lunedì 1 agosto 2011

LE CHIFFON DE L'ARDOISE

Non so perchè ho scritto questo racconto. 
Ho presente le figure cui mi sono ispirato, e che ho travolto con connotazioni paradossali che non erano loro proprie, ma davvero come mi sia venuto fuori non so. 
La stesura risale all'agosto del 1992, quindi ha dieci anni più di quelli che ho postato finora, escludendo naturalmente quelli raccolti in WHITTLING. E non mi dispiace.
Trovo riuscito il fatto che nessuno dei personaggi abbia un nome, e anche se l'aspetto erotico sfocia nel pornografico mi piace che il tutto sia calato in un'atmosfera grottesca, ridicolamente immorale.






LE CHIFFON DE L'ARDOISE



Sei mesi prima era accaduto che si erano ritrovati soli, lui e lei in casa di lei, nell'appartamento sotto quello dove abitava il marito.
In quell'occasione lui aveva avuto la netta percezione, mentre sedevano l'uno accanto all'altra consultando un vecchio atlante asburgico che lei aveva trovato da un antiquario di Nantes, che sarebbe bastato afferrarla per le spalle e baciarla perché lei si lasciasse rotolare a terra, sul tappeto persiano, e penetrare frettolosamente, prima che il marito scendesse per l'invito a cena e arrivassero con lui anche gli altri ospiti.
Mentre stavano seduti con le teste accostate lui si era stupito nello scoprire l'emozione di lei, quell'indugiare timido, segnalato da uno spasmodico deglutire. Se ne era stupito perché fino a quel momento non aveva pensato a lei come a una donna da sedurre. Invece quel suo trepidare inatteso, china sulle tavole, distratta da un desiderio che manifestava in maniera adolescenziale, lo sconcertava. Fissava le mani di lei appoggiate su pagine che definivano confini di Stati scomparsi e si meravigliava della natura umana, della sua inesauribile capacità di ripetersi senza pudori.
Quella donna aveva da poco festeggiato i sessantacinque anni con una festa elegante alla quale lui era stato invitato dopo aver blandito per giorni un amico di lei.
Aveva quattro figli adulti, un ragguardevole numero di nipoti e addirittura un pronipote.
Ora lui si trovava appunto a ricordare quella serata invernale di sei mesi prima osservando distratto i piedi di lei, calzati di sandali leggeri e appoggiati sui pedali della station wagon con targa svizzera sulla quale stavano viaggiando da un'ora.
La terza figlia della sua seconda sedeva dietro di loro con i gomiti appoggiati agli schienali anteriori: ogni tanto sporgeva in avanti la testa inserendosi tra loro due per blaterare considerazioni infantili cui lei prestava un'attenzione paziente.
A lui i bambini non piacevano.
Rifletté blandamente sul fatto che quella marmocchietta petulante, che doveva avere un mezza dozzina d'anni, avrebbe potuto essere sua figlia mentre la donna seduta al suo fianco aveva l'età di sua madre.
Continuò a pensare a lei e a quella sera sul divano di casa sua. Da allora non si erano ripetute occasioni del genere; tra loro si era instaurato quel cameratismo distaccato che definiva il rapporto tra un'editrice affermata e negligentemente mondana ed un aspirante scrittore di trent'anni che arrivava dalla provincia.
Da tre mesi lei tergiversava con i racconti di lui, invitandolo a scriverne altri, cambiando opinione su quelli che pareva aver approvato, lasciandolo sempre in una condizione sospesa, non chiara e apparentemente lineare, alla quale lui si adeguava con un maldestro opportunismo pubblico e rabbie solitarie da consumare nella sua camera di ragazzo, a casa dei genitori, nella cittadina dalla quale desiderava fuggire.
Quell'incontro con lei gli era sembrato un avvicinarsi alla possibilità della fuga. Ed era del resto l'unica opportunità che fino a quel momento si fosse visto offrire.
Era entrato a far parte del cenacolo dei fedelissimi, accolto all'inizio con un briciolo di disappunto mal dissimulato; tra questi aveva conosciuto un cantautore che cominciava a raccogliere consensi piuttosto lusinghieri e che era stata lei ad appoggiare.
Naturalmente sperava che avrebbe fatto altrettanto con lui.
Uno dei lettori della casa editrice pareva che lo sostenesse, un'altra diceva che i suoi racconti erano pieni di banalità ben espresse.
Lui aspettava telefonate che non arrivavano senza quasi uscire di casa, scrivendo come un forsennato, osservato con perplessità dal padre, ferroviere in pensione, e dalla madre che era invece ansiosa di sentirsi orgogliosa di lui.
