale si distinguono disegni di una
carta da parati sbiadita.
- Sono
Fiorenza – dice una voce da fuori.
Mi
trascino ad aprire, strizzando gli occhi.
-
Hai dormito così? – chiede lei, indicando i miei abiti stropicciati.
- Una doccia. Dammi il tempo di fare una doccia
- rispondo con voce cedevole. Lei ride, annuendo.
- Siamo in Texas ! – ha detto con allegria, come
se fossimo qui per una vacanza.
CINQUE
In
effetti il convento non è un convento.
I
frati cappuccini pare l’abbiano acquistato parecchi anni fa dal proprietario di
un motel. E di un ex motel si tratta.
L’unico
aspetto che lo differenzia dagli altri è che questo andrebbe affidato ai Beni
Culturali, se qui esiste qualcosa del genere.
Risale
sicuramente alla metà degli anni cinquanta e, da allora, mi pare che non sia
cambiato nulla.
L’angolo
cottura con una specie di piastra sospesa per friggerci il pane, il vecchio
frigorifero che farebbe la gioia di qualsiasi cultore di modernariato in
Italia, la moquette lisa a disegni geometrici, i letti, le tendine alle
finestre, il divanetto scozzese. Tutto è apparentemente rimasto come allora.
Incredibilmente ancora in funzione.
Bernardo
lo gestisce insieme ad un altro frate più anziano, un franco canadese che si
chiama padre Alain.
Organizzano
ritiri spirituali ed incontri di preghiera. Sono solo loro due.
Vanno
ad officiare nelle poche parrocchie cattoliche che ci sono qua attorno ma non
disdegnano – mi dice Fiorenza - di
partecipare a riti di altre confessioni.
Li
chiamano Revival.
Per
stasera siamo invitati ad uno di questi revival.
Fiorenza
ha allestito una gran prima colazione nel suo appartamentino, che è di fianco
al mio. Mi fa notare che Bernardo ha stipato di generi alimentari i nostri
frigoriferi, grandi come cabine telefoniche.
Era
in Avanguardia Operaia.
Fiorenza
sta parlando di lui. Ed è tramite suo che ha rintracciato Ettore Taliercio. E ora la storia diventa davvero paradossale.
Taliercio,
per tutto il periodo della sua latitanza, pare abbia goduto della protezione di
una certa parte del clero.
E’
qui da almeno cinque anni.
Pare
che tenga un profilo basso, ma da quando è da queste parti c’è stato un
incendio doloso in uno studio legale di avvocati ebrei a Galveston, è stato
ammazzato un militante di colore dei Diritti Civili a San Antonio ed è nato il BBC – Bowie Bible Camp – punto
di riferimento per campeggiatori neonazisti, simpatizzanti del Klan e altra
bella gente, sulle sponde del Colorado River che, mi dice, non è lontano.
Mi
accomodo in questa storia, ambientata in luoghi che somigliano sempre di più a
quelli di un film di cui ho visto almeno i “prossimamente”.
Fiorenza
non sembra subire il fascino di questi nomi, che snocciola con indifferenza.
Ha
detto fiume Colorado come dire
Gallarate. E se le circostanze ci spingessero fino al Rio Grande non darà segni
d’emozione ? Probabilmente no.
Prosegue
imperterrita nella composizione della cornice che inquadra Taliercio. Uno
sconosciuto che mi sto sforzando di iniziare ad odiare. Perché finirà, visto il
tipo, che se non lo ammazziamo noi sarà lui a farci fuori.
Ufficialmente
– e qui viene il bello – si occupa delle faccende pratiche di un convento di
Clarisse di clausura dalle parti di Marble Falls.
La
superiora è cubana, suo nonno faceva
parte del governo di Batista.
Rappresenta l’ultima vestigia di un gruppo di suore che, in fuga da
Cuba, erano approdate a Corpus Christi. Dove sono rimaste per anni.
E
lì è stato mandato Taliercio, grazie alla mediazione di alcuni figli e nipoti
di esuli anticastristi che gestiscono le formazioni paramilitari nell’area del
golfo, dalla Florida al Texas.
Sognano
di riconquistare Cuba, complottano da anni con il supporto del Governo
Americano. Sono patetici e pericolosi. Taliercio deve trovarsi come un topo nel
formaggio.
- Non
so perché da Corpus Christi si siano spostate a Marble Falls. Bernardo dice che
è per via dell’assenza di vocazioni. Troppe vecchie suore da accudire, che non
hanno mai imparato una parola di inglese. Problemi economici. La superiora è
piuttosto giovane ma come lei non sono rimaste che in due o tre.
Fiorenza
sta raccontando come se non ci vedesse l’aspetto paradossale. Spalma con cura
un pankake di sciroppo d’acero, ha appena spazzolato una ciotola di corn
flakes. Mi osserva come in attesa di una mia reazione.
- Ma
Bernardo sa ?…
- Cosa ?
- Quello che hai intenzione di fare.
- Quello che abbiamo, intenzione di fare !
Annuisco
mio malgrado. Lei si accende una sigaretta ed ammette che Bernardo ignora il
progetto di far fuori Taliercio. L’ha convinto che la sua intenzione è
quella di individuarlo, segnalarlo alle autorità e ottenere l’estradizione.
- Ma tu come lo conosci ?
- Bernardo ?
- Te l’ho detto, era in Avanguardia Operaia.
- Vabbé. Erano tanti. E poi tu eri in Lotta
Continua.
Fiorenza
emette uno sbuffo di fumo e ci riflette un po’ su.
- Stavamo
insieme… - conclude.
Ripenso
al frate gioviale che ho conosciuto ieri e cerco di immaginarmelo in altre
vesti.
- Prima
di mettermi con Chicco.
Fiorenza
spegne la sigaretta con un gesto brusco.
Si
alza e dice “Andiamo”.
SEI
Me
le passa sfilandole dalla borsa insieme ad una cartina geografica, senza
smettere di guidare.
Dal
nostro convento motel, che è dalle parti di Cedar Park, ci siamo immessi sulla
183 in direzione nord, su consiglio di Bernardo. Ha detto che era meglio che
passare per Austin e prendere la 290 fino al bivio di Johnson City.
- A
meno che abbiate voglia di vedere il luogo natio del vecchio Lyndon B. ! - ha aggiunto ridendo.
Lyndon
Johnson è nato lì attorno, in una fattoria sul Pedemales river, dalle parti di
Stonewall.
- Chissenefrega
- ha borbottato Fiorenza.
- E certo ! - ha concluso Bernardo.
A
bordo sfoglio le fotografie.
Ci
sono Taliercio e Notarianni che fanno il saluto romano.
E
poi, all’improvviso, mi ritrovo faccia a faccia con Italo Sarno. Che guarda
qualcosa fuori dall’immagine, con quel suo sguardo assente di batrace,
accentuato dalle lenti da miope.
Ha
il solito mezzo toscano in bocca.
A
lui, forse sì, avrei sparato.
Lo
avevo incrociato qualche volta, all’epoca, mentre non avevo mai visto né
Taliercio né Notarianni.
La
mia militanza era sporadica, certi aspetti di radicalismo integralista mi
irritavano. Ero guardato dai compagni con una certa perplessità. Dagli Autonomi
con sospetto. Il mio viatico era Paola. Lei ci credeva senza esitazioni.
- Cosa
dice la cartina ? Il bivio è quello o è più avanti ?
La
voce di Fiorenza Scolari ha cancellato un’immagine di mia moglie come non
riaffiorava da anni. Ho il cuore in gola. Mi volto di scatto, con risentimento.
- Che
bivio ? Cazzo, avvertimi prima, no!
Lei
mi lancia un’occhiata di stupore mentre io fingo di concentrarmi nella
consultazione della cartina.
Bernardo
ci ha segnalato un bivio, direzione Bertram, che congiunge la 183 alla 281.
Arrivati a Burnet ripiegheremo verso sud e, in vista del fiume Colorado, ci
ritroveremo a Marble Falls. Un giro dell’oca.
Il
nostro bivio è quello che abbiamo appena superato.
La
strada è deserta. Probabilmente un’inversione di marcia qui è proibita, ma non
c’è nessuno in vista.
Fiorenza
ha accostato al margine ghiaioso e con un colpo di volante da fuggiasco passa
sull’altra corsia, facendo stridere i pneumatici.
Non
parliamo fino a Marble Falls. Probabilmente si sta chiedendo anche lei come
abbiamo fatto a finire qui.
La
cittadina ha la sua Main Street, i suoi sobborghi residenziali, il suo centro
commerciale, solo che sembra tutto appartenere al set di un film ambientato a
cavallo tra gli anni ’50 e i ‘60. Vecchi edifici di legno, giardini protetti da
recinzioni basse, bandiere con la stella solitaria, una torre di tralicci con
in cima una specie di enorme serbatoio con una scritta che da il benvenuto in
città.
Ci
fermiamo ad una passaggio a livello dietro ad un pick up gigantesco. Il merci
che sferraglia via ci impiega un’eternità. E’ interminabile. Il treno più lungo
che mi sia mai capitato di vedere.
Andiamo
in banca e poi mangiamo un boccone.
Fiorenza
parcheggia e scendiamo. Sono in America da almeno venti ore ma è la prima volta
che ci cammino davvero. Prima non sono stati che aeroporti ed il motel dei
Cappuccini, sospeso nel vuoto notturno.
Fa
più freddo di quanto immaginassi.
Fiorenza
si infila in una banca e io la seguo.
Si
presentano immediatamente problemi con i travel’s cheques. Mi sembra di capire che la cifra sia troppo
alta. Lei tenta una trattativa ma quelli sono gentilmente irremovibili.
Usciamo
ed io le dico di non preoccuparsi, che possiamo usare la mia carta di credito.
Lei sembra non ascoltarmi neppure. Chiede informazioni. Ci indicano un’altra
banca.
Ho
la sensazione che le poche persone che incontriamo per strada ci osservino con
curiosità. Ed è una sensazione che non mi piace.
Anche
nella nuova banca ci sono problemi con i tagli dei travel’s cheques. Lei
borbotta astiosamente qualcosa a proposito della sua banca in Italia.
Io
provo a tornare sull’argomento carta di credito e lei dice, senza guardami, che
le occorrono contanti.
In
America.
Neppure
questo mi piace.
Alla
fine la trattativa sortisce un risultato, ma prima di cambiarle i travel’s
l’impiegato estrae l’attrezzatura e Fiorenza è costretta a lasciare le sue
impronte digitali.
Mi
sembra una cosa incredibile. Di pessimo auspicio. Lei accenna un sorriso verso
di me, mentre le ruotano i polpastrelli imbrattati d’inchiostro sugli appositi
spazi di un cartoncino prestampato.
Appena
siamo fuori, mentre si strofina le dita con un kleenex, dice “Adesso andiamo a
mangiare un boccone”, e attraversa la Main Street.
Della
donna incerta che ho avuto di fronte nella sala riunioni del mio studio non c’è
più traccia. C’è invece la determinazione un po’ fredda della barricadera di
vent’anni fa. Ha un passo elastico ma robusto.
Mi
ritrovo a pensare a sua figlia, che mi ha mostrato in fotografia e di cui
sembra andare particolarmente orgogliosa, che lavora a Lisbona.
Del
marito non ha parlato mai. Però ci sarà stato, almeno per un certo periodo, in
tutti questi anni, durante i quali io me ne sono stato appartato, ferocemente
autoescluso.
Sono
sempre andato fiero di non aver più dato spazio a quasi nulla dopo la morte di
Paola, di esser stato inseguito, braccato dal mondo perché ci rientrassi, e di
aver invece tenuto duro.
E
adesso, guardando Fiorenza Scolari, con il fisico appesantito di una donna di
mezza età e quest’aura da combattente che mi sembra di poter addirittura toccare,
provo un rassegnato sentimento d’invidia, ho la sensazione di non aver fatto la
cosa giusta. Per vent’anni.
SETTE
Il
locale si chiama “Must be home”.
Le
ragazze al bancone del self service indossano delle casacchine a righe bianche
e rosse, una bustina inamidata appoggiata vezzosamente sulla testa e sono
gentili, amichevoli.
Hanno
denti perfetti, occhi azzurri, culi grossi.
Ci
rifugiamo con i nostri vassoi in uno dei separè con i sedili di finto cuoio
rossiccio.
Altri
avventori mangiano piuttosto silenziosamente negli scompartimenti accanto al
nostro.
La
musica che esce da un juke-box è incredibile.
Sta
suonando “Unchained Melody” degli Everly Brothers.
Le
ragazze al bancone, la canzone, l’arredo, gli avventori.
Siamo
nel bel mezzo di una puntata di Happy Days. Quella che non è mai andata in onda
perché è troppo malinconica.
Fiorenza
ha appetito e io anche.
