Qualche gruppetto dove riconoscere o riconoscersi...
sabato 28 aprile 2012
giovedì 26 aprile 2012
LE FINESTRE DI DESTRA, PROPRIO SOPRA L'INGRESSO (quarta e ultima parte)
Del Poz era attraente ma non al punto da permettergli di far correre rischi alla serenità della sua esistenza.
Decise con fulminea risolutezza di liberarsene, troncare, dissuadere. La figura di Corrado veleggiò opaca sul suo burrascoso orizzonte immaginario, ma a lui riservò una possibilità. In fondo aveva da perdere quanto lei, e più di lei era terrorizzato dall'idea che qualcosa della loro relazione dovesse minimamente trapelare, senza contare l'incommensurabile vantaggio dell'assoluta assenza di coinvolgimento affettivo da parte di ambedue.
- Sono una troia - pensò di sé con coraggiosa allegria e decise che all'indomani sarebbe passata in agenzia all'ora di colazione, e se fosse stata un'altra giornata di pioggia avrebbe indossato l'impermeabile senza nulla sotto, come gli esibizionisti delle barzellette illustrate in quei vecchi numeri di Playboy che Riccardo collezionava fanaticamente.
Lo avrebbe spalancato davanti alla scrivania di Corrado; da fargli venire un colpo.
Mentre Renata si trastullava con questa fantasia spingendosi pigramente verso ipotesi impraticabili, fino a scopare in vetrina, suo padre si era assopito.
Anche nel sonno il suo viso mostrava i lineamenti di un sereno distacco aristocratico, lo stesso di sua sorella Marina, che del padre era una fedele replica al femminile, così come del resto Carlo era la copia della madre e Giulio, indeciso, precario, altalenante, non era che l'ibrido meno riuscito. La composizione dei caratteri dei genitori nel suo caso si era squilibrata, seguendo un disegno balzano.
Renata prese a riflettere su quest'aspetto: sull'incontrollabilità dell'indirizzarsi dei patrimoni genetici, sul caotico e microscopico andirivieni del loro coniugarsi. E come per assecondare un richiamo si sporse un poco di lato a guardarsi nello specchietto.
Ciò che era sempre stato noto, e considerato blandamente da tutti come una piacevole stravaganza, si rifletté ora nel rettangolo del retrovisore come una rivelazione.
Lei non assomigliava né a suo padre né a sua madre.
Dicevano che della madre avesse le famose invidiabili gambe. Per il resto nulla.
Quand'era bambina amici e parenti dicevano " Ma guarda come assomiglia allo zio Vittorio " che poi non era davvero uno zio ma un amico di famiglia, morto in un incidente quando lei era ancora adolescente.
Dalla sua morte, probabilmente nel timore di incorrere in accostamenti macabri, tutti avevano smesso di sottolineare quella somiglianza.
Renata si riosservò con l'attenzione che si riserva ad uno sconosciuto attraente: il taglio un po' obliquo degli occhi che garantiva quella sua perenne espressione di vulnerabile stupore, l'accenno di efelidi su una carnagione lattea, un nasetto all'insù che non si rintracciava neppure risalendo ai bisnonni, i capelli biondi in una famiglia di castani irriducibili. E rivide su quel terrazzo a Santa Margherita lo zio Vittorio seduto sul muretto che sorridendo diceva:
- Non é nulla, non dar retta. Stasera ti porto io a una festa - a lei decenne, in lacrime per una delle rarissime occasioni di contrasto con padre e madre.
Non ricordava le ragioni del pianto, ma quella serata sì.
Lo zio Vittorio si era imposto con facilità sui genitori: la mamma aveva tentato un po' di disorientata resistenza, suo padre si era rapidamente disinteressato della cosa.
Renata rivide all'improvviso, o comunque ebbe la pretesa assoluta di ricordare, lo sguardo che era intercorso tra lo zio Vittorio e sua madre. Mentre in uno stato vagamente ipnotico seguiva il flusso di auto che si irreggimentava in direzione del centro, vide che tra loro due era passato qualcosa che conosceva: uno sguardo che lei e Corrado si erano scambiati nei momenti in cui, in mezzo agli altri, non potevano permettersi che quel frammento clandestino per comunicarsi il reciproco desiderio.
- Porca puttana... - pensò, osservandosi ancora con un'occhiata fuggevole nello specchietto e rivolgendola poi al padre, che con un sussulto si svegliava.