I due fratelli e la sorella erano sposati, avevano messo in piedi una loro piccola impresa ed erano lontani da lui per indole e per età. Il destino infatti lo aveva spedito inatteso nel grembo d'una madre la cui gravidanza più recente risaliva a dieci anni prima. L'accoglienza era stata ad ogni buon conto benevola, un po’ soporosa negli affetti senili dei genitori e transitori di fratelli e sorella.
Era cresciuto avvantaggiato dall'indipendenza e dall'agio, derivati dal benessere economico conquistato con il lavoro indefesso di tutto il clan familiare e protetto dalla filosofica distrazione dei genitori anziani.
Il fatto che fosse l'unico della famiglia a non lavorare dandosi un destino di studioso, confondeva un poco il parentado, che non si spiegava l'interminabilità del suo soggiorno all'Università. Fratelli e sorella accettavano comunque la cosa con fatalismo, come consci di dover tributare un obolo inevitabile in omaggio all'improvvisa e crescente ricchezza che la famiglia stava ottenendo dopo anni di decorosa povertà. Insomma lo lasciavano fare.
Lui mordeva il freno, ansioso di dimostrare il proprio talento ma soprattutto di sfuggire alla morsa di impietosa prevedibilità che aveva caratterizzato la sua vita fino a quel momento.
Agognava il tumulto mondano della metropoli e mascherava quest'anelito fingendosi schivo, compiaciuto del proprio provincialismo, simulando maldestrie che gli procacciassero l'affettuosa simpatia di chi riteneva potesse essergli in qualche modo utile.
L'invito per quei due giorni nella casa di campagna di lei era sopraggiunto assolutamente inatteso.
Lui la sapeva in vacanza in un posto di cui non ricordava il nome, da qualche parte di fronte alla costa turca, sulla barca del marito, in compagnia della fidanzata di lui, di qualche figlio e nipote, ad esibire con il solito distacco quella che lei definiva la civiltà del loro menàge surgelato.
Era arrivata una telefonata a casa dei suoi. Sua madre lo aveva rintracciato, ospite di un amico in una caotica località balneare, e aveva cercato con affanno di dargli un resoconto del messaggio dell'editrice, che doveva peraltro esser stato di una laconicità esemplare.
Lui si era stizzito, imprecando al telefono, lamentandosi con la madre per la sua distrazione rispetto alle cose che lo riguardavano, che erano così importanti per il suo avvenire, esigendo dalla poveretta che riportasse parole che quell'altra, evidentemente, non aveva pronunciato.
Si era poi affrettato a lasciare la casa dell'amico, troncando una storia romanticamente imbastita con la responsabile delle pubbliche relazioni di un'azienda di Gallarate, per precipitarsi all'approssimativo appuntamento a casa di lei, a Milano, nella furiosa canicola del ferragosto.
L'editrice lo aveva accolto con benevolenza, addirittura a lui era parso con un certo entusiasmo, come se avesse sperato in quel suo sollecito accettare l'invito.
Era sola, senza il solito stuolo cortigiano di figure difficili da dribblare, con l'unica e innocua compagnia d'una nipotina in attesa di raggiungere i genitori nella casa sul lago, in Svizzera.
Abbronzata, con un taglio di capelli radicale che appena le incorniciava di grigio il viso largo, dai tratti artici, a proprio agio in una tunica di tessuto impalpabile, rinfrancata dal fresco del condizionatore e dall'arrivo insperato d'una compagnia per quei due giorni, a lui era parsa addirittura bella, o perlomeno ancora in possesso di tracce di ciò che, trent'anni prima, aveva fatto di lei un tipo ragguardevole.
Si era dato da fare nello stipare il bagagliaio dell'auto di lei e finalmente erano partiti.
Per tutto il viaggio, prima sull'autostrada semideserta e poi all'inoltrarsi su percorsi sempre più perduti nel verde infuocato dal sole d'agosto, lui si era convinto che quell'occasione di poter star soli per due giorni interi, certamente parlare del suo libro di racconti ma anche di altri progetti che lui aveva in mente, era stato un vero regalo della provvidenza.
Si era ritrovato a ricordare quella sera d'inverno con lei, di fronte all'atlante asburgico, spinto dalla certezza che comunque la mossa vincente fosse quella di accettare di sedurla.
Dotato d'un fisico asciutto che a volte, in certi atteggiamenti e posture, ricordava la magrezza sofferta, sapeva esibire un'andatura elegante e uno sguardo che poteva guizzare dall'ironia all'avversione alla dolcezza dimessa a seconda delle necessità, arricchito per di più dal verde brillante dell'iride ereditato dalla madre, che con gli stessi occhi si era però limitata ad osservare la vita con assenza bonaria.