La
crema di broccoli e formaggio è squisita, e così pure il toast di pane di
segale farcito. I cubetti di ghiaccio tintinnano nei bicchieroni di Coca-Cola.
Lei
espone il piano tra un boccone e l’altro. Senza esitazioni, senza che mai io la
interrompa.
Sono
affascinato da quello che lei sta descrivendo, che mi vede protagonista di un
avvenimento cui non ho nessuna intenzione di partecipare. Eppure sono qui. Ho
varcato l’oceano. Sono finito in un posto assurdo in Texas, come se fossi
d’accordo.
Che
cosa mi sta succedendo ?
Le
suore occupano un appezzamento di parecchi ettari in prossimità del lago
Travis, che se non ho capito male non è un vero e proprio lago, ma uno di quei
bacini artificiali costruiti per iniziativa del piano di risanamento nazionale,
il New Deal, del presidente F.D. Roosevelt, dopo la grande crisi del 1929.
Sul
fondo del lago, come su quello di un altro più a nord, il Buchanan, pare
riposino agglomerati urbani con tanto di municipi, stazioni di servizio, chiese
e drugstores. E anche questo mi suona un po' macabro, tenendo conto che adesso,
sulle sponde, ferve una considerevole attività turistica.
Le
Clarisse stanno piuttosto appartate. I proventi per l’amministrazione del
convento derivano dall’allevamento di cavalli in miniatura di cui si prendono
cura le suore più giovani.
L’allevamento
è aperto al pubblico dei visitatori tutti i giorni, dalle 14.00 alle 18.00.
Fiorenza
ha una piantina. Giurerei che l’ha tracciata Bernardo. Ci sono anche delle
fotografie.
C’è
la casa del custode, poco oltre l’arco d’ingresso in puro stile ranch, poi un
lungo viale che piega a destra, tra paddocks recintati.
Poco più avanti, da un lato ci sono due piccoli edifici: un prefabbricato che funge da ufficio e un altro dove vendono souvenirs.
Poco più avanti, da un lato ci sono due piccoli edifici: un prefabbricato che funge da ufficio e un altro dove vendono souvenirs.
Ancora
più avanti ci sono le stalle e le rimesse. In fondo al viale il convento e la
cappella.
Dietro
il convento si aprono pascoli liberi che confinano con un boschetto. Sul
limitare di quel boschetto c’è una casa mobile.
Lì
abita Ettore Taliercio.
- Domani
ci andiamo – dice Fiorenza.
OTTO
Mi
sembra un’idea assurda. Se Taliercio è in giro da quelle parti ed è sempre sul
chi va là, come suppongo stia uno nelle sue condizioni, finirà con
l’individuarci subito.
Fiorenza
dice di no.
Dice
che per quanto riguarda lei, almeno, è difficile che la riconosca. Devo
ammettere che ha ragione, ma per me ? Al contrario di lei io ho mantenuto, più
o meno, lo stesso aspetto di allora, non sono ingrassato, non ho perso i
capelli che non sono neppure grigi. Invecchio bene, malgrado tutto.
- Ho
un piano. Non ti preoccupare – risponde lei, laconica.
Torniamo
a Cedar Park. Fiorenza annuncia di avere un appuntamento. Io fingo di non
incuriosirmi. Viaggiamo in silenzio. Lungo la 281 ci sono case isolate che
sembrano uscite da un film ambientato negli anni della Depressione, con
carcasse arrugginite di auto nei cortili e cani che abbaiano rauchi ai rari
automezzi di passaggio.
Superiamo
una stazione di servizio dove un vecchio decrepito, con cappello e stivali da
cow-boy, armeggia con il tappo della benzina, mascherato dietro la targa
reclinabile, senza riuscire a svitarlo.
NOVE
Al
motel/convento, in effetti, c’è un tale in attesa. Seduto in una Mercury dai
finestrini color bronzo.
Fiorenza
mi dice di aspettarla nella sua stanza. Né Bernardo né Alain sembrano essere in
circolazione.
Passando
accanto alla Mercury lancio un’occhiata all’interno. Il tipo alla guida si
intravede appena, ma mi pare abbia un aspetto latino.
Fiorenza
apre la portiera del passeggero e si accomoda nell’auto.
Io
vado a sedermi in camera sua, su una poltrona rivestita di felpa consunta con
disegni di velieri. Aspetto senza osare avvicinarmi alla finestra.
Per
la prima volta da quando ho accettato, come in trance, di partecipare a
quest’assurda avventura, ho la certezza che non appena Fiorenza Scolari
varcherà quella soglia che mi sta di fronte io mi chiamerò fuori.
Mi farò immediatamente riaccompagnare a Houston. Salirò sul primo aereo che mi riporti in Europa, o anche solo a New York. Ma alla larga da qui.
Mi farò immediatamente riaccompagnare a Houston. Salirò sul primo aereo che mi riporti in Europa, o anche solo a New York. Ma alla larga da qui.
Fiorenza
entra. Appoggia un borsone sul tavolo. Sfoggia uno sguardo di allarmante
compiacimento.
- Io
torno a casa – dico.
Lei
apre la cerniera del borsone e ne estrae quattro pistole.
Le
denomina disponendole in bell’ordine sul tavolo.
- SIG
210 .9x21, Beretta 98 FS. 9x21, Colt Python .357 magnum, Smith & Wesson
.45ACP.
Per
un momento mi lascio incantare dall’imprevedibile competenza che sfoggia
nell’appoggiarle una ad una.
- Mi
hai sentito ? – chiedo poi, però, con stizza – io torno indietro. Tutta questa
faccenda non ha senso.
Lei
si limita per un momento ad osservare le armi con una specie di intima
soddisfazione, poi va ad armeggiare dentro il suo zainetto da viaggio. Ne
estrae una di quelle buste color senape in cui ho capito che ha catalogato una
specie di archivio personale portatile.
Viene
a fermarmisi di fronte. Io sono seduto, le mani aggrappate ai braccioli della
poltrona. Furioso per il suo non ascoltarmi.
Lei
mi getta la busta in grembo e torna alle sue pistole.
Vorrei
urlare qualcosa, ma invece apro la busta.
Paola
mi sorride da un’istantanea che non avevo mai visto.
Il
mio ritmo cardiaco accelera vorticosamente. La mia rabbia si stempera in un
sussulto di commozione incontrollabile. Sfoglio il resto del contenuto della
busta: ritagli dai giornali d’allora, fotografie scattate durante assemblee e
manifestazioni. La caratteristica comune a tutte quelle immagini è che in
ognuna c’è anche mia moglie. In una, in particolare, ride tra altre donne. E’
senza ombra di dubbio la più carina e attraente. Indossa una salopette ed
esibisce con evidente compiacimento la vistosa rotondità della sua gravidanza.
Poi
ci sono Taliercio e Notarianni, durante un comizio di Almirante. Truci, ai
piedi del palco, a braccia incrociate con quell’atteggiamento ridicolo e
allarmante da pretoriani d’accatto. E improvvisamente Italo Sarno, ancora
durante una manifestazione.
E’ tra agenti in divisa e altri in borghese. Due di loro impugnano delle automatiche. Fissano un punto come se guardassero appena a lato della macchina fotografica che li ha inquadrati. L’immagine è sgranata. Deve essere stata scattata con un teleobbiettivo piuttosto potente, da molto lontano. Dal di qua della linea di difesa del nostro servizio d’ordine.
E’ tra agenti in divisa e altri in borghese. Due di loro impugnano delle automatiche. Fissano un punto come se guardassero appena a lato della macchina fotografica che li ha inquadrati. L’immagine è sgranata. Deve essere stata scattata con un teleobbiettivo piuttosto potente, da molto lontano. Dal di qua della linea di difesa del nostro servizio d’ordine.
Lui
almeno si è fatto ammazzare senza che dovessimo occuparcene noi.
Mi
viene da ridere a fare un pensiero del genere, ma la foto successiva il riso me
lo mozza in gola.
-
E questa come fai ad averla ? – chiedo col filo di voce che riesco ad emettere.
Paola
è distesa su un tavolo di zinco, con il corpo coperto da un lenzuolo. Sporgono
solo i piedi nudi e la testa. In una foto in bianco e nero.
Il
viso è tumefatto. Gli occhi chiusi hanno le palpebre scurite.
Uno
dei proiettili era entrato nella zona occipitale fuoriuscendo sotto la
mandibola.
Fiorenza
non risponde. Si sta cambiando.
Non
dà peso alla mia presenza. Si muove rapidamente. Si libera dei mocassini, si
sfila i jeans. Io fisso i suoi movimento senza capire. E’ in mutande. Ha gambe
pallide, molto muscolose. Non riesco a fare a meno di fissare la zona del pube.
Le mutandine modellano la fessura tra le grandi labbra. Mi vergogno del mio
sguardo ma non riesco a distoglierlo. Fiorenza non si accorge di nulla. Infila
un paio di collants del tipo da infermiera, un gonnellone grigio e dei sandali
Birkenstock.
Prima
di liberarsi del golf e della camicetta mi dà la schiena. Infilandosi una dolce
vita bianca ruota un poco su se stessa, offrendomi la fugace visione dei seni,
grossi, pallidi come le gambe, sorretti da un reggipetto marrone,
imprevedibilmente vezzoso. Sulla dolce vita appoggia un cardigan di lana
grigio, della stessa tonalità della gonna. Si appende al collo un cinghietto di
cuoio dal quale penzola un Tau di legno, si appunta una piccola croce argentata
sul bavero del cardigan, infila un paio di occhiali dalla montatura di metallo
e un baschetto fatto a maglia. E alla fine mi guarda. Io sto pensando a Paola.
Ai suo seni, dopo aver intravisto quelli di Fiorenza.
- Come
sto ? – chiede.
- Sembri
una Testimone di Geova – dico.
- Una
suora ?
- Qualcosa
del genere…
- Perfetto.
Apre
un'anta dell’armadio e ne estrae un saio.
- Tu
provati questo – dice.
- Ma
nemmeno per sogno !
Lei
mi lancia il saio e si osserva nello specchio.
- Domani dobbiamo esser lì per l’apertura ai
visitatori. Ci mescoliamo a loro.
Ripone
le pistole nella sacca e la infila sotto il letto. Poi viene verso di me,
raccoglie foto e ritagli di giornale ripone il tutto nella busta color senape.
Mi fissa per un lungo momento.
- In
effetti ci posso andare anche da sola. Quando sono venuta a cercarti ero convinta di no, ma
adesso…Insomma, se vuoi puoi startene qui e aspettare, ti chiedo solo di non
andartene prima che io abbia finito. Potrebbe essere rischioso. Per me e anche
per te.
Io
guardo verso il margine inferiore del letto.
- E
comunque non è per domani – dice lei.
Mi
alzo. Tolgo il giubbotto e infilo il saio, che ha un vago odore di muffa.
Fiorenza mi porge un paio di Birkenstock uguali ai suoi.
DIECI
Non
è che ci sia una folla di fronte all’edificio basso che funge da negozio di
souvenirs, ma un numero sufficiente di persone tra le quali confondersi.
Cerco
di individuare il punto dove c’è la casa mobile che ho visto disegnata sulla
mappa, ma di qui si scorgono solo alberi. Grandi alberi secolari, ai piedi dei
quali, qua e là, sono disposte panchine in stile Adirondack. Grosse cornacchie
balzellano sui prati sotto quegli alberi. Laggiù si scorge la sommità del
campanile della cappella del convento. La casa mobile non deve esserre lontana.
La
suora che ci accompagna nel giro di visita è giovane e obesa. Non capisco se
sia timida, scontrosa o addirittura un po’ tarda. Parla a voce bassa, con frasi
smozzicate che sembra rivolgere più a se stessa che ai presenti. Ci precede con
gli ancheggiamenti affaticati delle persone molto grasse. Peserà sicuramente
più di cento chili e non credo che superi il metro e sessantacinque di altezza.
Mi ha chiamato “padre”. Io ho risposto “pace e bene”, come da istruzioni di
Fiorenza.
Ad
un certo punto, uscendo dal capannone dove sono i boxes dei cavallini, ho avuto
un tuffo al cuore.
A
bordo di un piccolo John Deere a sei ruote è passato Taliercio.
L’ha
visto anche Fiorenza, ed ha subito distolto lo sguardo. Io non ci sono
riuscito. Ho osservato il suo allontanarsi. Lui non ha rivolto neppure
un’occhiata al gruppo dei visitatori.
E’
invecchiato, calvo.
Ma
mi è parso che lo sguardo conservasse la malevolenza sprezzante dei suoi anni
giovanili. Mi chiedo come addirittura delle suore non si rendano conto con chi
hanno a che fare. Osservo la nostra accompagnatrice mentre caracolla verso il
convento, precedendoci.
