Questo lo metto proprio perchè quello che c'è scritto - era il dicembre del 1978 - verrà contraddetto dagli avvenimenti di appena tre mesi dopo.
In quel dicembre, mi pare nei giorni tra Natale e capodanno, io contatto telefonicamente Caroline Kobel che non sento da dieci anni ( e allora mi parevano un'enormità, ma ne avevo solo 28, è comprensibile) e subito dopo mi lancio nella stesura del testo che seguirà, intitolato, appunto, Caroline.
Appena tre mesi dopo, a Menaggio, sul lago di Como, in una pausa della lavorazione de "Un dramma borghese" di Vancini io scopro che il luogo dove Caroline vive, in Svizzera, non è lontanissimo.
Quello che ne segue è ampiamente descritto nella seconda parte del racconto "Un mestiere", scritto nel 1998 e postato martedì 1 febbraio 2011.
Vent'anni dunque tra i due "resoconti" ( e adesso mi sembrano un'inezia, ma ne ho 60, vaffanculo...)
Pit Formento nel 1969, com'era all'epoca
dei suoi giorni con Caroline Kobel.
Pit Formento, a destra, con Raul Montesanti
e Valerio Zecca, a Menaggio, nel 1979, anno
del nuovo ed ultimo incontro con Caroline.
Pit Formento con Elena Mazzarino,
nell'estate del '98, ai tempi della
stesura di "Un mestiere".
CAROLINE
Ore 9.00
Quanto tempo ? Dieci anni.
Tengo il viso rivolto al muro. I disegni della tappezzeria si confondono, si amalgamano quando il pensiero volge vorticosamente a ritroso ed annebbia lo sguardo. Si ricostruiscono poi nella loro composizione netta ed immobile quando torno a pensare freddamente che sono qui, in questa stanza, dieci anni dopo.
Alle sette sono andato in bagno, poi c'é stato il ritorno a letto: la tenerezza impalpabile all'idea di un nuovo sonno mentre la luce grigia del giorno esitava contro lo spazio del buio.
Mi sono riaddormentato per un attimo - o almeno così mi é parso - e in quel poco ho sognato cavalli in fuga lungo una discesa innevata e me ad inseguirli per prendere i fucili legati alle loro selle. Cavalli che hanno perso il cavaliere ed io non riesco a raggiungerli. Diventiamo punti lontani: mobili macchie scure sulla luminosità argentea della neve sotto il sole.
Poi il risveglio. Un sonno breve, un sogno intenso e d'improvviso lei.
In verità non lei ma noi, perché nell'angolo di piazza dove allora c'era il Tabaris da un lato e l'ingresso del Palace dall'altro ho visto me, lei, Giorgio e Virginie fermi a guardare verso di me. Fermi per quell'imprevisto e incalcolabile istante delle visioni che ti fanno sospettare che annidato dentro di te ci sia un segreto. Fermi poco prima che lei e Virginie partissero per tornare a Parigi. Immobili nell'immaginaria foto ricordo regalata alla memoria. Relegata alla memoria e in lei irrintracciabile. Perplessi e senza sorriso nell'un millesimo dell'istantanea sognata: uno scatto mentale a rincorrere un tempo da assiderare imitando l'oggetto meccanico che in quell'occasione non avevamo, dunque oggi non abbiamo fotografie di allora, e i nostri visi così ci mancheranno per sempre.
Ore 9.45
Quando ero più giovane scrivevo canzoni. Erano la mia scure di guerra. Con quelle mi vendicavo e riuscivo anche a tenere a bada la malinconia, raccogliendola in facili giri d'accordi sulla chitarra.
Allora, in una strofa, avevo parlato di noi per poi tornare al silenzio, al ricordo bonario e cinico nel salotto dove Giorgio teneva la sua gamba ingessata, il Porto e il disco con i Recuerdos de la Alahambra.
La musica ci zittiva e scrutavamo il suono in cerca di commozione.
La malinconia e la melodia, la melodia della malinconia.
Ore 10.10
Odio stare così. Con lo sguardo sbarrato sui disegni della tappezzeria, ma il pensiero di forzarmi ad agire, in qualsiasi modo, mi é ancora più odioso.
Non c'é scampo. Sono prigioniero di una sorta di incorporeità, di immobilità di sensi in agguato, vigili in uno spazio inesplorato anche se superficiale.
Ore 11.45
Non so come ci sono riuscito ma mi sono liberato. Non ho intrusi in me adesso che siedo alla scrivania con la rubrica tra le mani.