Aveva sfruttato quelle qualità fisiche già nell'adolescenza, impegnandosi fino all'ossessione di corredarle di fascini obliqui, moderatamente morbosi, per far innamorare di sé senza condizioni le compagne di scuola, le figlie degli amici di famiglia, le ragazze conosciute alle feste, sempre tormentato da una curiosa e martoriata volontà di tenersi lontano da implicazioni direttamente sessuali.
A diciassette anni aveva conosciuto la commessa di un negozio di dischi che di anni ne aveva venticinque e che gli aveva fatto conoscere le ulteriori possibilità che quella sua capacità di seduzione, fino ad allora un po’ monca, poteva offrirgli.
Sui sedili ribaltabili della cinquecento di lei, in un viottolo frequentato da coppiette, alla periferia industriale della cittadina, aveva ricevuto istruzioni perentorie sul come manovrare con destrezza quella parte di sé che lui fino ad allora aveva mortificato, vittima di un gotico senso del peccato instillatogli da una nonna bigotta e arteriosclerotica.
La commessa, che si faceva chiamare Margò, gli aveva rivelato con elettrizzato entusiasmo, che proprio da quelle parti lui nascondeva qualità invidiabili; qualità che fino a quel momento lui non aveva considerato tali e che addirittura, dal punto di vista strettamente anatomico, aveva sempre intese come imbarazzanti.
Fin da ragazzino infatti, in spiaggia o negli spogliatoi della palestra, ritrovandosi in costume o in mutande, si era sempre sentito a disagio nel non riuscire ad occultare la voluminosa protuberanza che faceva baldanzoso sfoggio di sé tra le sue cosce magre.
Dopo l'incontro con Margò rinunciò alle manovre con le quali se lo faceva scivolare occultandolo tra i glutei, ma si abituò a lasciarlo libero di occupare il fronte dei pantaloni. Attraversò addirittura un periodo di incontrollato esibizionismo durante il quale prese ad indossare jeans aderentissimi; periodo breve, seppure eccitante, che terminò con la riconquista di quella sua idea d'essere seducente perché schivo, di suggerirsi agli altri tormentato, svincolato da gretti desideri carnali.
Quando alla fine delle sue schermaglie amorose - che occupavano tutto il tempo che non dedicava alla scrittura - dopo sadiche tergiversazioni e masochistici rimandi finalmente si concedeva all'amplesso vero e proprio, non mancava di tener d'occhio lo sguardo della lei di turno al momento della nudità. Invariabilmente la reazione, sia che poi lasciasse luogo al compiacimento che all'invincibile riluttanza, gli regalava una divertita sensazione di strapotere.
Sempre grazie a Margò aveva scoperto inoltre di possedere due requisiti preziosi: una reattività erettiva pressoché automatica e immediata nonostante l'esuberanza delle proporzioni e una capacità quasi sfiancante di posticipare l'eiaculazione.
Forte di questi vantaggi naturali aveva trascorso gli anni che andavano da quei fatidici diciassette ai trenta appena compiuti nell'assoluta certezza della sua vocazione all'irresisitibilità.
La superdotazione lo aveva tra l'altro convinto, in modo piuttosto incongruo, che anche gli uomini, e non solo gli omosessuali, dovessero assoggettarsi reverenti di fronte ad un'egemonia nata dal prezioso ibrido tra cultura, genio ed elefantiasi.
Il desiderio d'esser scrittore, inseguito con un'ostinazione addirittura sospetta fin dagli anni del ginnasio, aveva un poco intorbidato la limpidezza del suo sentirsi superiore; il fatale dover accingersi all'idea del confronto, il vedersi restituire immancabilmente i dattiloscritti che inviava con metodicità ragionieristica a tutti gli editori del Paese, aveva illividito un po’ le sue certezze, senza però sminuirle.
Il casuale incontro con l'editrice gli era parso il giusto premio per un'attesa che non avrebbe né potuto né dovuto protrarsi più a lungo.
Lei ora gli stava parlando di un romanzo che non esitava a definire geniale, opera d'una ragazza di vent'anni, affidatole da un amico deputato, incontrato su un'isola durante il giro in barca appena terminato.
Lui fingeva interessamento contenendo la rabbia e osservava le macchie brune sulla mano abbronzata di lei, languidamente appoggiata sul pomello di radica del cambio.
Immaginava di sguainarlo dai pantaloni e, proprio ora che il caldo battente del sole glielo stava inturgidendo a una misura già portentosa seppur non ancora aggressiva, offrirglielo in appoggio al posto della leva del cambio.