In
effetti, una così, non si accorgerebbe di nulla.
Ha
accarezzato affettuosamente uno dei cavallini di cui si prende cura, ed è stato
l’unico momento in cui ha sorriso. Ha disteso le labbra screpolate mettendo in
mostra una dentatura malconcia borbottando qualche parolina all’orecchio
dell’animale.
Tra
l’altro credevo si trattasse di pony, ma in realtà sono ancora più piccoli, e
non grassocci come i pony. Sono davvero cavallini in miniatura.
La
suora obesa, che si chiama Rose, ha affermato con esemplare laconicità che è
stata la fondatrice del convento, quello di Corpus Christi, morta ormai da più
di un decennio, a selezionare la razza. Dopo alcuni minuti ha aggiunto che
vengono collezionisti e acquirenti da tutto il paese. Ha detto proprio così:
collezionisti. Di cavallini in miniatura.
Aldilà
della cappella si apre un largo spiazzo di terra battuta circondato da alberi.
Dove questi si infittiscono, sul limitare, c’è la casa mobile. Una specie di
carrozzone oblungo, con grandi finestre ed una veranda in legno di fronte
all’ingresso. Il John Deere è parcheggiato lì davanti. Guardo Fiorenza. Sta scattando
fotografie. Trattengo il gesto istintivo che mi porterebbe a cercare di
impedirglielo, ma lei intanto ha già smesso. Sorride.
Gli
altri visitatori, come contagiati da un incontrollabile spirito di emulazione
hanno preso anche loro a scattare fotografie in direzione della casa mobile. Se
Taliercio, di là dentro, ci sta osservando, andrà un po’ in paranoia ?
Prima
del commiato si fa un giro nel negozio di souvenirs. Fiorenza compra un rosario
a grani color rubino, io un paio di cartoline che ritraggono la madre
fondatrice. E’ alla guida di un piccolo
calesse trainato da uno dei suoi cavallini. Alla tonaca da Clarissa accompagna
uno Stetson e stivali da cow-boy.
UNDICI
Fiorenza
si è fermata nel parcheggio di Wal*Mart.
Poco
oltre l’ingresso c’è un posto di sviluppo istantaneo dei rullini.
Io
mi sono liberato del saio ma lei conserva il suo travestimento. Non si è tolta
neppure il baschetto.
In
attesa delle foto mi offre caffé e ciambelle.
Non
parla ma pare tranquilla, soddisfatta direi.
Appena
abbiamo lasciato il monastero io parevo una mitragliatrice. Ho parlato a
raffica. Di Taliercio come se lo avessi visto solo io, dell’emozione dolente
che mi aveva procurato. Lei ha sempre sorriso, tranquilla, senza dir nulla.
Dopo
aver ritirato le fotografie ci siamo seduti nel furgone a sfogliarle.
- Ecco qua – dice lei, appoggiando il dito
su alcune immagini. Io non vedo nulla.
C’è
una strada sterrata qua dietro – dice Fiorenza – costeggia un lungo tratto della rete di recinzione.
-Vedi qua ?
In
effetti qualcosa mi par di vedere.
- Bernardo
lo aveva detto. C’è un punto che sarà a nemmeno una ventina di metri dalla casa
mobile.
Io
annuisco senza capire. Lei avvia il motore e si torna al motel.
DODICI
Bernardo
si è fermato su uno spiazzo antistante un edificio basso, festonato di luci
come una fiera, che lo fanno sfavillare nell'oscurità di questo immenso
parcheggio in mezzo al nulla.
-
Ci siamo ! - ha esclamato sorridente, e siamo scesi tutti. Lui, Alain che
non parla mai, Fiorenza e io.
L'interno
è quello che, credo, da queste parti venga in mente alla gente quando pensa ad
una chiesa.
La
cosa più sorprendente è che è tutta moquettata.
L'altare,
o quello che è, è addossato curiosamente ad una delle pareti lunghe di questo
edificio rettangolare, insomma dove meno ti aspetteresti che fosse. Ai fianchi
dell'altare si aprono due porticine dalle quali, in questo momento, stanno
entrando e uscendo persone indaffaratissime. Sulla parete di fronte ci sono
panche disposte a gradinata, come al circo.
Sulla
parete breve di sinistra ci sono altri banchi, appena tre o quattro file,
questi sì, di foggia chiesastica. Di fronte, un palco basso, su cui sono
disposti un pianoforte, una batteria, un organo elettrico e su cui si stanno
assiepando uomini e donne, per la metà bianchi e per la metà di colore, avvolti
in tuniche di raso celeste con enormi colletti e polsini bianchi.
Bernardo
sta salutando e abbracciando un sacco di gente. Alain fa altrettanto, direi con
meno convinzione. Io e Fiorenza stiamo lì, e restituiamo i sorrisi che ci
rivolgono.
-
Questo è il famoso Revival - mormora lei.
-
Interessante - rispondo.
Ci
presentano un predicatore di colore che subito dopo si lancia al piano in un
rythm 'n' blues indiavolato che parla di Dio e della sua benevolenza.
Entrano
poi in scena con cadenze da scaletta una nera obesa, con elaboratissimo
chignon, che si accomoda non senza difficoltà alle tastiere, un batterista,
anche lui nero, che potrebbe avere anche più di settant'anni, con un sorriso
serafico e bonario e un fisico ossuto e fragile, e poi un bianco sulla
trentina, con capelli lunghi crespi e, a tracolla, un basso Fender screpolato.
Sono
bravissimi. Così pure il coro, che tuona all'improvviso, facendomi venire la
pelle d'oca, diretto da una bianca con una cotonatura laccata di capelli neri
immobili, nonostante lei si dimeni parecchio. Un elmo. A modo suo bella. Di
quelle bellezze passate di moda alla fine degli anni cinquanta.
Credevo
che mi sarei annoiato ed invece la funzione mi avvince. Mi irrita tutto questo
sbraitare l'amore di Gesù, ma lo fanno con una teatralità irresistibile, da
professionisti.
Sui
banchi del lato corto Bernardo si agita, facendo svolazzare la tonaca marrone,
col braccio alzato e il pugno chiuso, urlando Jesus a tempo, sulle cadenze dettate
dal coro. Molti lo imitano.
Guardo
Fiorenza. Anche lei l'ha visto. Lo osserva con un mezzo sorriso di
condiscendenza.
-
E' sempre stato un po' ingenuo. Un sentimentale. Però affidabile. Io esco a fumare. Ci vediamo alla fine.
Quando
poi siamo già a bordo del furgone e Bernardo, giulivo e sudato, sta avviando il
motore, ci raggiunge un tipo che avevo notato all'ingresso, che stava là come
un controllore.
Ha
il viso butterato, i capelli unti, e passandogli accanto avevo sentito che
puzzava.
Bernardo
abbassa il finestrino. Il tipo gli parla con una certa concitazione, sibilando
sottovoce tra i vuoti dei denti mancanti. Bernardo sembra tranquillizzarlo.
-
C'è gente a cui non va che si mescolino razze, religioni come facciamo noi -
dice dopo che ci siamo avviati.
-
Harry è un alcoolista. Si è inventato questo ruolo di protettore. E' un buon
diavolo, e poi conosce un sacco di gente, gente strana, del sottobosco, non so
se mi spiego. Una volta è riuscito a sventare una specie di aggressione da
parte di un gruppo di fanatici episcopali o battisti o non so più cosa. Davvero
un buon diavolo, sì, si.
TREDICI
-
E' per stasera.
Fiorenza
me lo dice senza guardarmi, fumando, seduta su una di queste seggiole che
stanno accanto agli ingressi delle stanze del motel, al riparo di una pergola
che corre tutt'attorno.
-
Io non ho mai sparato - mormoro.
-
Non è che tutti hanno ammazzato qualcuno - risponde.
-
No. Voglio dire che non ho mai preso in mano una pistola in vita mia !
-
Punta come hai visto fare nei films. Un po' più in basso di quello che credi
sia giusto. Per il rinculo. E non chiudere gli occhi. Per il resto ci sono io,
sta tranquillo.
Un'insegnante
di matematica di un istituto per geometri.
Come
ho potuto seguirla fin qui ?
Per
Paola ? Dopo tutti questi anni ?
Ho
passato una giornata d'inferno malgrado le gocce di Lexotan che Fiorenza mi ha
provvidenzialmente somministrato.
Siamo
partiti col buio. La borsa con le armi sul sedile dietro di noi. Vestiti di
scuro. Con il pensiero fisso - almeno io - all'assurdità di quello che ci
preparavamo a fare.
A
un certo punto sono sbottato.
-
Senti, lasciamo perdere. E' una follia !
Fiorenza
ha accostato al bordo sterrato della maledetta 281, su cui non incrociamo
un'auto da Burnet. Ha spento i fari. Fuori il buio è totale.
-
Scendi - ha detto.
-
Ma sei scema ?
-
Scendi. Io non ho tempo di riportarti indietro. Arrangiati. Io vado.
Ho
incrociato le braccia e ho sussurrato
-
Metti in moto.
Ero
furioso e impotente. Volevo farla finita in qualche modo, pur di uscirne. Credo
che lei l'avesse previsto. E' ripartita senza guardarmi.
La
rete metallica che corre lungo il confine posteriore della proprietà delle
Clarisse sarà alta più o meno un metro e mezzo. Non capisco perchè Fiorenza
intenda usare le cesoie che ha preso dal pianale del baule.
Come
fa ad averle ? Quando se le è procurate ?
E
glielo dico.
- Possiamo scavalcare - dico.
Lei
un po' ansima nello sforzo di tagliare la griglia, ma non mi ha chiesto aiuto.
-
Adesso sì, ma quando veniamo via, forse...sarà meglio un'uscita comoda e
veloce.
Ha
fatto un lavoro preciso, senza sbavature, geometrico. Ha liberato lo spazio tra
due montanti.
Il
furgone l'abbiamo parcheggiato poco più avanti, al riparo di un vecchio capanno
d'assi lungo la strada.
Ci
torniamo.
Lei
posa le cesoie e sfila da uno zainetto due berretti di lana neri, uno per lei e
uno per me. Lo indosso senza fiatare. Fiorenza si ficca una torcia in una tasca
del gilet e apre la cerniera della borsa delle pistole.
Ce
ne sono quattro. A me ne passa una a tamburo, se ne infila due nella cintura e
una la tiene in mano.
-
Andiamo - dice.
Le
chiedo sottovoce, anche se lì attorno non c'è anima viva per chissà quanto
spazio, perchè mi abbia dato una sola pistola.
-
Mi hai detto che non sai sparare. In ogni caso vedremo. Se occorrerà te ne
passerò un'altra.
Fa
una risatina inaspettata.
-
Guarda che non è la sfida all'O.K. Corral. Rilassati.
Torna
subito seria.
- D'ora
in avanti fine della conversazione. Non avere paura ma stai all'erta. Come ti
senti ?
- Nervoso.
- Devi
cercare di restare calmo. Quando sarà il momento ti dirò cosa fare. Andrà tutto
bene, O.K.?
- Bene... -
rispondo senza convinzione.
E
si va.
Il
boschetto si attraversa facilmente. Gli alberi sono radi e piuttosto esili. La
luce lunare è più che sufficiente. Poi ecco la casa.
- Cazzo
! Non è solo ! - sussurra Fiorenza.
Sul
fronte posteriore la casa mobile ha una parete a vetri, e al di là di questi
c'è una specie di soggiorno.
Da
lì ora arrivano anche dei suoni. Voci, musica. Tex-mex.
Di
fronte a noi un'altra rete metallica. Non possiamo avvicinarci di più.
-
E questa che cazzo è ? - Fiorenza sibila furiosa.
Seguiamo
cautamente il perimetro delimitato dalla rete. Racchiude un ampio spazio
posteriore della casa mobile. Non si capisce che funzione abbia.
-
Cani ? - ipotizzo.
-
Ci avrebbero già sentiti da un pezzo. S arebbero tutti qui ad avventarsi contro
la rete con la bava alla bocca. No...
-
Magari un orto, sai, le suore...- sussurro.
-
Dobbiamo arrivare più vicino. Torniamo a prendere le cesoie - dice lei.
-
Eh, no ! Cazzo ! - mi sposto sulla parte più lontana dalla vetrata ed inizio a
scuotere la rete. Questa oscilla, è fissata a paletti poco profondi. Fiorenza
cerca di fermarmi.
-
Ma sei matto ? Cosa credi di fare ?
-
La tiro giù ! Non faccio avanti e indietro per tutta la notte in quel cazzo di
boschetto !
Un
rumore improvviso davanti a noi ci zittisce. Una specie di fruscio, seguito da
un batter sul terreno, ma non sono passi.
-
Cos'era ? - chiedo.
-
Non so - risponde lei.