- Sarebbe pazzesco... - pensò Renata.
- Mi sono addormentato - disse il padre.
- Ah si ? - rispose lei fingendosi sorpresa - Non me ne ero accorta. Senti, qui mi sa che é in arrivo un altro temporale. Forse é meglio se rimandiamo la nostra passeggiata.
- Certo, certo - disse lui come rincuorato.
Arrivarono sotto casa e lei lo accompagnò al portone.
- Domani ti chiamo - disse. Lui la guardò tenendole una mano, senza rispondere.
- E' stata una bella giornata - disse lei - istruttiva - e rise.
Rise anche il padre e soggiunse " Mi raccomando ".
- Sta tranquillo. E' un segreto.
- Brava.
- Salutami Deianìra - disse ancora Renata con una smorfietta d'ironica complicità. Lui fece cenno di sì con una risatina e scomparve oltre il battente che si richiuse pesantemente.
Renata osservò perplessa il cielo e tornò alla macchina con un vago senso di languore.
L'intero pomeriggio era in attesa di essere affrontato con un impegno qualsiasi e lei non aveva voglia - in realtà le pareva di non avere soprattutto la forza - di prendere non una decisione, ma almeno una direzione.
Si sentiva svuotata, tranquilla: avrebbe potuto dormire, ma non certo lì, in macchina, sotto casa di suo padre.
Girò la chiavetta d'accensione e con un sospiro di volonterosa rassegnazione si avviò.
Raggiunse il centro e parcheggiò nel cortile interno dell'agenzia di viaggi di Corrado. Era l'ultimo posto dove avrebbe voluto andare ma era anche l'unico verso il quale si era sentita sospinta, dopo aver tentato svogliatamente la strada di casa.
Mirella sedeva sul bordo della scrivania, con la cornetta del telefono ancorata alla spalla e lo sguardo fluttuante sul monitor di un computer sul quale digitava complessi spostamenti di tabelle e diagrammi.
Rivolse a Renata un cenno ed un sorriso ammiccante e le fece un gesto per invitarla a sedere. Rimase ancora in ascolto poi concluse la telefonata con un'incomprensibile frase di commiato in tedesco e riagganciò.
- Racconti prima tu o racconto prima io ? - attaccò, rivolgendo a Renata uno sguardo da lupa.
- Che cosa ? - chiese Renata con stupore fiacco.
- Be' l'altra sera no ? Daniele ! Da Agostino, e dai !
- Daniele ? Chi é Daniele ?
- Ma come chi é! Quel tipo che lavora da voi ! Cos'é che é...un ingegnere mi pare no ?
- Del Poz ?
- E che ne so ! Sì... mi sa di sì, mica gli ho chiesto la carta d'identità.
Renata ricapitolò gli avvenimenti della serata e dubitò per un attimo della discrezione di Del Poz, ma il dubbio sfumò sulle parole roche di Mirella.
- Era rimasto in terrazzo con te no ? Ma non ti ricordi ? Vabbe' che eri un po' bevutella, ma insomma...
- No, no, ho capito. Del Poz. E allora ?
- Be', non so se avevi colto la situazione...-
- Sì, c'ero arrivata.
- Ecco. Poi lui é rimasto lì basito. E quando é rientrato sembrava uno zombie. Ho faticato per convincerlo a salire a bere una cosina quando mi ha accompagnata a casa. Deve essere uno di quelli non scopare dove mangi e quando s'é visto la moglie del capo che lo beccava in flagrante é andato in confusione. Cosa t'ha detto ?
- A me ? E quando ?
- Ma mentre eravate là fuori no ! Dopo che io sono rientrata. Siete stati lì almeno mezz'ora !
- Mah...nulla. Si é scusato.
Mirella se ne uscì con una delle sue risate profonde.
- Buona prestazione comunque - disse accendendosi uno di quei sigaretti lunghi e striminziti che fumava in continuazione.
- Ma cos'é, ebreo ? - chiese sbuffando il fumo di lato.
- Boh... - a Renata la domanda parve incongrua.
- No...siccome é circonciso, e ha sto cognome.
- E' valdostano - disse Renata - credo sia un cognome valdostano.
- Ah... - concluse la Tazzòli.
- Che fosse circonciso invece non lo sapevo - disse Renata ridendo.