Ingoiò l'irritazione, grato alla nipotina per una delle sue interruzioni lamentose, e rimandò la rappresaglia sessuale alla sera.
Altre volte aveva provato un desiderio incattivito di usare il proprio membro come uno strumento di prevaricazione e sempre gli era accaduto nei confronti di figure femminili in cui sospettava indifferenza a suo riguardo. Dalle quali comunque si teneva a distanza di sicurezza, dopo qualche approccio esplorativo, senza la tentazione di operare verifiche. Mai gli era però successo di desiderarlo con tanto accanimento come con l'editrice.
Saperla ricca, adulata, vederla sempre così perfettamente adeguata e nello stesso tempo elegantemente lontana, gli scatenava un incontrollabile complesso di inferiorità. Ed essere consapevole che le sue possibilità di emergere dipendevano dai raffinati capricci di lei a volte gli suggeriva gesti di brusco e orgoglioso distacco, sempre peraltro oculatamente rinviati.
La sera dell'atlante asburgico si era imbaldanzito a dismisura perché per un momento aveva avuto la certezza di poter aprire un varco, ed introdurvisi per porre condizioni; ma non aveva saputo approfittarne, invigliacchendosi all'idea dell'arrivo improvviso del marito e degli ospiti. Altre opportunità, da quella sera, non se ne erano presentate. Da mesi al contrario, nonostante la disperata stima che nutriva per sé stesso, sospettava che quell'occasione potesse esser stata più un abbaglio suo che non una reale disponibilità di lei.
Ma ora quell'invito per un incontro a due, complice il solitario disincanto del ferragosto, lontani da tutti, non poteva che essere la conferma del suo sospetto di quella sera. Che ora gli parlasse della giovane promessa che meritava la pubblicazione non era che un ultimo tentativo di non passare la mano; e lui era deciso a costringercela.
L'auto svoltò per un viottolo sterrato e si inerpicò per un poggio costellato di cipressi ieratici, varcò una cancellata spalancata su un viale guarnito di siepi e proseguì a zig zag fino al piazzale sul quale si affacciava la villa.
Dalla cornucopia impugnata da un putto di pietra, in bilico sulla punta di un piedino grassoccio al centro di una vasca barocca, zampillava un esile e luminoso getto d'acqua.
L'editrice disse che erano arrivati e lui ancora una volta si perturbò, dubbioso sulle sue possibilità di batterla.
Sapeva, per certe confidenze ricevute da una segretaria della casa editrice con la quale aveva trascorso alcuni fine settimana in una pensione sulla Costa Azzurra, che lei - in gioventù ma ancora adesso - si era concessa e si concedeva amanti con una certa profusione. La segretaria aveva citato tra gli altri i nomi di alcuni attori che lo avevano fatto trasecolare, quello di un calciatore che era stato il suo idolo dell'infanzia, un florilegio di poeti, drammaturghi, autori e vari uomini di cultura, e aveva maliziosamente concluso l'elenco nominando un terrorista tedesco, una soprano svedese e un'olimpionica rumena di lancio del giavellotto.
Lui in quell'occasione si era reso conto che a causa di lei correva il rischio di incappare, come per la scrittura ora anche sul fronte garantito della prestazione erotica, nel timore del confronto. E adesso, improvvisamente, di fronte ad un'innocua vasca di pesci rossi, ma che per lui rappresentava l'ennesima sottolineatura di una condizione sociale che gli era estranea, e che da sempre lo estenuava nel costringerlo a negare con ostinazione di desiderarla, si amareggiava, tentato dalla rinuncia.
Si tastò il membro, stretto lungo la coscia dal pantalone, constatandone il dimesso riposo ed interpretandolo come un segno premonitore.
La nipotina intanto si era precipitata fuori dell'auto ed una donna di mezza età era apparsa all'ingresso, rivolgendo loro piccoli inchini; un ruvido tipo di contadino stava scaricando i loro bagagli, passandoli ad un ragazzotto che, a braccia piene, si avviava alla villa.
L'editrice nel frattempo aveva abbracciato con simpatia distratta la donna di mezza età e scherzato con il contadino, poi aveva presentato lui, che appena sceso dall'auto si sgranchiva le gambe, e quei due lo avevano scrutato mal dissimulando una curiosità maliziosa.
L'ingresso era enorme, con scalinate curve che salivano a una specie di balconata interna. Il soffitto era affrescato con divinità olimpiche intorpidite dalla penombra e dalle macchie d'umidità.
L'editrice incaricò il ragazzotto di accompagnarlo alla camera che gli era stata destinata e di ricondurlo poi fino alla piscina, per un tuffo prima di cena. Lui, confuso, disse di non aver portato il costume e lei sorrise, facendo un gesto come a sottolineare la banalità della dimenticanza.