Intanto
la rete ha ceduto, si è quasi adagiata a terra per un tratto che ci permette di
passarci sopra.
-
C'è qualcosa qui dentro - dico, e si capisce che ho paura.
-
Non ha ringhiato, non ha latrato, non ha muggito. Sarà uno dei cavallini delle
suore, più spaventato di noi.
L'ipotesi
è plausibile. La seguo.
Avanziamo
con cautela lungo la rete rimasta in piedi fino ad avere la vetrata di fronte,
poi iniziamo ad avvicinarci, acquattati.
Là
dentro sono in quattro.
I
due di cui vediamo i lineamenti sono inequivocabilmente latino-americani. Di
quelli che ci danno le spalle uno deve essere Taliercio.
Siedono
su grosse poltrone imbottite. Accanto a loro, incongruo, un inginocchiatoio. Un
omaggio delle suore, sicuramente.
Tra
noi e la vetrata adesso ci saranno una decina di metri. Non possiamo
avvicinarci di più senza rischiare di essere visti.
-
Si alzerà prima o poi, no ? - sussurra Fiorenza.
Io
annuisco.
Saggio
l'impugnatura del revolver che mi sono infilato nella cintura. Il calcio mi
preme fastidiosamente contro lo stomaco.
-
Dovevamo andare all'ingresso, bussare e quando veniva ad aprire, pam, pam. -
mormoro. Non so cosa mi stia prendendo. Una specie di smania.
Fiorenza
scuote la testa.
-
Sì, nel cuore della notte...Ma con chi credi di avere a che fare ? Questi sono
sempre in campana. O li becchi di sorpresa o niente. Sta calmo e aspetta...
Sto
per accettare il consiglio quando percepisco un movimento sulla mia sinistra.
E' simile a quello di prima, come uno scuotimento frusciante. Mi volto e dal
buio compare quest'occhio spalancato che fluttua in cima ad un corpo, un collo,
non so.
Mi
prende un accidente. Non esistono serpenti che si possano ergere a
quell'altezza, non esistono serpenti con quegli occhi, mi dico.
E'
un collo. Adesso ruota, protendendosi verso di me. Tra gli occhi ha un becco.
Cazzo,
è uno struzzo.
Fiorenza
lo vede solo ora e lancia un urlo.
Lo
struzzo reagisce di scatto e frulla via nel buio, urtando qualcosa, qualcuno
che era dietro di lui, ancora più guardingo, e che si allontana con una specie
di galoppo leggero.
Un
cavallino delle suore ?
Intanto,
però, i quattro hanno sentito.
I
due che ci danno le spalle si sporgono oltre gli schienali delle poltrone a
scrutare il buio, verso di noi.
Eccolo
Taliercio. Dice qualcosa che noi non possiamo sentire, vediamo le sue labbra
muoversi al di là dei vetri. E gli altri ridono. I latino-americani
soprattutto.
Lui
si alza e si sposta fuori dalla nostra vista.
Ma
tutto questo lo realizzo dopo. Adesso sono pietrificato, e Fiorenza più di me.
Il
quarto uomo non ride. Ci fissa, e anche se sappiamo che non ci può vedere ci fa
sentire scoperti. Quegli occhi senz'anima, stupidi e pericolosi.
Italo
Sarno.
-
Hai detto che era morto !
Fiorenza
non risponde. Mentre alza il braccio improvvisamente si accende una luce che
illumina il recinto.
C'è
una porta di fianco alla vetrata. Lo struzzo è lì accanto. Un cervo gli
zampetta attorno. E' tutto assurdo. poi la porta si apre e nel vano compare
Taliercio. Ci vede subito. Fiorenza spara a raffica verso di lui.
E
io contro la vetrata. Non a raffica.
Il
grilletto mi sembra durissimo. Devo impugnare l'arma a due mani.
La
vetrata va in frantumi. Esaurisco i sei colpi in un tempo che mi sembra
fulmineo ed eterno allo stesso tempo.
Un
frastuono spaventoso ed eccitante.
Poi
silenzio.
Fiorenza
impugna una seconda pistola.
Giunge
improvviso il rumore di un'auto che si mette in moto rabbiosamente. Uno stridere di pneumatici. L'auto che si
allontana aldilà della casa mobile.
-
L'ho preso. Devo averlo preso ! - mormora Fiorenza. Ha l'aria stravolta.
Io
fisso il soggiorno. Un corpo è riverso sull'inginocchiatoio.
Ci
avviciniamo guardinghi. Sono terrorizzato. Non ho mai visto un morto ammazzato,
se non nei film, ma capisco subito che questo lo è. Vedo per la prima volta
quella fissità fotografica, quell'immobilità scomposta di oggetto inanimato.
-
L'hai preso - constata Fiorenza.
-
Ma chi ?
-
Non so, sembra messicano, qualcosa del genere.
-
Ho ammazzato uno sconosciuto, uno che non c'entrava niente !
-
Se era qui, con loro, c'entrava eccome, in qualche modo, non ti crucciare. Sarà
stato uno di quei trafficanti di gente, droga, organi, i loro affari.
-
Ma lo hai visto Sarno, si ?
-
Sì...
-
Avevi detti che era morto. Un conflitto a fuoco con la Polizia.
-
Era scritto sui giornali...dobbiamo andare via !
Si
avvicina alla porta sulla quale era apparso Taliercio.
La
seguo. Ci sono tracce insanguinate sulla parete.
-
Allora l'ho preso - dice lei, e entra.
-
Cosa fai ?
-
Devo vedere se è qui.
-
Vieni via !
Ma
lei è già sparita.
Resto
lì, con una pistola scarica in mano ad osservare lo struzzo e il cervo, che
osservano me.
Ho
bisogno di stare in pace, penso.
Ridicolo.
Dopo
un'eternità Fiorenza ricompare.
-
In casa non c'è. Se lo sono portati via, ma c'è un sacco di sangue fino
all'ingresso di fronte. L'ho preso.
Lontanissimo
arriva il suono di una sirena.
-
Via adesso !
dice
lei, e corre.
La
seguo attraverso il boschetto, inciampo, non mi oriento.
L'essere
stato alla luce finora mi confonde, mi sembra d'essere in un buio totale
-
Accendi quel cazzo di pila ! - impreco.
Lei
lo fa.
La
spegne quando arriviamo al varco nel recinto.
Siamo
già a bordo del furgone quando sentiamo spegnersi il suono delle sirene,
laggiù, in direzione della casa mobile.
Lei
guida tranquilla.
-
Italo Sarno è vivo, ed è qui. E' pazzesco. devo subito telefonare in Italia.
-
No ! Noi dobbiamo tornarci, in Italia, non telefonare !
-
Stai calmo. Arriviamo da Bernardo e facciamo il punto.
-
Io domani parto. E questo è quanto.
Getto
il revolver, che ho impugnato spasmodicamente fino a questo momento, a terra,
tra i miei piedi.
Mi
ha chiesto di accompagnarla ad uccidere un uomo, beh, l'ho fatto.
Uno
l'ho ucciso. E chissà chi era.
QUATTORDICI
Fiorenza
ha giudicato inevitabile raccontare tutto a Bernardo, e forse ha avuto ragione.
Mi
hanno lasciato dormire. Ho fatto una tirata di dodici ore così profonda che al
risveglio, per un attimo, credevo di essere a casa mia.
La
realtà dei fatti mi è piombata addosso subito e mi sono fatto prendere dal
panico.
Adesso
siamo in quello che Bernardo chiama il suo ufficio. Tavoli robusti, sedie
impagliate variopinte, con disegni infantili e scritte in spagnolo sulle liste
dello schienale, libri, riviste, pubblicazioni sparpagliate un po' ovunque.
Foto incorniciate alla pareti: Martin Luther King, Madre Teresa, Emma Goldman,
Bakunin, altri che non riconosco.
Bernardo
ha già fatto un primo controllo al computer. Lui e Fiorenza hanno ascoltato i
notiziari mentre io ancora dormivo.
L'uomo
che ho ucciso era uno di quelli che chiamano "polleros", un
contrabbandiere di esseri umani sulla frontiera messicana.
I
primi comunicati hanno parlato sbrigativamente di un regolamento di conti. Non
hanno fatto accenni al convento delle suore.
-
La Polizia di qui accomoderà la cosa senza troppe indagini. Per loro è solo un
chicano di meno, e se non aveva troppi carichi pendenti o legami in alto, per
cui ci dovessero mettere il naso i federali, la cosa si smorzerà in pochi
giorni.
Bernardo
non ha dubbi, ha soltanto insistito molto nell'assicurarsi che fossimo certi
che nessuno abbia visto noi e il furgone.
-
Ci sono i bossoli sparpagliati in quel cazzo di recinto...- mormora Fiorenza.
-
Da quelli non risaliranno a nulla. Harry le va a prendere in Nebraska.
Da
non crederci. Allora Bernardo sapeva tutto ? Ma non importa.
-
Quello che importa a me - dico - è fissare il primo volo di ritorno utile e
chiudere questa storia assurda.
-
Sì, probabilmente ha ragione.
La
reazione di Bernardo è inaspettata. Fiorenza tenta di replicare.
-
Ma non è il caso di aspettare almeno...
Bernardo
la interrompe.
-
Se ci saranno novità vi farò sapere, ma è davvero meglio che partiate.
-
Fai pure sapere a lei, di me dimenticati - dico.
Lui
sorride mesto.
-
Va bene...- risponde.
L'abbiamo
chiusa così.
Ventiquattr'ore
dopo ero in studio, con Fabio e Vittorio che facevano finta di niente,
dissimulando faticosamente la loro curiosità, e Anita che mi riservava sorrisi
come se sapesse tutta la storia, per filo e per segno.
Dicono
che chiunque uccida un proprio simile da questa esperienza esca trasformato,
forse mutilato, non so.
Quello
che più mi turba è che io sono sempre lo stesso. Senza sensi di colpa, senza
incubi, eppure credo di essere una brava persona.
Ci
penso spesso, certo, ma tutto quello che ricordo è la durezza di quel grilletto,
che chissà perché avevo immaginato morbido, il panico innestato dal timore di
non poter far fuoco, e poi l'inatteso fragore brutale degli spari e,
soprattutto, il pensiero ossessivo di doverli uccidere tutti, perché se no
avrebbero ucciso me.
In
ogni caso ho ripreso la mia vita di sempre.
Con
Fiorenza ci siamo salutati all'aeroporto.
Lei
mi ha abbracciato.
-
Mi dispiace - ha detto.
-
Fa niente. Succede - ho risposto io, e l'ho fatta ridere. Non la smetteva più.
-
Suerte, amigo - mi ha salutato così, come tra pistoleri.
QUINDICI
Sono
trascorsi un paio di mesi.
Un
venerdì pomeriggio Anita mi ha chiamato per annunciarmi che c'era la signora
Scolari per me.
Mi
è corso un brivido lungo la schiena, ho provato un imprevedibile afflato di
nausea.
-
Dille che sono già andato via - ho risposto.
-
Non posso - ha detto Anita.
-
Come, non puoi ?
-
E' qui davanti a me.
-
Arrivo.
Ha
un aspetto provato. Le ricordavo un atteggiamento di distacco severo, ma adesso
mi sembra un poco afflosciata.
Andiamo
in saletta riunioni.
-
Bernardo è morto - dice subito.
-
Bernardo ? Come ?
-
Lo hanno ammazzato.
Io
taccio. Una vertigine di fantasmi inizia a ballarmi attorno.
-
Lo hanno investito nel parcheggio della chiesa del Revival.
-
Ah, un incidente - dico, sollevato.
-
No, lo hanno proprio mirato. Schiacciato contro il suo furgone. E poi sono scappati.
Un fuoristrada senza targa.
Non
trovo parole con cui rispondere.
-
Sono loro, Piero.
-
Come puoi dirlo ?
-
E chi altri ?
Io
alzo le spalle.
-
Se sono arrivati a lui arriveranno anche a noi.
Era
un'idea che mi aveva sfiorato ma che avrei preferito non sentir esternare a
voce alta.
-
No, non qui, non oggi. Le cose sono cambiate - tento di replicare.
-
Se fosse stato per Taliercio non mi preoccuperei. Dopo quella notte si sarebbe
limitato a correre a farsi nascondere da qualche altra parte, sempre che sia
ancora vivo, ma con Sarno è tutto un altro paio di maniche.
-
Perché dici se è ancora vivo ?
-
Mi sono allenata al tiro per mesi. Sono sicura di averlo centrato un paio di
volte quella notte. Se lo sono portato via nel caso di doverlo far sparire con
calma.
-
E perché non anche quell'altro, allora ?
-
Quell'altro non contava. Questa è una storia che ha agganci in alto. Come credi
che avrebbe reagito l'opinione pubblica scoprendo un neofascista evaso,
accusato di omicidio, ospite in un convento di suore ?
