Curioso - al solito - come vanno le cose.
Sotto il tiro di una beffarda serendipità mi trovo ad affrontare l'argomento DANCING, un documentario girato nel 1986.
Tra quelli citati nel post del primo di settembre ero convinto che mi sarei occupato soprattutto di JAZZ DANCING, per via delle foto di scena, della lavorazione avventurosa e un po' corsara, delle complicazioni superate con incoscienza e di Michèle Roussel in quel di Annecy e invece niente, ho rinunciato, è stato sufficiente non poter postare il balletto che più mi piaceva (e anche il più interessante dal punto di vista coreografico, direi) per smantellare il castello - fragile, evidentemente - della narrazione che avevo in mente.
Di DANCING ero convinto, invece, che non avrei detto nulla, anche se ancora adesso è uno dei lavori che ricordo con più affetto e che, soprattutto nella sua costruzione, coincide più di altri con quella che è la mia idea di come osservare ciò che mi circonda.
La genesi è da far risalire ad una passeggiata al Valentino con Speedy.
Perchè mai ce ne andassimo a spasso come due vecchietti, non so. Sta di fatto che dalle parti del tempietto delle Belle Arti ci ha incuriosito una musica da sala da ballo che arrivava da un edificio di cui non si riuscivano ad identificare bene i contorni.
Saranno state le tre del pomeriggio, ed era inverno.
Io, sicuramente, mi sarei limitato a immaginare e tirar dritto ma Speedy invece ha messo il naso dentro. Insomma siamo entrati e abbiamo scoperto un mondo.
Il dancing Belle Arti apriva ogni pomeriggio dell'anno, dalle due alle sei mi pare, accogliendo una folla di donne e uomini per lo più di età avanzata, che trovavano là l'occasione di misurare le loro residue forze di seduzione.
Valzer, tanghi e cha cha cha erano i pretesti di avvicinamento, ma pochi erano là solo per ballare. Si trattava di una specie di anticamera della resa, dove posticiparla senza troppe illusioni era una possibilità.
L'idea di girarci un film, là dentro, è stata immediata. L'anziano titolare si è detto d'accordo.
Io avevo da poco venduto JAZZ DANCING a RAI3 che allora, a Torino come a Roma, Milano e Napoli, produceva documentari riguardanti il territorio, e quindi sapevo a chi sottoporre il progetto.
Nel complesso la lavorazione è durata dal 21 aprile al 15 maggio del 1986. Non esistono testimonianze fotografiche di quell'esperienza, non parliamo di backstage.
Il documentario, come tutti quelli che allora produceva la sede regionale di RAI3, durava una mezz'ora.
Qui posterò pochi minuti ma nel filmato originale compaiono persone che riuscivano a spiegare cosa li spingesse, quasi quotidianamente, a frequentare quel posto, e arrivavano a farlo con malinconica consapevolezza.
C'era anche il titolare, che sciorinava con un filo di geriatrica presunzione la sua vicenda umana, con lui la donna che si era infilata nel suo letto e poi nella sua vita, facendogli cambiar famiglia. Insomma un mondo, ritmato dai balli di sala eseguiti da un'orchestrina di dimesso vigore e cantati da una signora imparruccata, con un viso che poteva essere quello di una zia di Cip e Ciop.
Al Festival di Annecy il documentario aveva avuto una buona accoglienza.
Tra gli aspetti che più mi fanno pensare di aver fatto un buon lavoro oltre a quello di aver saputo - credo - "guardare", ce n'è un altro, di carattere più prettamente tecnico, che ho applicato in quel lavoro per la prima volta, in sede di montaggio.
Nel frammento postato ci sono un paio di esempi.
La mia idea di partenza era quella di usufruire non solo delle musiche eseguite dall'orchestrina ma da altre di mia scelta, che coincidessero con il sentimento che le immagini che avevamo ripreso evocavano.
Il problema era che quella gente ballava, e allora sarebbe stato necessario farli ballare su una musica che non era quella al suono della quale avevano volteggiato. Una prova millimetrale di equilibrio di montaggio, incoraggiata da regali inattesi ( c'è un'inquadratura dove una coppia prilla elegantemente al suono di una canzone di Trènet come se lui fosse stato lì a cantarla per loro).
I due brani che ho utilizzato per questo esperimento e di cui sono presenti frammenti sono "El negro Zumbon" e "L'ame des poetes" di Charles Trènet. Nell'intero film ce ne sono altri perchè quando mi sono accorto che il gioco, se affrontato con pazienza e senso del ritmo, riusciva, ci ho preso gusto.