Il ragazzo lo lasciò dicendo che lo avrebbe atteso all'ingresso e richiuse la porta. Lui posò la borsa da viaggio sul letto e gettò un'occhiata alla finestra, affacciata su un frutteto digradante verso campi di girasole.
Si denudò poi frettolosamente di fronte ad uno specchio e prese a roteare il fallo accompagnando il gesto con spinte dell'inguine, in una specie di danza propiziatoria d'autoincoraggiamento, ridacchiando tra sé, impugnadoselo a due mani e strizzandolo fino a rendere il glande paonazzo. Quindi si rivestì in fretta, raggiunse il ragazzotto e si lasciò precedere fino alla piscina.
La nipotina, nuda, stava tentando balzi acrobatici su un tappeto elastico. L'editrice non c'era. Il ragazzo scomparve senza una parola e lui sedette sul bordo d'un lettino a ruote, in attesa.
La nipotina gli urlò di spogliarsi e lui rispose che era senza costume, lei allora smise i suoi balzi e prese a fissarlo con una strana aria curiosa; l'editrice lo tolse dall'imbarazzo, comparendo avvolta in un accappatoio.
Gli chiese se il posto gli piaceva e lui rispose di sì, simulando un atteggiamento che doveva interpretare la sua pensosa distrazione riguardo ai beni materiali.
Lei si liberò con noncuranza dell'accappatoio per rimanere completamente nuda e lui non riuscì a mascherare il suo stupore; lei finse di non accorgersene, richiamando la nipotina con quel suo tono aristocratico e blando.
Si avviarono al trampolino e la bambina, voltandosi, chiese a lui se non volesse andare con loro.
L'editrice gli sorrideva vaga, in attesa: il corpo era scuro d'abbronzatura, ancora accettabilmente sodo, tranne che dietro le braccia, intorno all'ombelico e alle ginocchia. I seni, che dovevano esser stati pieni e vistosi, invece di farsi tristemente e banalmente cascanti, forse grazie anche ad un discreto accorgimento chirurgico, si erano come elegantemente ritirati, conservando però un giovanile sguardo all'insù, culminante in protési ed appassiti capezzoli, incastonati in arèole ovali.
Il pube era completamente calvo, come quello della bambina.
Lui accennò ancora al fatto del costume e lei gli indicò una cabina dove avrebbe potuto trovarne uno, poi aggiunse, col tono d'una postilla irrilevante, che comunque, se gli faceva piacere, poteva anche farne a meno, come loro due.
Lui, perplesso, accennò un gesto verso la nipotina e l'editrice rise, dicendo che la piccola era abituata, che anzi le piaceva, perché era una bambina curiosa.
Disse proprio così - curiosa - e lui, irritato dal proprio imbarazzo, pensò che una curiosità certo gliel'avrebbe tolta.
In fondo sarà stata lei a volerlo rimuginava tra sé, spogliandosi in cabina: quindi che la bambina vedesse pure. E uscì.
Lei, dal trampolino, entrò in acqua con un tuffo perfetto e la nipotina la segui urlando. Nessuna delle due lo aveva guardato.
Nuotavano ridendo tra loro e schizzandosi. Lui si avvicinò al bordo della piscina, esitante: se lo sentiva ballonzolare ad ogni passo, urtare contro le cosce.
Si accovacciò e il glande sfiorò il terreno.
La bambina gridava per gioco, nuotando a rana, con i capelli che fluttuavano sulla superficie baluginante dell'acqua sotto il sole al tramonto.
Lui scivolò in piscina con un tuffetto obliquo e andò ad ancorarsi sul bordo opposto, strizzando gli occhi per il riverbero del sole.
L'editrice, con un crawl impeccabile, vigoroso e sereno insieme, misurava lo specchio d'acqua in senso longitudinale.
Lui seguiva la linea dei glutei andare e  venire sotto il pelo dell'acqua, mentre la nipotina, aggrappata alla scaletta, scalciava allegramente, canticchiando una filastrocca in francese.
Si decise anche lui a nuotare, bordeggiando lentamente, fino a che l'editrice, dopo le ultime bracciate, si issò sul bordo ed uscì, facendosi scorrer via l'acqua dal petto e dal ventre con delicati gesti delle palme aperte.
Si adagiò su un lettino e inforcò un paio di occhiali da sole mentre la nipotina, dopo averla raggiunta, le balzava cavalcioni squittendo.