-
In ogni caso, se è come dici tu, dov'è il problema ?
-
Sarno, è il problema. E' diabolico, ed è uno psicopatico. Ricordi il testimone
al processo di Paola e Chicco ?
Scuoto
la testa con un gesto di diniego.
-
Il pensionato ! Quello che portava a passeggio il cane e diceva di aver visto
tre figure accanto all'auto di Chicco. Che quando erano scappate una di loro
zoppicava.
-
E allora ?
-
Sarno, dopo il volo che Chicco gli aveva fatto fare dalla finestra, ha sempre
zoppicato. Poi hanno beccato Taliercio e Notarianni e quelli hanno confessato,
negando la presenza di un terzo uomo. Ho parlato con un compagno che allora
aveva coordinato l'inchiesta parallela del Movimento. Avevano contattato il
pensionato e lui aveva insistito nella sua versione. Era un vecchietto
stizzoso, furibondo perché al processo non si era tenuto sufficiente conto
della sua testimonianza, e sai che fine ha fatto ? Steso sulle strisce
pedonali, lui e il cane, una sera di nebbia, da un'auto pirata.
-
Cazzo...
-
Questo è Sarno. Ho raccontato al compagno solo una piccola parte della nostra
avventura, per dirgli che ho visto Sarno vivo, e lui non si è stupito più di
tanto. In Colombia, se si è legati al cartello giusto, si può anche passare per
morti, se fa comodo.
-
Vabbè, e allora ?
-
Non so. Voglio dire, se è arrivato a Bernardo...
-
Erano là, nello stesso stato, legati in qualche modo alla stessa struttura, no
?
Fiorenza
mi guarda perplessa.
-
La Chiesa, no ?
-
Ah !...beh, si. In realtà Bernardo si era dato il tormento per un bel pezzo per
questa mia idea. Lui era più incline a denunciare la presenza di Taliercio alle
autorità. Poi è successo qualcosa. Gli è arrivata una segnalazione da Roma.
Insomma ha capito che Taliercio era coperto. E quello che più lo addolorava era
che la copertura arrivava dalla Chiesa. C'è un certo monsignor Benoffi. E' lui
che si occupa di queste storie.
-
Un monsignore ?
-
Già.
-
Che cos'è esattamente un monsignore ? Un cardinale ? Cosa ?
-
E che ne so !
-
E perché lo fa ?
-
Ma non lo so ! Sarà fascista anche lui ! Oppure un anticomunista isterico, non
è che mancano in questo periodo, no ? La Chiesa è sempre stata da quella parte,
con Mussolini, Franco, Pinochet, Videla. In prima fila sul palco.
-
Beh, c'era la teologia della Liberazione in America Latina...
Fiorenza
batte un pugno sul tavolo delle riunioni.
-
Sai quanti giorni quel cazzo di papa polacco ha lasciato in attesa il cardinale
Romero, rifiutandogli udienza e lasciandolo tornare a casa con tutta la sua
bella documentazione per farsi sparare sull'altare ?
Fiorenza
è paonazza.
-
E sai quanto gli ci è voluto invece per ricevere e benedire Fujimori che ancora
non si era pulito le mani dal sangue dei ragazzini di Tupac Amaru che aveva
fatto ammazzare dalle squadre speciali ?
-
Senti, questa discussione non ha senso. Io non credo che sia così grossa come
la vedi tu.
-
Ah ! Tu non credi ! E Bernardo ?
-
Ma chi lo sa. Ci saranno stati altri balordi come quell'Harry attorno a lui,
non è detto che...
Fiorenza
si alza.
-
Sarno è protetto da un alto prelato. E' pazzo, sadico e vendicativo. Se vuole
venire qui e fotterci lo agevoleranno.
-
Ma dai !
-
Sono le stesse persone che non hanno trovato niente da ridire sul fatto che lui
sparasse in faccia ad una ragazza di vent'anni incinta !
Ha
assestato la sua randellata sul nervo scoperto.
Mi
ha mozzato il respiro. Riesco a malapena ad articolare.
-
E cosa mai potremmo fare ?
-
Giocare d'anticipo.
Guardo
Fiorenza senza capire. Sul suo viso si è steso un velo di placidità improvvisa,
che somiglia ad un sorriso senza esserlo. Poi capisco.
-
Tu sei pazza ! Ma nemmeno per sogno !
-
Gli amici che mi aiutano hanno individuato un paio di posti dove potrebbero
stare sotto copertura. Sempre roba legata alla Chiesa.
-
Non se ne parla nemmeno, almeno per me.
-
Questa volta non saremmo soli...
-
E chissenefrega ! Basta così !
-
Ti sto dicendo che voglio andare a chiudere un conto con due che hanno
ammazzato tua moglie e tuo figlio, perdio ! Che a un'ora di viaggio da qui c'è
uno che tutte le mattine prende un cazzo di cialda da pasticceria e dice "
Il corpo di Cristo" e la caccia in bocca a dei deficienti superstiziosi,
ed è la stessa persona che sta aiutando quei due ! E tu cosa mi dici ? Che vuoi
stare qui a fare soldi con i tuoi filmetti del cazzo ? Di cosa hai paura ? Di
morire ? Cosa ti fa credere di essere vivo ?
Le
ultime frasi le ha pronunciate a voce alta, stridula. Le faccio segno di
abbassare il tono. Lei sbuffa e distoglie lo sguardo.
- Ma
perché vuoi che sia della partita ? Hai visto che non sono il tipo. Se volete
un sostegno sono disposto a darvelo, di qualsiasi genere, ma non sono un
killer, non ho la stoffa e nemmeno le palle, dai !
- E'
una questione di principio. Siamo rimasti io e te. Solo noi due. Glielo
dobbiamo. E lo possiamo fare.
Sono
senza parole, le sue mi hanno insinuato il sospetto che sia vero quello che pensa. Devo prendere le
distanze.
-
Cosa c'entrano le ostie ? - chiedo.
-
C'entrano eccome ! Senza quel monsignor Benoffi cadrebbero un sacco di
protezioni. Si sentirebbero meno sicuri.
-
Ma come è possibile ? Voglio dire...è tutto così...
Non
so cosa mi stia prendendo. E' come se all'improvviso il peso di tutte le
ingiustizie del mondo si stia manifestando a deridere la mia impotenza.
Senza
preavviso e senza che potessi far nulla per impedirlo sono scoppiato in singhiozzi.
Mentre piango mi chiedo cosa mi stia succedendo e ho paura di questa mia
reazione. Dietro il velo delle lacrime intravedo Fiorenza di fronte a me,
immobile.
- Piangi.
Va bene così. Butta fuori. - ha detto ad un certo punto, ed io mi sono sentito
sollevato. Contento del mio dolore e del mio riuscire a manifestarlo, senza
imbarazzo, senza remore.
Lei
ha allungato una mano sul tavolo e l'ha appoggiata sulla mia. Io mi ci sono
aggrappato.
-
Va bene - ho balbettato con voce rotta, come un bambino.
-
Lo so. - ha risposto lei.
SEDICI
Monsignor
Benoffi veste in borghese ma è più prete che mai nei gesti, nella bonomia
altezzosa. E' quasi caricaturale. Corpulento, con un testone tondo e calvo e il
collo grasso che deborda dal colletto.
Non
so se davvero distribuisca particole come dice Fiorenza. Ha un ufficio in un
palazzo di proprietà dell'arcidiocesi. Si sposta su una berlina con autista.
Offre l'impressione di non dover rendere conto a nessuno di quello che fa.
Fiorenza
ha un dossier su di lui, che mi ha fatto leggere.
E'
poco più vecchio di me, anche se nelle foto che lo ritraggono dimostra molti
più anni. Ha pubblicato dei saggi. Tiene conferenze. Ha seguito. Pare che ci
sia ancora una consistente frangia di alta borghesia ansiosa d'esser messa in
guardia dal complotto demoplutogiudaico, compiaciuta dal sentirgli affermare -
ci sono passi riportati dei suoi discorsi - "...c' è da rimpiangere che la
lingua franca non sia il tedesco, quello di Goethe, Schiller, Hegel, Nietsche, invece che la
barbarie di questo idioma anglofono, imbastardito dall'influsso di mille
borborigmi negroidi, che si ostinato a chiamare inglese. Purtroppo la Storia è
andata com'è andata (applausi) ".
Il
dossier è molto dettagliato. Descrive abitudini, inclinazioni, storia personale.
E'
un uomo metodico, apparentemente senza lati oscuri. Vive ospite in un convento
di Carmelitane fuori città, ma dispone anche di un piccolo appartamento in
centro, non lontano dal suo studio. Ci si ferma a dormire un paio di volte a
settimana. Sempre solo. Viaggia parecchio.
Tutta
questa documentazione è frutto di un lavoro di equipe, è evidente. Non può
averla raccolta Fiorenza da sola. Ma lei non ne vuole parlare. Quando indago un
po', cambia argomento.
La
certezza che ci sia una squadra, e anche molto efficiente, ce l'ho quando mi fa
ascoltare delle registrazioni telefoniche. Non mi dice né chi né come, ma hanno
intercettato la linea del suo ufficio.
Monsignor
Benoffi ha una vocetta che contrasta con l'immagine che ho di lui, desunta
dalle fotografie, quella di un uomo sovrappeso, magari un po' flaccido ma
corpulento.
Le
registrazioni non hanno nulla di compromettente. Accordi per un ciclo di
conferenze, sue mansioni riferite alla curia, un programma di raccolta fondi
per un'iniziativa mariana, tutta roba così.
Chiedere
a Fiorenza il perché di tutto questo sforzo di indagine nei confronti di
Benoffi quando gli assassini veri sono liberi, negli Stati Uniti, non porta a
nulla.
-
Meno sai e meglio è - questa, in genere, la sua risposta.
-
Non è che non ci fidiamo di te, figurati - mi ha detto un giorno - Dopo il
nostro tour in Texas, poi, ci mancherebbe. Ma Benoffi è il ragno al centro
della tela. A noi interessano Sarno e Taliercio
ma ce n'è un'altra mezza dozzina che lui ha messo al sicuro. Sono stati
rintracciati quasi tutti. Ne manca uno solo. Quando saremo al dunque chiuderemo
con Benoffi.
Io
cerco di continuare le mie giornate in agenzia anche se è difficile. In realtà
non faccio che attendere, persino di notte sogno delle strane attese, in luoghi
angusti, di qualcosa di oscuro che viene rinviato continuamente. Di giorno
seguo i lavori di produzione con un'apprensione che fa a pugni con la mia
abituale imperturbabilità.
DICIASSETTE
Trascorre
un altro mese. Interminabile.
Da
quando ho accettato l'idea di tornare là a chiudere la partita, anche se l'ho
fatto con consapevolezza solo approssimata, non riesco a pensare ad altro.
Vorrei
che fosse subito.
Attendo
perennemente che squilli il telefono e Fiorenza mi dica "si va".
E
invece sono io che devo cercarla, senza quasi mai riuscire a parlare con lei.
Quelle
rare volte che la trovo in casa, o che non ha il cellulare spento, è laconica,
sbrigativa. Ho il sospetto che abbia un altro recapito telefonico di cui non mi
ha dato il numero.
Detesto
essere tenuto all'oscuro di tutti i progetti che lei e tutti quegli altri che
non so chi siano stanno elaborando. Ho ucciso un uomo per loro, mi dico.
Avrei
diritto a maggior considerazione, credo. E poi mi rendo conto che non l'ho
fatto per loro. L'ho fatto per me, magari sollecitati da loro, questo sì, ma
per me. E ho di nuovo fallito.
Ho
accettato tardivamente di vendicare la morte di Paola pur non avendo nella mia
natura nessuna inclinazione alla vendetta. In realtà non ce l'ho neppure al
perdono. Sono un miserabile senza carattere, tutto qui.
Il
telefono di Fiorenza è sempre libero, senza neppure l'opzione di una
segreteria. Sono furioso, frustrato, impotente. Trascuro il lavoro. La
tentazione della bottiglia, che mai avrei creduto si sarebbe ripresentata,
riaffiora sinistramente irresistibile.
In
studio cerco di mascherare questo turbine di stati d'animo, ma non sono sicuro
di riuscirci sempre.
Alla
fine mi decido e vado ad appostarmi di fronte allo stabile dove lei mi aveva
dato l'appuntamento la prima sera.
Sto
lì per un bel po', rannicchiato in macchina. Scruto attraverso il parabrezza i
piani della casa, cercando di immaginare quale sia il suo appartamento. Poi,
all'improvviso, vengo colto da una specie di folgorazione. Quella sera, quando
siamo andati in pizzeria, io sono arrivato qui e lei era già sul marciapiede,
ad aspettarmi.
Scendo.