Nel frattempo sono trascorsi 25 anni.
E allora io guardo queste persone, che erano tutte tra i sessanta e i settant'anni, alcune anche oltre, e non posso fare a meno di pensare che questa folla allegra e decrepita praticamente senza eccezioni è ormai sparpagliata per cimiteri di ogni dove, irrintracciabile, e che le loro storie di quei pomeriggi sono segreti definitivi, affidati al nulla. Tutti morti.
Bella scoperta.
La genesi è da far risalire ad una passeggiata al Valentino con Speedy.
Perchè mai ce ne andassimo a spasso come due vecchietti, non so. Sta di fatto che dalle parti del tempietto delle Belle Arti ci ha incuriosito una musica da sala da ballo che arrivava da un edificio di cui non si riuscivano ad identificare bene i contorni.
Saranno state le tre del pomeriggio, ed era inverno.
Io, sicuramente, mi sarei limitato a immaginare e tirar dritto ma Speedy invece ha messo il naso dentro. Insomma siamo entrati e abbiamo scoperto un mondo.
Il dancing Belle Arti apriva ogni pomeriggio dell'anno, dalle due alle sei mi pare, accogliendo una folla di donne e uomini per lo più di età avanzata, che trovavano là l'occasione di misurare le loro residue forze di seduzione.
Valzer, tanghi e cha cha cha erano i pretesti di avvicinamento, ma pochi erano là solo per ballare. Si trattava di una specie di anticamera della resa, dove posticiparla senza troppe illusioni era una possibilità.
L'idea di girarci un film, là dentro, è stata immediata. L'anziano titolare si è detto d'accordo.
Io avevo da poco venduto JAZZ DANCING a RAI3 che allora, a Torino come a Roma, Milano e Napoli, produceva documentari riguardanti il territorio, e quindi sapevo a chi sottoporre il progetto.
Nel complesso la lavorazione è durata dal 21 aprile al 15 maggio del 1986. Non esistono testimonianze fotografiche di quell'esperienza, non parliamo di backstage.
Il documentario, come tutti quelli che allora produceva la sede regionale di RAI3, durava una mezz'ora.
Qui posterò pochi minuti ma nel filmato originale compaiono persone che riuscivano a spiegare cosa li spingesse, quasi quotidianamente, a frequentare quel posto, e arrivavano a farlo con malinconica consapevolezza.
C'era anche il titolare, che sciorinava con un filo di geriatrica presunzione la sua vicenda umana, con lui la donna che si era infilata nel suo letto e poi nella sua vita, facendogli cambiar famiglia. Insomma un mondo, ritmato dai balli di sala eseguiti da un'orchestrina di dimesso vigore e cantati da una signora imparruccata, con un viso che poteva essere quello di una zia di Cip e Ciop.
Al Festival di Annecy il documentario aveva avuto una buona accoglienza.
Tra gli aspetti che più mi fanno pensare di aver fatto un buon lavoro oltre a quello di aver saputo - credo - "guardare", ce n'è un altro, di carattere più prettamente tecnico, che ho applicato in quel lavoro per la prima volta, in sede di montaggio.
Nel frammento postato ci sono un paio di esempi.
La mia idea di partenza era quella di usufruire non solo delle musiche eseguite dall'orchestrina ma da altre di mia scelta, che coincidessero con il sentimento che le immagini che avevamo ripreso evocavano.
Il problema era che quella gente ballava, e allora sarebbe stato necessario farli ballare su una musica che non era quella al suono della quale avevano volteggiato. Una prova millimetrale di equilibrio di montaggio, incoraggiata da regali inattesi ( c'è un'inquadratura dove una coppia prilla elegantemente al suono di una canzone di Trènet come se lui fosse stato lì a cantarla per loro).
I due brani che ho utilizzato per questo esperimento e di cui sono presenti frammenti sono "El negro Zumbon" e "L'ame des poetes" di Charles Trènet. Nell'intero film ce ne sono altri perchè quando mi sono accorto che il gioco, se affrontato con pazienza e senso del ritmo, riusciva, ci ho preso gusto.
Nel frattempo sono trascorsi 25 anni.
E allora io guardo queste persone, che erano tutte tra i sessanta e i settant'anni, alcune anche oltre, e non posso fare a meno di pensare che questa folla allegra e decrepita praticamente senza eccezioni è ormai sparpagliata per cimiteri di ogni dove, irrintracciabile, e che le loro storie di quei pomeriggi sono segreti definitivi, affidati al nulla. Tutti morti.
Bella scoperta.
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