- Notevole... - ammiccò Mirella con un distaccato assenso d'apprezzamento - ...veramente notevole. E tra l'altro deve essere un sentimentalone. Cos'é ? Sposato ?
- Non mi risulta - rispose Renata, distratta dal pensiero di zio Vittorio che si riaffacciava alla memoria.
- Perché io li riconosco subito quelli che schiattano dalla voglia ma si reprimono perché i sensi di colpa poi se li mangiano vivi. E lui é uno. Se non é sposato avrà una fidanzata da qualche parte. Tu non ne sai nulla ?
- Mirella io proprio non lo conosco. So che lavora da poco in azienda da Riccardo, ma l'avrò visto due volte nella vita. Cosa vuoi che ne sappia ! - mentì Renata.
La Tazzòli alzò le spalle sfumacchiando.
- Perché é un tipo che mi piace. Uno che quando si decide a mollare gli ormeggi é sfrenato, non so se mi spiego...
- Mah...a me pare una specie di culturista timido. Non capisco cosa ci trovi - mentì ancora Renata.
- E no cara! La prossima volta guardalo bene. Ha un culo splendido, due spalle così, ma é un fondant. Tenerissimo. Quando ce l'hai sopra abbracci un... non so...e ti tira su con due dita, ti mette dove vuole, ti infila con una delicatezza che non sai nemmeno tu...
Renata la interruppe con uno sbuffo.
- Sì, si, ti seguo, ma i dettagli un'altra volta eh ? Oggi proprio non é giornata...
La Tazzòli tacque, leggermente stupita, abituata com'era all'ascolto incondizionato che Renata offriva ai racconti minuziosi delle sue avventure.
- Scusami ma ho avuto una giornataccia. Prima o poi te la racconto, ma adesso vado...Corrado non c'é ?
- No, é fuori - disse Mirella.
- Salutamelo - concluse Renata. Si sporse a baciare la Tazzòli su una guancia ed uscì.
Seduta in macchina decise di tornare a casa, ingoiare un Tavor - cosa che non aveva mai fatto - e sistemare così la giornata. La prospettiva la incoraggiò e si mosse addirittura con un accenno d'allegria.
C'erano state le emozioni notturne di cinque giorni prima e quella cosa con Del Poz, che lei aveva provocato come un'indemoniata, e poi oggi, con suo padre: una giornata che avrebbe dovuto essere come scovare in fondo a un baule gli orsetti di pelouche dell'infanzia e che si era tramutata invece in un ginepraio, con la storia della Chiamberlando e quel tarlo che lei ora ricacciava in continuazione, dello zio Vittorio. Insomma, era esausta.
- Figlia dello zio Vittorio...- mormorò a bassa voce, guardandosi per l'ennesima volta, fuggevolmente, nel retrovisore.
All'improvviso vide nitidamente sua madre tuffarsi dagli scogli con quel bel volo pulito, ad angelo, che aveva imparato bambina, diceva lei, guardando i film di Esther Williams.
Sua madre era stata un'eccellente tuffatrice ed una nuotatrice da traversata della Manica.
Renata ricordò che se li trascinava appresso, lei e i fratelli, in nuotate interminabili, anche temerarie, e che loro seguivano come anatroccoli, fiduciosi e fierissimi.
Dopo quel tuffo sua madre era riemersa come una sirena e lo zio Vittorio l'aveva raggiunta. Renata rivide la loro risata muta, che scintillava d'acqua sotto il sole accecante che inonda il ricordo di tutte le giornate dell'infanzia.
Quei brandelli di memoria di loro due ora li ricuciva in un insieme che sembrava legittimare il suo sospetto.
Li ricordò uno accanto all'altra a bordo di un motoscafo, in un vecchio filmetto a 8 millimetri, che rivolgevano smorfie all'obbiettivo e si muovevano con gesti accelerati.
Il seno generoso di mamma, evidenziato dalle coppette a balconcino guarnite di pizzo dei bikini d'allora, premeva contro il braccio abbronzato dello zio Vittorio, e lei nascondeva il viso tra le mani, ridendo.
E ancora quella foto/cartolina in bianco e nero, con il rilievo, sul margine inferiore, della scritta che indicava nome e indirizzo del laboratorio fotografico.
Una foto notturna, scattata sulla terrazza di un locale affacciato sul mare.