Attraverso la strada e controllo minuziosamente, ripetendo l'operazione più
volte, i cognomi sui campanelli del citofono. Nessuno Scolari. C'è l'indicazione
di una portineria, ma siamo fuori orario.
Mi
rassegno ad andarmene. Una parte di me ancora non vuole accettarlo, ma
probabilmente lei non abita qui.
Il
mattino dopo mi ripresento.
Il
portone è aperto. La portinaia sta distribuendo la posta nelle cassette.
- Sto
cercando la signora Fiorenza Scolari - dico.
La
donna mi scruta con sospetto. E' robusta, con un piglio autoritario.
- Perché
? - chiede.
Io ho un istante di perplessità.
- Sono
un amico... - borbotto.
La
donna sogghigna.
-
Un amico ? - chiede ancora. Ho persino avuto l'impressione che ci abbia messo
un'intonazione imitativa nella domanda, come se volesse scimmiottarmi.
-
Senta, lei é la portinaia ? - chiedo, recuperando distacco. Lei annuisce -
Bene. Allora faccia il suo lavoro. La signora Scolari a che piano sta ?
-
A nessuno - ribatte lei - la Scolari non abita più qui da almeno sei anni. Un
amico dovrebbe saperlo.
E riprende ad infilare bollette e plichi
nelle cassette.
DICIOTTO
E'
trascorsa un'altra settimana, durante la quale ho cercato disperatamente di
immaginare come rintracciare Fiorenza, finché stanotte ha squillato il
telefono.
Ho
annaspato nel buio, mi è scivolata la cornetta a terra, l'ho riafferrata
grugnendo.
- Sì
! Sono io !
All'altro
capo un respiro, poi una voce femminile che mormora incerta.
- Sono
Marta...
Io
non conosco nessuna Marta.
- Ha
sbagliato numero - rispondo irritato.
- Mia
madre mi ha lasciato questo recapito...
Adesso
ricordo. Me lo aveva detto che si chiamava Marta. Che vive a Lisbona.
All'improvviso ho il cuore in gola.
- Sì
?...
- Mi
aveva detto di mettermi in contatto se fosse successo qualcosa...
- In
che senso ?
- Ho
una busta per lei.
- Ma
lei dov'è ?
- A
Lisbona.
- No,
Dico sua mamma. Lei è la figlia di Fiorenza, no ?
- Sì...
- E
lei, allora, dov'è ?
- Non
so.
- Ah...
- E'
scomparsa.
- Come
sarebbe a dire ?
- Era
in viaggio con un amico. C'è stato un incidente. L'amico è all'ospedale e lei è
sparita.
Marta
parla con una specie di incertezza che non so se imputare alla distanza, a
qualche ritardo sulla linea, o se è proprio lei che si esprime così. In
circostanze analoghe una persona normale dovrebbe essere concitata, febbrile,
lei invece pare un po' più che calma.
- Tu
stai bene ? - chiedo.
- Si,
si...
- C'é
qualcuno che ti sta vicino, qualcuno lì con te ?
- Ho
una gatta.
Non
capisco se è suonata o cosa.
- Hai
bevuto ? - chiedo, irritato.
- No
! Perché ?
- Insomma
tu stai bene e tua madre è scomparsa. Questo è il messaggio. Tutto qua ?
- Senta.
Mi dispiace averla svegliata nel cuore della notte. Capisco che sia
infastidito, ma mi hanno appena telefonato. Dagli Stati Uniti. Là deve essere
giorno... E' là che erano, la mamma e il suo amico, voglio dire. E lei mi aveva
fatto giurare che se fosse successo qualcosa io avrei dovuto immediatamente
informarla...
La
interrompo.
- Scusami
! scusami... tu sarai preoccupata e io... scusami, davvero... dici che Fiorenza
è in America. Dove ?
- Il
suo amico è ricoverato a El Paso.
- Ma
chi ti ha chiamata ?
- Non so…personale dell'ospedale, credo…
El
Paso. E' tornata laggiù. Perché senza avvertirmi ? E con chi ? Un altro fesso come
me, probabilmente.
- ... così
ho pensato alla lettera e l'ho chiamata.
La
voce di Marta ha continuato imperterrita nella sua pacatezza.
- Aprila
- dico.
- Come
?
- Aprila
! Leggi cosa c'è scritto !
- Ma
io...lei ha detto...
- Sono
le quattro del mattino. Tu sei a Lisbona. Leggi quel cazzo di lettera.
Non
risponde. La sento trafficare. Sento persino la gatta miagolare.
- Non
é proprio una lettera - mormora all'improvviso.
- Cosa
intendi ?
- Sono
appena due righe.
- Leggile
!
Marta
sembra avere un groppo in gola.
- Dice
" Se leggi queste parole io probabilmente sono fuori gioco".
- Tutto
lì ?
- C'é
un numero di telefono.
- Dammelo.
Scrivo con un mozzicone di matita sulla
scatola di ansiolitici che ho sul comodino.
- Sicura
che non ci sia altro ?
Marta
tace, poi sussurra.
- Se
puoi stai vicino a Marta.
Adesso
ho la certezza che stia piangendo. Stiamo in silenzio, per un bel momento.
- Quanti
anni hai ? - chiedo.
- Ventisei
- tira su col naso.
- Come
mai a Lisbona ?
- Lavoro.
- Che
lavoro ?
- Faccio
l'interprete. Conferenze, convegni, turismo...
- Saprai
un sacco di lingue.
- Insomma...
- E
non hai un compagno, qualcuno ?
- Vivo
sola.
- Senti,
io ho bisogno di qualche giorno per organizzarmi, poi vengo lì. Tu ti senti
sicura ?
- In
che senso ?
- Lasciamo
stare. In ogni caso se ricevi telefonate, messaggi, se si fa vivo qualcuno tu
mi chiami immediatamente, O.K. ?
- Va
bene.
- Sta
tranquilla. Risolveremo tutto.
- Si,
grazie...
Leggo
ad alta voce il numero che mi compare nel display.
- E'
il mio numero di casa.
- E
se voglio cercarti al lavoro ?
Mi
detta un numero di cellulare.
- Arrivo
- le dico, prima di salutarla.
Fisso
il buio chiedendomi che cosa stia succedendo, che cosa sia successo.
Aspetto
le otto per chiamare il numero che era nel messaggio di Fiorenza.
DICIANNOVE
- Tom
Joad - la voce femminile, perentoria, non aggiunge altro.
Buongiorno,
ho ricevuto un messaggio che mi indicava di chiamare questo numero...
- Un
messaggio di chi ?
- Di
Fiorenza Scolari, ho parlato con sua figlia e...
- La
richiamiamo.
Sto
ancora parlando quando la donna interrompe la comunicazione.
Avrò
sbagliato numero ? No. Forse l'ho trascritto male quando me lo ha dettato
Marta.
Tom
Joad. Dove ho già sentito questo nome ?
Aleggia
nella mia memoria come una presenza lontana ma significativa. Nel mio mestiere
ho conosciuto molti americani ed inglesi, anche australiani, canadesi,
neozelandesi, un paio di sudafricani, ma nessuno che si chiamasse così, eppure
il nome non mi è nuovo, anzi. Per un istante ho il sospetto che sia il marchio
di qualche jeans, o birra, o chissà che, visto e archiviato senza rendermene
conto.
Cosa
intendeva con "La richiamiamo" ?
Tom e chi altri ?
E
di colpo eccolo là. Henry Fonda con il berretto a coppola e la camminata di chi
va coraggiosamente verso un destino incerto. Henry Fonda in "Furore"
di John Ford. Tom Joad era il personaggio che interpretava. Lo stesso del
romanzo di Steinbeck da cui era tratto il film.
Libro
e film nel mio empireo personale. Come ho potuto non riconoscerlo subito ?
Forse perché non me lo aspettavo al telefono, con una voce di donna, alle otto
del mattino, sessant'anni dopo i fatti raccontati in "Furore".
Sarà
anche strano ma mi sento improvvisamente e inspiegabilmente confortato.
Tom
Joad.
Chiunque
tu sia siamo dalla stessa parte.
Mi
alzo e vado a cercare tra i CD. Ricordo che Springsteen gli ha dedicato una
ballata. Ascoltarlo mi potrebbe dare qualche indicazione ? Lo escludo. Voglio
soltanto riappropriarmi di quelle atmosfere. Ho anche il DVD del film. Stasera
me lo riguardo.
Intanto
non devo dimenticarmi che in studio mi attende una giornata infernale.
Un
casting, uno spot in lavorazione per uno stilista rampante che ha imposto un
suo regista incompetente ed isterico, la post-produzione di una collana
home-video di viaggi d'avventura che si avvicina alla scadenza di consegna,
corredata di inesorabili vincoli contrattuali e conseguenti penali economiche
cui non voglio pensare.
Naturalmente,
malgrado tutto, non riesco a togliermi dalla testa la telefonata del mattino.
Richiamo
per tutto l'arco della giornata senza che mai nessuno risponda.
Incarico
Anita di risalire all'utenza tramite il numero. Immagino ci sia un servizio che
fornisce informazioni del genere. E infatti c'è. Semplicissimo.
Anita
mi porge il post-it con nome e indirizzo e ritorna alle sue occupazioni, poi
alza gli occhi e mi osserva.
Dimentico
sempre quel suo sesto senso.
- Qualcosa
non va ? - chiede.
Io
sto lì, a fissare il foglietto, senza rispondere. Inutile bluffare con lei.
- Non
so...
- Posso
aiutarla in qualche modo ?
Io
mi ci sono in parte abituato ma non ho ancora detto che Anita è una di quelle
bellezze che invitano a fissare più che a guardare. In aggiunta, sul viso
perfetto, leggermente segnato da una leggera traccia di efelidi, aleggia sempre
un'espressione di fiducioso candore infantile, di attitudine armonica, che invece
di contrastare con l'indiscutibile sensualità del suo fisico e del suo modo di
muoverlo, l'accentuano.
Tutti
i fotografi, i registi, i clienti che, passando da noi in agenzia, non hanno
resistito all'idea di proporle di lavorare per loro, si sono sempre trovati di
fronte ad un cortese, imbarazzato ma definitivo rifiuto.
Non
vuole posare, non vuole recitare, non si vuole vedere né in toto né in parte,
sulle pagine dei giornali o sui muri degli edifici. L'esatto contrario di ciò
che desiderano la maggioranza delle sue coetanee, molto meno dotate di lei.
- Non
so... - ripeto.
- Non
sa se posso aiutarla ?
In
un mondo in cui tutti ci si da del tu immediatamente lei, tra le altre cose,
persegue questo inappellabile ricorso al lei.
Il
foglietto che ho in mano dice che il numero che mi ha dato Marta è intestato ad
un certo cavalier Massironi.
L'indirizzo
è in un quartiere che conosco, borghese e piuttosto tranquillo.
- Tu
hai da fare dopo ? - chiedo ad Anita.
Per
una qualche istintiva associazione ho pensato che una ragazza irresistibile può
essere un passe-partout per ottenere udienza da un cavaliere. Mi rendo conto
della sciocchezza della cose mentre ancora sto ponendo la domanda.
- No... io
vado a casa... - risponde Anita.
So
che vive con un'amica e che ha un fidanzato violoncellista in un'orchestra
sinfonica. Un tipo asciutto, con un gran naso e vistose orecchie a sventola.
Uno che ti verrebbe da dire che è brutto proprio mentre ti rendi conto che,
invece, ne sei affascinato.
- No,
una fesseria... è che devo passare in un posto e, forse, sarebbe meglio che
fossi accoppiato.
Anita
ridacchia, ma poi arrossisce leggermente. Devo affrettarmi ad uscire
dall'equivoco.
- Niente
di sconveniente ! - rido, imbarazzato a mia volta.
- Certo,
lo so, lo so - si affretta a rassicurarmi lei.
- Un'idea
senza senso, non pensarci...
- Poi
mi riaccompagna a casa ?
- Ma
certo ! Però davvero, non importa, se hai dal fare... non so cosa mi sia
passato per la testa.
- Allora
ci vediamo alla sua macchina quando chiudiamo ?
VENTI
L'edificio
è un vecchio palazzo in una via silenziosa. Poco più avanti c'è una piazzetta
minuscola con un giardinetto deserto al centro.
Un
imponente portone tirato a lucido sfiora in altezza un balcone del primo piano.
C'è
una fila di campanelli ed un citofono piuttosto antiquato.
Il
cavalier Massironi è quello più in basso.
Suono.
- Allora tu dici soltanto Tom Joad, va bene ? - ricordo ad Anita.
Lei
annuisce.
Nessuno
risponde. Torno a suonare. Uno squillo protratto, anch'esso senza risposta.
Tento una scampanellata senza convinzione e, all'improvviso, lo scatto di
apertura del piccolo battente che si apre nel portone grande mi fa trasalire.