Lui allora si decise a uscire. Avanzò verso di loro con quell'andatura per la quale riteneva d'andare famoso e si fermò in piedi, ostentatamente, accanto al lettino. La nipotina si voltò e fissò uno sguardo inespressivo ma attento sul suo cazzo che riposava, stillante acqua, in una morbida curva gommosa, il glande occhieggiante dal prepuzio un poco ritratto. Dove fosse rivolto lo sguardo dell'editrice, nascosto dalle lenti polarizzate, non era dato di sapere.
Lei lo invitò comunque a sedere accanto a loro e lo informò che avrebbero cenato entro un'ora; celebrò distrattamente la qualità del vino con il quale avrebbero pasteggiato e che lui non aveva mai sentito nominare, poi parlò d'un giornalista americano che voleva assolutamente fargli conoscere. La nipotina si era adagiata su di lei e, imprevedibilmente, aveva preso a succhiarle un capezzolo senza distogliere lo sguardo dal pene.
Lui accennò al fatto d'aver scritto un nuovo racconto e lei, accarezzando la schiena della nipote, chiese se lo avesse portato con sé. Quando lui rispose di sì disse che lo avrebbe letto la sera stessa, anzi, che lui lo avrebbe letto ad alta voce per lei.
Ad un tratto la bambina smise di succhiare il capezzolo e si sollevò, scavalcò il corpo dell'editrice e - con un dito nel naso - si avvicinò a lui. Sedette sul bordo del lettino e con la mano non impegnata a scaccolarsi prese a toccargli il membro.
L'editrice la invitò a togliersi le dita dal naso, poi di fronte allo sguardo impietrito di lui si sfilò gli occhiali e ammiccò, come a dire che occorreva lasciarla fare.
La bambina ubbidì, togliendosi l'indice dalla narice, e subito avvicinò anche l'altra mano a tastargli con delicata curiosità i testicoli, che aveva sodi e proporzionati alla voluminosità dell'uccello.
Lui si ritrasse sconcertato mentre la nipotina gli si poneva cavalcioni sulle cosce, agguantandoglielo con le due mani piccine e parlottandogli come a un cucciolo.
l'editrice osservava quei gesti senza apprensione: si era semplicemente sollevata su un gomito come a voler controllare che la nipote non combinasse guai.
Lui avrebbe voluto balzare in piedi e scappare ma nello stesso tempo le manipolazioni della bambina gli procuravano un languore irresistibile.
L'editrice disse ancora che piccola era curiosa e molto matura per la sua età. Lui sussurrò, cercando di dissimulare, che stava cominciando a provare una sensazione imbarazzante e che forse era meglio se si fossero alzati. L'editrice rispose che si rendeva conto, con l'aria di pensare ad altro, ma non si mosse.
La nipotina lo scappellò meravigliandosene e prese a pizzicottargli delicatamente il frenulo.
Lui, per quella caratteristica speciale di cui fino a  quel momento era andato fiero e che ora gli appariva definitivamente disastrosa, vide il suo cazzo inalberarsi con una rapidità ancora maggiore del solito. L'editrice non poté trattenere un benevolo sorriso di stupore; la nipotina rideva divertita, cercando di tirarlo a sé come una leva, mentre lui si sentiva aggiogato da un incoercibile senso di vertigine, vuoi per la clamorosa inverosimiglianza della situazione, vuoi per il vorticoso defluire di sangue che era accorso cospicuo ad inturgidire la sua mazza in tempo da primato e in maniera così inopportuna.
La bambina ci si aggrappava a due mani, tirandolo verso di sé per poi lasciarlo andare di colpo; lui, aggrappato ai braccioli del lettino, immobile, se lo guardava ribattergli sullo stomaco con uno schiocco carnoso. Lanciò un'occhiata implorante all'editrice che intanto si era messa a sedere, accavallando le gambe e inarcando la schiena, le braccia tese all'indietro e il petto rivolto al cielo.
Senza guardarlo chiese se avesse ma letto 'Ermeneutica e Rivoluzione' e quando lui rispose di no, in un soffio, lei prese a parlargli dell'autore: un insegnante di filosofia all'Università dell'Avana, che lei aveva conosciuto più di trent'anni prima.
All'improvviso si sporse in avanti a impedire che la nipotina esagerasse con il suo gioco, attirandola accanto a sé con una mano mentre con l'altra accarezzava per un attimo, con delicatezza nostalgica, il membro eretto di lui: tutto questo senza smettere mai di raccontare di quel barbudo gigantesco, che aveva partecipato allo sbarco di Las Coronas con il Thompson imbracciato e una copia del Don Giovanni di Kierkegaard nella giberna.
Lo aveva conosciuto in occasione del viaggio a Cuba di una delegazione di intellettuali italiani, di cui lei faceva parte.