Ho controllato il prefisso sulle pagine delle chiamate internazionali.
Le telefono. Ora le telefono.
Un anno fa a Parigi l'ho cercata. Ho parlato con sua madre, che é stata gentile come se mi conoscesse, come se la mia storia con Caroline fosse cosa recente. E mi ha dato il numero. Friburgo. Svizzera.
Vive là, ha detto la madre con un impercettibile accenno di disappunto nella voce. E' sposata ed ha una bambina di quattro anni.
Io ho annotato il numero e l'ho conservato solo perché Giorgio lo vedesse, come se quei tratti scritti frettolosamente con la mano sinistra sul retro di uno scontrino della Closerie des Lilas gli potessero regalare una parte di sé che non ha più, ma non l'ho conservato per lei, perché lei allora era passato da resuscitarsi protetti dalla distanza, quasi sempre per immodestia. Fino a stamattina, quando di colpo, dopo i cavalli sulla neve, nella trasparenza della luce contro le palpebre che abbandonavano il sogno, lei si é fermata un istante.
Ore 12.00
I dodici numeri scorrono rapidi ed é subito lì. Chiede due volte chi é. Fa una lunga pausa prima di dire che ha conosciuto una sola persona con il nome che ho pronunciato.
Dopo dieci anni, così all'improvviso, io avrei paura ed invece lei no.
C'é una radio ad alto volume e un bambino che piange. Non é una bambina come mi era parso di capire nel colloquio telefonico con sua madre. Me lo dice con dolcezza, interrompendomi. E' un bambino e si chiama Mathieu.
Cerco di immaginare da dove mi sta parlando: ci sono confusi rumori di fondo che suggerirebbero una cucina, c'é la canzonetta alla radio, c'é Mathieu da richiamare perché non mangi le cartoline.
Forse aspetta il marito che rientra per pranzo. Forse c'é odore di zuppa in questa cucina svizzera.
Forse é perduta.
Dice che da Parigi a Friburgo all'inizio é difficile. Io rispondo che ci credo e rido come uno sciocco. Sono nervoso.
Lei dice che é perché la gente é chiusa ma poi, col tempo, tutto diventa meraviglioso. Forse é felice.
Forse é perduta.
Chiede di me e le racconto un poco di verità. Tutta la verità nascosta sotto le bugie della speranza e del desiderio.
All'improvviso parla di noi due
- Non sono stata corretta con te.
- Tu ? Ma cosa dici ! E poi sono passati dieci anni, dai, cosa ti viene in mente !
Con un moto di stizza era scesa a Chatelet, convinta forse che l'avrei seguita, ed io l'avevo guardata scomparire al di là dei finestrini che scorrevano rapidi sui manifesti pubblicitari. Era stata l'ultima volta che l'avevo vista.
Insiste. Dice che vuole chiedermi scusa, ed io fingo di non capire perché. Poi ricorda una sera dopo Capodanno
- Era Sauze d'Oulx ?
Come mi piace sentirlo chiamare con accento francese, quel posto.
- Sì, si chiama così.
- Era bello - dice.
- Sì.
- Era il sessantanove ?
- Sì.
Ho la sensazione che ricordi poco di quei giorni e questo più che addolorarmi mi meraviglia. Ma lei già lascia indietro noi due adolescenti e dice che tra un mese andrà a Parigi a trovare sua madre. Da sola. E con allegria, come se nulla fosse, mi chiede se ci vogliamo incontrare là.
- A Chatelet ?- chiedo.
Lei tace un attimo, poi ride prima di farsi seria all'improvviso per dire é strano sentirti dopo tanto tempo, molto emozionante, capisci vero ?
Dice
- Allora a Parigi ?
Ed io, che adesso so che non ci rivedremo mai più, rispondo di sì.
Ore 12.20
Quando ho abbassato la cornetta avrei voluto avere qualcuno cui confidare subito tutto, come in un conato straziante di tenerezza per tutta l'inutilità di quell'essersi voltato indietro, ma la gente di allora é imprigionata in luoghi dai quali non riuscirebbe a capire. Devo quindi aspettare la sera: il Porto nel salotto e le luci tenui, silenzianti.
Caroline é nella sua casa di Friburgo, Mathieu mangia le cartoline e noi ora siamo davvero lontani per sempre.
Quando ero più giovane scrivevo canzoni.
Ce n'era una che diceva “…sarai con me se il coraggio ed il sogno sbraneranno il tempo, lo chiuderanno in una cella d'avorio e non per sempre, perché dire per sempre non avrà più significato”.
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