Un
ragazzo compare nel vano della porta e ci osserva. Neppure lui si aspettava
noi. Ma è immediatamente catturato dalla figura di Anita.
- Mi
scusi, lei abita qui ? - chiedo - perché stiamo cercando il cavalier Massironi
eh...
Il
ragazzo ridacchia.
- Sì,
stanno qui, al pianterreno. Ma sono sordi come campane.
Tiene
aperto il battente, invitandoci ad entrare.
- Provate
al campanello di casa. Quello, in genere lo sentono.
- Non
è che magari sono via ?
- Via
? Ma no ! Non vanno mai via, figuriamoci !
Il
ragazzo se ne va, rallegrato dal sorriso riconoscente di Anita.
Quattro
gradini, sulla sinistra, salgono ad un portoncino d'ingresso a due battenti. Su
un lato una targa d'ottone annuncia il cavalier Massironi. Pigio il pulsante.
Il suono del campanello arriva fino a noi. Poco dopo si sente il cigolio di una
porta interna. Su quella d'ingresso non c'è spioncino.
- Chi
è ?
La
voce è anziana, femminile, tremula.
- Tom
Joad - dice Anita, prima che riesca ad impedirglielo.
C'è
qualcosa che non va. la voce al telefono era giovane, sicura. Qui Tom Joad non
c'entra più, lo sento.
- Chi
?! - strilla la donna dall'interno.
- Stamattina
ho telefonato al suo numero e volevo sapere...
tento
alla disperata.
- Che
telefonata ? - la voce mi interrompe, ancora incerta ma alta.
Anita
è sorpresa, sembra quasi divertita.
Improvvisamente,
dall'interno, si aggiunge una voce maschile.
- Cosa
c'è ?
- Cavalier
Massironi ?
- Chi
è lei ? Cosa vuole ?
- Mi
scusi. Stamattina ho fatto una telefonata al suo numero per una questione
importante e...
- Impossibile.
Come
impossibile, mi chiedo. Ho il biglietto con appuntato il numero che mi ha
lasciato Marta. Lo scandisco attraverso la porta.
- Sì.
E' il nostro numero. Ma ce l'ha solo mia nipote. Lei come fa a conoscerlo ? Mia
nipote non ha chiamato stamattina. Non ha chiamato nessuno, stamattina...Ma lei
cosa vuole ? Chi è ?
- Mi
scusi, ma non potrebbe aprirci un momento ?
- Aprirvi
? Perchè, quanti siete ? Cosa volete ? Chi vi ha aperto il portone ?
La
raffica di domande che sottolinea la sospettosa irritazione dell'anziano mi
ammutolisce.
- Insomma,
a che gioco giochiamo qui ? - chiede il cavalier Massironi.
Non
so cosa rispondere.
- A
nessun gioco, cavaliere, volevamo solo un'informazione, va bene così, la
ringraziamo.
Anita
è provvidenzialmente intervenuta. Dall'interno, silenzio.
Ce
ne andiamo. Lei, una volta in strada, mi osserva.
- Scusami - dico - non immaginavo di trascinarti in una
cazzata del genere.
Lei
sorride.
- Non
è niente, anzi, in un certo senso è stato divertente.
- Ti
accompagno a casa.
Mi
sono appena seduto alla guida e il cellulare segnala l'arrivo di un messaggio.
Un
SMS.
"
Abbiamo detto che richiamiamo. Non prenda iniziative inutili. Data la
circostanza è sciocco."
Sono
pietrificato. Non è la prima volta, dall'inizio di questa storia, che mi trovo
di fronte a qualcosa di imponderabile, anzi, ma non mi sono mai sentito così
esposto, così vulnerabile come in questo momento, neppure quella notte a Marble
Falls.
Come
fanno a sapere che sono qui ? Ci stanno osservando ? E se sì, chi ?
- Qualcosa
non va ? - Anita sorride, incoraggiante.
E
adesso ho coinvolto anche lei, stupidamente, senza ragione.
- No...solo cose che non capisco...
- Sa, gli anziani sono sospettosi. E' normale.
- Certo, certo...
- Ma cosa c'entra Tom Joad ?
- E' una lunga storia, e forse è meglio che tu
non la conosca. Ti porto a casa.
Anita
si allaccia la cintura senza aggiungere nulla.
Strada
facendo il silenzio tra noi è insopportabile.
- Ma tu sai chi è Tom Joad ? - chiedo, pur di spezzarlo.
- Ma tu sai chi è Tom Joad ? - chiedo, pur di spezzarlo.
- Sì.
Ho letto il libro un anno fa, e poi conosco la canzone di Springsteen.
Anita
non finisce mai di stupirmi. So che ha ventitre anni. Com'è che legge Steinbeck
?
- E
il film l'hai visto ?
- Il
film ?
- Si.
L'ha girato Ford, nel 1940.
- Ah,
non lo sapevo.
- Molto
bello.
- Mi
piacerebbe vederlo...
- Ti
aspettano a cena ?
- Bèh,
non esattamente... insomma sì, Clara dovrebbe essere a casa, ma non è che...
- E
il fidanzato ?
- Guido
è ad Ancona, per un concerto.
- Ti
va di vederlo, il film ?
Ma
cosa sto facendo ? Devo riportarla casa e che sia finita così.
- Sì,
volentieri - risponde lei.
- Pizza,
birra e maxischermo è una proposta indecente ?
Lei
ride.
- Dopo
deve riaccompagnarmi...
- Beh,
ovvio.
- Allora
vada per il film.
Ho
un attimo di disorientamento. Non sono sicuro che il quadro le sia chiaro.
- Andiamo
da me. A casa mia voglio dire, non vorrei che tu pensassi...
- Non
immaginavo mica che andassimo al cinema.
- Ah,
ecco...
- Senta.
Quando mi avete assunta io non avevo esperienza specifica di questo lavoro, ma
di ricerca di lavoro sì. E in ogni posto dove sono stata ho trovato gente che
ci provava, con me. Non so perchè, ma è così.
- Credo
di sapere perchè...
- Però
voi no ! Il signor Fabio è pazzo di sua moglie e dei bambini, Vittorio è gay e
lei...
- Vittorio è gay !?
Anita
tace all'improvviso. Poi riprende.
- Mi
scusi. Oddio. lei non lo sapeva ?
- Io
no.
- Oh,
mamma. Che gaffe ! Comunque Vittorio è una persona meravigliosa e io...
- Ma
tu come lo sai ?
- Beh,
ne abbiamo parlato. Con lui, voglio dire. Insomma siamo amici e così...e
comunque in studio lo sanno tutti.
Tutti
tranne me.
- Sono
davvero mortificata. E' che ero convinta che lo sapesse.
- Lo
conosco da quando eravamo ragazzi. Molto superficialmente, devo ammettere. Il
mio vero amico è sempre stato Fabio.
- Le
vuole molto bene.
- Chi
?
- Vittorio.
la considera un po’ come un fratello.
- Ma
dai...
- In
quel senso intendevo che, arrivata da voi, ho capito subito che era il posto
giusto per me. Quello che cercavo. Sono stata fortunata.
- Che
serata...
- E
non è ancora finita - aggiunge Anita.
Mi
volto verso di lei, leggermente allarmato.
- Pizza,
birra e film, no ? Grande ! - conclude.
- Ah,
sì...Se avessi saputo che ti piace tanto ti avrei invitata prima.
- No.
Non lo avrebbe fatto.
- Cosa
vuoi dire ?
- Conosco
la sua storia. So come vive. Non lo avrebbe mai fatto. Non le sarebbe venuto in
mente. Ma mi fa piacere. Ringraziamo Tom Joad.
Non
so cosa sia. Anita, in effetti, oltre agli altri pregi, ha anche una bella voce
ma quello che ha appena detto sortisce lo strano effetto di commuovermi.
Fortunatamente siamo di fronte alla pizzeria.
- Come
la preferisci ?
- Una
margherita va benissimo.
- Parcheggio
in doppia fila.
- La
sposti tu, se occorre ?
Annuisce.
Mentre
aspetto, davanti alla cassa, rifletto sugli eventi dell'ultima mezz'ora e mi
sembrano appartenere ad un sogno sognato molto tempo fa. Ma non è così.
Soprattutto non avrei assolutamente dovuto trascinare Anita in questa storia. E
se quelli telefonano mentre guardiamo il film ?
Ci
sono momenti di allarme che, per reazione, suscitano ilarità.
Questo,
per me, è uno di quelli. Mi trattengo. Intorno a me ci sono altre persone in
attesa.
A
casa mia ci siamo sistemati per un pasto frugale, prima del film.
- Hai detto che conosci la mia storia ? - ho chiesto, guardingo, ad un certo
punto.
-
In linea generale. E mi dispiace per lei. Ho provato ad immaginare cosa si
debba provare, ma è impossibile, credo. Capisco che lei sia come è.
Anita
è diretta, parla tra un boccone e l'altro con comprensione ma senza giri di
parole, di ciò che sa della mia vita. Io annuisco.
- Senti,
credo di avertelo già chiesto altre volte. Non è che potresti darmi del tu ? -
dico.
- Adesso
si. - risponde. Si alza, prende piatti, bicchieri e posate e si sposta al
lavandino. Volta il capo verso di me.
- Cinema,
allora ?
- Certo.
Ho anche del gelato.
- Magnifico
!
In
soggiorno si libera delle scarpe e raccoglie le gambe sotto di sè.
Ci
attestiamo alle estremità opposte del divano con i nostri ricoperti alla
violetta. Un tocco di originalità che ha apprezzato.
Vado
piuttosto fiero del mio sistema home theatre. Fino a stasera, a meno che non lo
abbia acceso la signora che si occupa delle pulizie, ne sono stato l'unico
fruitore.
Sono
appena riuscito a farmi agguantare dalla storia che il cellulare inizia a
scalpitare silenziosamente sul tavolino di cristallo accanto al divano.
Mi
allontano senza che Anita badi a me.
- Tom
Joad.
Questa
volta la voce è maschile.
- Ti
stavo guardando - dico.
Silenzio
all'altro capo del filo.
- Sto vedendo "Furore", in DVD -
aggiungo, contento di averlo temporaneamente disorientato.
- Una buona cosa - dice la voce. Parla senza
inflessioni.
-
Le altre invece no - riprende - deve
essere chiaro: niente iniziative personali. Tu aspetti e noi diciamo cosa fare.
E' un accordo non negoziabile.
- Capisco. Va bene.
- La ragazza. Chi è ?
- Lavora da noi, in studio.
- State insieme ?
- No ! Che c'entra ?
- Cosa sa ?
- Nulla. Assolutamente nulla.
-
Vedremo.
- No ! Davvero,
lei non ha niente a che vedere. Sono stato io che, stupidamente ho creduto
potesse essermi utile...
La
voce mi interrompe.
- Conosci
l'ex giardino zoologico ?
- Si...
- Domani
a mezzogiorno. Di fronte all'ingresso principale. Cellulari, p.c. portatili,
roba del genere. Lascia tutto a casa.
- Va
bene.
- Solo.
- Va
bene.
- Buona
visione.
- Cosa
?
- The
grapes of wrath, no ? - e riattacca.
Ha
citato il titolo originale del film con una pronuncia impeccabile. Un
madrelingua ? In ogni caso anche il suo italiano è perfetto, senza inflessioni.
Torno
al divano. Anita non bada a me, è completamente assorbita dal film.
Io,
invece, non riesco a seguirlo che distrattamente.
Penso
a domani. Penso a Fiorenza. E adesso sono anche preoccupato per Anita, che non
avrei dovuto coinvolgere in quella stupidaggine del cavalier Massironi.
Perchè
loro erano lì. Chissà dove. Quindi sono controllato.
Avrei
dovuto chiedere di Fiorenza e non l'ho fatto. Anche di Marta. Sapere se è al
sicuro.
Il
giorno dopo la nostra prima telefonata, mentre ancora intendevo partire per
Lisbona, mi aveva chiamato dicendomi che sarebbe rientrata in Italia e che si
sarebbe fatta viva. E invece niente. Cellulare portoghese sempre spento. Buio.
VENTUNO
Incredibile.
Da
queste parti non ci tornavo dai tempi in cui, da ragazzino, mi ci portava mia
madre.
Allora
lo zoo era attivo e io nutrivo una vera passione per otarie, babbuini e un
timidissimo panda minore, che non sempre riuscivo a vedere durante le visite.
Ora
una parte degli edifici del giardino sono stati recuperati come sedi di
associazioni e roba del genere, un’altra è in condizioni di abbandono.
Sto
lasciandomi catturare da nostalgie inattese che non immaginavo avrei rivissuto
all’improvviso davanti ad uno zoo abbandonato.
-
Signor Bertocchi ?