Lui ora ascoltava il racconto di lei con sollievo. La nipotina si mordicchiava distratta una ciocca di capelli senza perdere di vista la verga che, inspiegabilmente, non accennava a ridurre la sua vigorosa e pulsante pienezza.
Improvvisamente il racconto affrontò un registro nuovo e l'editrice prese a descrivere quello che definiva un prigione michelangiolesco e il suo uccello mulatto dicendo - rivolta a lui che non osava cambiar posizione - che il suo un poco glielo ricordava, sebbene quello del cubano fosse d'un appetitoso color cioccolato.
Raccontò dettagliatamente certi amplessi selvaggi consumati di notte ai giardini pubblici. Confidò che fino ad allora, per una volontà quasi rituale, non aveva avuto che uomini della sua stessa religione, vale a dire circoncisi, e che la scoperta del prepuzio l'aveva incantata. Disse che una delle cose che la eccitavano di più era l'assistere all'esuberante denudarsi del glande: stringere il cazzo e lentamente abbassare la mano fino a far sgusciar fuori la cappella lucida e gonfia.
L'editrice a quel punto fece una pausa pensosa. Lui gettò un'occhiata alla bambina che si era allontanata e disse, cercando un tono spiritoso, che doveva essere un vezzo di famiglia, dal momento che la nipotina poco prima pareva divertirsi molto per la stessa ragione. L'editrice parve non aver sentito; riprese il suo racconto fissando un punto lontano. Disse che una notte, su una spiaggia deserta a Guanabacoa, il rivoluzionario, in preda ad una crisi di gelosia, l'aveva schiaffeggiata e poi, disperatamente, sodomizzata più volte. L'alba li aveva sorpresi abbracciati, con i segni delle lacrime, degli schiaffi e dei graffi, la sabbia tra i capelli, tracce di sangue, di escrementi e di sperma sui corpi. Avevano capito di essere innamorati l'uno dell'altra fino a desiderare di morire insieme. Disse che l'aveva trattenuta il pensiero dei figli, alcuni dei quali erano già nati.
Emise una risatina di  benevola e distaccata nostalgia, rovesciò sul materassino la nipotina che nel frattempo era tornata accanto a lei e la fece guaire di gioia fingendo di morderla sulla pancia. Lui si rilassò osservando il suo uccello finalmente adagiato sul materassino.
Quando nonna e nipotina smisero di giocare l'editrice, dopo un lungo momento di silenzio, gli chiese se fosse disposto a farle una cortesia. Lui si affrettò a rispondere di sì con un po’ di piaggeria.
Lei sospirò, rivolgendo uno sguardo malinconico alla linea dei cipressi che arginava l'orizzonte; la bambina teneva gli occhi chiusi e sfoggiava un sorriso beato sotto le carezze della nonna.
Rivolta al suo cazzo l'editrice raccontò che un pomeriggio, sotto la pergola di una finca in riva al mare, il docente di filosofia, sdraiato su una stuoia, eccitato dal fatto che lei avesse preso a masturbarsi in piedi appoggiata con la schiena al muro dietro il quale, nell'ombra di casa, una coppia di loro amici stava rumorosamente facendo l'amore, si era liberato dei pantaloni mimetici e poi, con una mezza capriola all'indietro, fermandosi nella classica posizione della bicicletta e sorreggendosi le reni con le mani, si era esibito in una prova di autoerotismo orale estremamente plastica. Disse che non aveva mai più visto nulla del genere da allora, e tantomeno sperimentato un orgasmo così viscerale e selvaggio come quello che si era procurata ammirandolo.
Disse che lui, data l'analogia delle proporzioni, forse poteva offrirle una seconda occasione. Lo disse alzando lo sguardo in un definitivo atteggiamento d'attesa.
Lui era sbalordito dalla proposta, riconoscendo suo malgrado una certa assenza d'immaginazione per non essersi mai cimentato in un esperimento così morbosamente egocentrico, ma soprattutto timoroso dell'aspetto ginnico, riguardo al quale nutriva qualche incertezza. Tuttavia, di fronte allo sguardo freddamente valutativo dell'editrice, al sonnecchiare soporoso della nipotina che glielo aveva strapazzato come un giocattolo di gomma, con un sussulto d'amor proprio orgogliosamente ferito si alzò e si distese sulle piastrelle di cotto fiorentino inteporite dal sole.