La
voce è flebile. La ragazza è una biondina con capelli raccolti, carina se non
fosse per questo sguardo di ansia vagamente anemica che fissa su di me ad occhi
sgranati. Qualcosa in me la riconosce all’istante pur non avendola mai
incontrata.
-
Marta ?
-
Sì…
-
Grazie al cielo ! ma dove eri sparita ?
Vorrei
abbracciarla ma mi limito a tenderle la mano. La sua è umida e sottile, con
lunghe dita affusolate. Si capisce che vorrebbe ricambiare una stretta energica
ma che proprio non ce la fa.
-
Poi le dirò, ma adesso dobbiamo andare.
-
Dove ?
-
Venga con me.
Si
avvia, entrando sotto l’arco dell’ingresso e procediamo sulla destra, verso la
parte in abbandono.
Riconosco
con emozione la fossa dei babbuini. Mi pareva più grande.
-
Sono venuti a prendermi a Lisbona – attacca Marta.
-
Chi ?
-
Amici di mamma.
-
Ma tu li conoscevi ?
-
No…
- Non
avresti dovuto fidarti…
-
Avevano una lettera indirizzata a me. Diceva cose che sapevamo solo io e lei. E
poi era la sua calligrafia. C’era scritto che erano gli unici amici che
potevano aiutarmi, ma io non capivo in che cosa…
I
viali sono infestati di erbacce. In lontananza si scorgono i profili dei
palazzi amministrativi. Avevo sentito dire che questo posto era diventato
rifugio per tossici e sbandati. Che dormivano nelle gabbie abbandonate.
-
…perché la mamma è morta.
-
Cosa ?!
-
E non è stato un incidente.
-
ma chi te lo ha detto ?
-
Lui.
L’uomo
che Marta ha indicato si è materializzato al mio fianco facendomi sobbalzare.
Siamo
arrivati a quella che era la piscina delle otarie.
-
Venivo qui da bambino…
L’uomo
mi osserva e sorride. Per un istante quel sorriso mi è parso così familiare da
farmi correre un brivido lungo la schiena.
-
Credo di capire cosa intende – dice.
Altezza
media, ha un modo di muoversi che suggerisce agilità e potenza. Viso
abbronzato, capelli cortissimi bianchi.
Non
riesco a liberarmi da quella specie di déjà vu di poco prima.
Ho
già incontrato quest’uomo ? Non mi pare possibile.
-
Mi sta studiando ? - ride.
Mi
sorprende il fatto che sia cosi cordiale. Si dà un’occhiata intorno come a
voler verificare che tutto sia come lui si aspetta che sia.
-
Va bene – dice – andiamo a mangiare ?
VENTIDUE
Siamo
andati al cinese che si affaccia sul viale di fronte e che in quanto a esotismo
ha costituito l’aspetto più rilevante di un incontro al quale mi ero preparato
come per qualcosa fuori del comune, forse pericoloso, in ogni caso ansiogeno.
Invece
l’uomo, che si è presentato come Elias – nient’altro – sembrava preoccuparsi
solo di vederci a nostro agio. Un pranzetto tra amici.
Marta
ha attenuato gradualmente il suo atteggiamento da animaletto braccato e io,
quando questo Elias ha affermato con pacatezza “Va tutto bene. Siamo al sicuro.
Tranquillo”, ho smesso di guardarmi attorno con apprensione.
Il
quadro però non è per niente roseo. Fiorenza è morta.
Elias
è entrato in argomento con delicatezza ma senza indulgere. Ho avuto la
sensazione che gli premesse mettermi al corrente come per un gesto di
dichiarata onestà. Per un momento ho creduto che volesse soprattutto studiare
la mia reazione, e probabilmente in parte era anche così, ma quello che più mi
ha impressionato è stata la sua capacità di affrontare una realtà aspra con uno
spirito franco, apparentemente limpido.
Marta,
evidentemente, sapeva già tutto. Ha tenuto gli occhi sul menu a lato del piatto
per tutto il tempo del racconto, ma senza versare lacrime, come se le avesse
esaurite.
L’amico
che accompagnava Fiorenza era un po’ come ero stato io. Lei ha optato per lui
invece di ritentare di ricorrere a me in ragione della sua disponibilità un po’
guascona.
Beppe
Converio é un ex del servizio d’Ordine di Potere Operaio che gestisce
un’agenzia di sicurezza per una catena di supermercati. Un improvvisato in
buona fede, come ha detto Elias fissandomi.
-
Nessuna prudenza. Credeva che il livello dello scontro fosse lo stesso di
vent’anni fa. Uno sciocco.
Ha
seguito Fiorenza e la sua ossessione senza riconoscere i rischi, senza
applicare cautele.
Lei
aveva da tempo abbandonato l’organizzazione cui fa riferimento Elias e si era
lanciata in una sua personale crociata, forte degli elementi che era riuscita a
raccogliere. Ora mi spiego tutta la documentazione di cui disponeva.
Il
risultato è che Converio si è salvato ma non camminerà mai più e che lei è stata investita dalla rosa di
pallettoni di un calibro .12 a pompa nella toilette di una stazione di servizio
nel tratto semidesertico tra Alpine e Marfa, nel sud ovest del Texas. Sempre
laggiù, accidenti.
-
Sarno ? – chiedo. Non sono sicuro di desiderare davvero la risposta.
Elias
annuisce.
-
Forse non lui in persona, ma la mossa è stata sua. Come per Bernardo, del
resto.
Marta
alza su di lui uno sguardo interrogativo. Forse lei non ha la più pallida idea
di chi fosse Bernardo.
- Non
ci hanno impiegato molto a risalire a lui e al vostro passaggio. Nella loro ottica hanno pareggiato il conto
di Taliercio.
-
In che senso ?
-
Quella notte Fiorenza lo ha beccato. Per quel che ne so è su una sedia a
rotelle. Paralizzato dalla vita in giù. Come credo sia ora Converio.
-
Cazzo…
-
Con Marta ieri abbiamo trascorso una giornata impegnativa, in termini emotivi,
intendo. Lei non sapeva nulla di quanto stava cercando di fare sua madre.
Marta
mi guarda come a voler confermare. Ha negli occhi un residuo di disperata
estraneità, come se la vita con i suoi urti l’avesse stanata da un rifugio
precario ma che lei doveva aver ritenuto sicuro.
-
Non aveva la più pallida idea di cosa stesse architettando Fiorenza. Del resto è
cresciuta con i nonni. Non ha mai avuto una relazione stretta con sua madre.
Ho
la sensazione che Elias potrebbe essere più delicato ma lui prosegue, come se
Marta non fosse lì.
-
Fiorenza è stata per un certo periodo con noi, ma era convinta che non ci
stessimo muovendo nella maniera adeguata. Aveva fretta, e non è il nostro modo
di agire.
-
Quando dice noi chi intendi ?
-
Ci arriveremo.
Elias
abbozza un mezzo sorriso. Improvvisamente mi sento infastidito dal fatto che
lui sappia tutto di noi mentre noi non sappiamo nulla di lui, almeno io.
-
…ma ci sono prima alcune questioni urgenti da chiarire, qualche aspetto di emergenza
che sicuramente ti sfugge.
Io
giocherello con la forchetta.
-
Cominciamo dall’emergenza. Marta è al sicuro. E’ con noi e non è
rintracciabile. Per te è diverso. Sei stato fortunato. Bernardo non ricordava
il tuo cognome e quello che gli hanno fatto prima di schiacciarlo contro un
muro non gli ha estorto quello che non sapeva. Un Piero era un‘indicazione
troppo labile per risalire a te, ma non vanno sottovalutati.
-
E tu queste cose come le sai ?
Elias
sorride.
-
Potrei dire che è il mio lavoro…
-
Un lavoro ?
-
Ci sono un’infinità di reti invisibili a voi che state, diciamo, in superficie.
Ci sono le guerre che seguite al telegiornale e quelle di cui nessuno vi dice
nulla. Tu sei capitato dentro uno di questi conflitti, di cui era stata
ufficializzata la conclusione. Il Potere e i Movimenti…
-
Senti. Io non c’entro. Questa è una storia che neppure voglio sapere. Perché
siamo qui ?
-
Allora. Prima ti rassegni all’idea che la maggior parte delle cose che non
capisci non ti verranno spiegate e meglio è. Non è prioritario. Non c’è tempo
né modo. Secondo. Ci sono dei livelli di, diciamo, discrezione, che ci
impediscono di fare della nostra attività argomento di conversazione. Terzo,
meno sai e meglio è per te. Siamo qui perché il conflitto che dici che non ti
riguarda ora ti riguarda, eccome. E’ solo una questione di tempo e sarai una
persona in pericolo, ma questi non sono più i fascisti delle manifestazioni
degli anni settanta, come credevano Fiorenza e Converio. Quelli che alla fine
non si sono rassegnati a convertirsi a una vita più o meno normale sono passati
sul lato in ombra, e hanno sviluppato strategie e complicità molto più
sofisticate di quando andavano in giro a cercare teste da spaccare con martelli
da ghiaccio. Allora c’era qualche sbirro che gli parava il culo, qualche
giudice compiacente. Oggi contano su complicità che vanno dai trafficanti
latino-americani ai mafiosi kazaki.
Ammazzano
preti sugli altari e, per farti capire la complessità della questione, in
questo momento per te la persona più pericolosa è un prete che li copre.
-
Monsignor Benoffi ?
-
Lui.
-
In che senso è pericoloso per me.
-
Non chiedermi come lo sappiamo. Ma è gente sua quella che cerca la persona che
era con Fiorenza quella notte. Ci arriveranno. Dal personale delle linee aeree
a quello del servizio immigrazione, sono fonti di informazione non così difficili da
raggiungere. Prima o poi troveranno il bandolo.
Non
è la prima volta da quando è iniziata questa storia sciagurata che ho paura, ma
questa volta la rabbia che gli sta insieme è anche maggiore.
Volevo
vendicare l’assassinio di una ragazza di vent’anni, mia moglie, incinta di mio
figlio. Avevo il diritto di farlo, ci sono solo arrivato tardi, e non ho
combinato granché, ma se è una resa dei conti alla quale mi stanno chiamando,
beh, allora ci sto. Ce l’ho ancora, quel diritto.
Elias
sembra mi abbia letto nel pensiero.
-
Li potremmo anticipare, è vero… però occorre agire rapidamente, e tu, comunque,
dovresti sparire per un po’, darci il tempo di capire quando Benoffi avrà le
informazioni che ti riguardano.
-
Io non me ne vado da nessuna parte ! Dimmi cosa devo fare, se devo sparare a
qualcun altro, ma scappare no. Troppo faticoso.
Mi
è venuta così, dopo essermi immaginato in contumacia, in barca o nello chalet,
con l’ansia dell’inseguito. Una faticaccia improba. Mi metto a ridere. Ride
anche Elias. Persino Marta ci riesce.
-
Bene – fa Elias – allora vediamo come organizzarci…
-
C’è una cosa che vorrei che mi dicessi, però.
-
Cosa ?
-
Come avete fatto con il commendator Massironi ? Com’è che io chiamavo il suo
numero e c’eravate voi ?
Elias
scoppia a ridere.
- Sei un lettore di thriller ?
-
Non particolarmente.
-
Perché hai delle curiosità da lettore.
-
Da essere umano, direi.
-
Come preferisci. In ogni caso non è così difficile. Si individua un generatore
di linee telefoniche di riserva e con opportune modifiche ad un attuatore
collegato…
Lo
interrompo.
-
Capito, capito, lascia stare…
-
Troppo complicato ? – ride lui – se ti va ti posso spiegare come allestire un
ordigno esplosivo con due litri di Diet Coke e quattro Mentos. E’ più facile.
Marta
sgrana gli occhi.
-
Sentiamo – dice.
VENTITRE
....................
Non c'è più stato un capitolo ventitre.
Disamore ? mancanza di ispirazione ? assenza di convinzione ?
Per la prima ipotesi direi di no.
A me, come a tutti quelli che scrivono, perlomeno quelli con cui ne ho parlato, accade di affezionarmi ai personaggi come ad esseri reali. Spesso sono loro a dettare, incredibilmente, la consequenzialità degli eventi, la logica dei comportamenti e l'illogicità dei sentimenti.
Nemmeno la seconda ipotesi è praticabile.
Avevo steso un piano piuttosto avvincente, sapevo dove intendevo andare, anche se è vero che, spesso, la storia prende un suo percorso rabdomantico che non puoi che seguire, trascinato dalla forcella vibrante dell'imprevedibile cui aggrappi le tue aspirazioni espressive.
Forse sì, la terza ipotesi. Come al solito.
Probabilmente ha ragione Janis, dovrei trovarmi un buon psicoanalista...
Probabilmente ha ragione Janis, dovrei trovarmi un buon psicoanalista...
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