Ricadde al primo tentativo ma al secondo, con i gomiti saldamente puntati a terra e le mani fissate alle reni, si ritrovò a gambe in su, piegato su sé stesso. Con uno sforzo di volontà al quale il suo uccello rispose con commovente prontezza, ripristinò una guizzante erezione, ritrovandoselo di fronte al naso, in una visione prospettica assolutamente anomala. Voltò goffamente il capo verso l'editrice, che aveva allungato le gambe sfiorandogli il fianco con la punta dei piedi, e lei gli lanciò un piccolo accenno d'assenso incoraggiante: tornò dunque a rivolgersi al glande che puntava contro di lui, tese il collo e si ritrovò, con imprevista facilità, a succhiarselo con una certa cautela.
La nipotina, risvegliata dall'interrompersi delle carezze della nonna, si alzò e prese a girargli intorno incuriosita. Si accovacciò accanto al suo viso per controllare che cosa stesse facendo e lui cercò di rivolgerle un sorriso di circostanza, nonostante la bocca spalancata su quell'occlusione palpitante; lei non ne tenne conto, lo aggirò di nuovo e gli si fermò di fronte alla schiena capovolta, indagando i glutei esposti al cielo.
L'editrice emise un rantolo, come un beluino colpo di tosse.
Con gli occhi fissi su di lui e le mani strette tra le cosce, portò a termine con una rapida sequenza di sussulti misurati il suo orgasmo, mormorò qualche parola in spagnolo e si alzò.
Lui abbandonò con sollievo la posizione verticale e ricadde supino, sbuffando. L'editrice gli si inginocchiò accanto: lacrime perlacee le ruzzolavano lungo le guance. Annuiva bonaria, con un materno sorriso d'approvazione. Ripeté qualcosa in spagnolo con tono sognante e lui tacque pensando questa volta ci siamo, mi pubblica.
Lei iniziò quindi a masturbarlo con un ritmo perfetto, assolutamente identico a quello che lui usava saltuariamente su di sé. Continuava intanto a ripetere parole spagnole con un tono che si faceva via via più aggressivo. La frase divenne poi una sola, indecifrabile, ripetuta con rabbia. Con la mano libera l'editrice  afferrò il cazzo alla base tirandogli i testicoli verso il basso e costringendo la cappella ad uno spasimo pulsante. Lui allungò una mano verso la sua fica, pelata e lucida di umori tra le labbra tumide e socchiuse, ma lei scosse il capo, indicando con un cenno del mento la nipotina, che osservava attentamente l'operazione. Con un'intuizione magistrale gli affondò poi, a bruciapelo, indice medio e anulare insieme attraverso lo sfintere nel momento in cui lui già sentiva il fiotto dell'eiaculazione percorrerlo e fornendogli così una prova definitiva dell'esplosiva possibilità di coesistere di dolore e piacere.
Il getto di sperma fu proporzionato all'interminabilità dell'attesa e all'eccezionalità della circostanza: copioso fino ad allarmarlo e proiettato da una pressione balistica. La nipotina ne fu entusiasta. Continuava a ripetere - Ancora ! - mentre l'editrice, dopo essersi rialzata, mormorava benevola che era tempo di andare a tavola.
Lui si abbandonò esausto, pregno di una soddisfazione compiuta, ronzante.
Squillò il cellulare sul carrello accanto a loro. La bambina balzò a rispondere, restò un poco in ascolto poi porse l'apparecchio alla nonna.
L'editrice manifestò subito una sorpresa cordiale, esprimendosi in un francese impeccabile; annuiva con compiacimento alle parole che stava ascoltando. Gettò uno sguardo assente a lui che cercò di ammiccare, ma l'indifferenza di lei lo spinse a mettersi seduto, un po’ curvo, con le braccia intorno alle ginocchia, in attesa.
La nipotina si tuffò in piscina. L'editrice posò l'apparecchio e annunciò che quella giovane autrice amica dell'amico deputato, lasciato pochi giorni prima su un'isola del Dodecaneso, era con lui a Firenze. Glielo aveva annunciato or ora lei stessa.
Lui finse compiaciuto stupore contenendo, esausto, il disappunto crescente. Lei si scusò d'aver dimenticato di dirgli che la giovane autrice di cui gli aveva parlato era francese. Aggiunse che quel breve romanzo di lei passatole dall'amico deputato - Le chiffon de l'ardoise - era una delle cose più intense che avesse letto negli ultimi anni.
Disse che con quel libro avrebbe inaugurato la collana di giovani autori stranieri in varo per l'autunno. Lui, con uno sforzo che lo portò vicino alle lacrime, se ne compiacque.
L'editrice, drappeggiandosi con eleganza l'accappatoio sul corpo ancora accettabilmente snello, comunicò che gli amici sarebbero arrivati in serata, richiamò la nipotina e disse che sicuramente la cena stava per essere servita.

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