In altre fotografie della stessa serata i suoi genitori, schierati con un gruppo d'amici, ridevano troppo con lo sguardo all'obbiettivo, ma in quella c'erano soltanto loro due. Ballavano uno slow
Di sua madre non si vedeva che la schiena, lasciata nuda dall'abito da sera, e un frammento di profilo, ma lo sguardo dello zio Vittorio - quello che chiaramente le rivolgeva e lei accoglieva - quello era uno sguardo d'amore.
E Renata scoprì con meraviglia non solo d'averlo sempre saputo, ma di aver saputo forse, per un impulso del sangue, anche qualcosa di più.
Di quella fotografia infatti, di cui esisteva un'unica copia, abbandonata in fondo a un cassetto della casa di Santa, lei si era appropriata alla fine dell’estate successiva, conservandola e scrutandola ogni tanto senza sapere perché.
Campeggiava ora al centro della pagina di un album che lei aveva realizzato con scrupolo compositivo, con tanto di indicazioni di date e luoghi.
Quella famosa sera poi lo zio Vittorio l'aveva davvero portata ad una festa.
Qualcosa come il compleanno di un amico, in un affollamento mondano dal quale Renata s'era lasciata al'inizio un poco intimidire, ma che poi le aveva offerto lo spunto d'inorgoglirsi per quegli sguardi e quei sorrisi che tutti riservavano a loro due: a quell'uomo biondo e abbronzato, con il fisico asciutto di un'adolescenza superata da poco, e a quella bambina con gli stessi capelli scandinavi di lui, gli stessi occhi dallo sguardo vulnerabile e misterioso.
Renata allora aveva sperato che molti di quelli che erano lì e non li conoscevano li scambiassero per fratello e sorella.
Lui l'aveva persino fatta ballare, su una pista che pareva di smalto, sotto lampade cinesi e luna, tra profumi di Guerlain e di macchia mediterranea.
- E' incredibile... - rimuginava Renata; ma se fosse stato vero, cosa di cui ormai si dava per certa, che cosa pensare di sua madre ?
Vada per l'amante, anche se lo zio Vittorio era molto più giovane di lei, ma farci addirittura un figlio. Che cosa voleva dire ?
Un giorno Benedetta Rimoldi, che era una moglie irreprensibile, madre di ben cinque marmocchi e, per quel che ne sapeva Renata, senza grilli per il capo, chiacchierando con lei a proposito di quella sua un po' anacronistica fertilità le aveva confessato che ne avrebbe desiderati almeno altri due.
" Ma mi piacerebbe farli con altri uomini. Che avessero padri diversi insomma".
Renata le aveva rivolto uno sguardo sbigottito e Benedetta aveva riso fino alle lacrime.
Proprio lei, innamorata di Guido da quando aveva quindici anni, e che probabilmente non era stata a letto con nessun altro uomo in vita sua.
Aveva detto che non sapeva perché ma che le sarebbe piaciuto. Renata si era insospettita, aveva indagato con buona dissimulazione per scoprire se ci fosse qualcuno in particolare con il quale intendesse generare, ma Benedetta si limitava a ridere, indifferente agli uomini tranne che a Guido che restava la luce dei suoi occhi, eppure tentata virtualmente di farsi possedere da un altro non per amore o per piacere ma, apparentemente, per mero istinto riproduttivo.
Arrivò a casa a pezzi, si scalzò nell'ingresso proiettando le scarpe con calci a parabola verso l'office e si lasciò cadere all'indietro su un divano del salone.
Gianna venne a sentire se ci fosse bisogno di qualcosa e Renata chiese di prepararle un caffe' all'americana.
Restò immobile per un po', le gambe allungate sui cuscini, le braccia intrecciate dietro il capo, a contemplare il soffitto, invitandosi ad alzarsi ed intraprendere qualcosa e rifiutando immediatamente l'invito, abbandonandosi sempre di più alla soddisfazione del sentirsi inutile.
Con il caffe' vinse l'abulìa che la inchiodava e si costrinse a cercare negli album che teneva impilati nei cassetti di un secretaire.
Trovò la fotografia che cercava e stette lì ad osservarla con occhi nuovi, incerta tra la commozione e l'incredulità.
- Altro che Sissy Spacek ... - pensò tra sé guardandosi sorridente a cavalcioni sulle spalle dello zio Vittorio, che rivolgeva l'identico sorriso alla macchina fotografica.
Era difficile escludere che quei due volti fossero la combinazione di elementi di uno stesso patrimonio genetico.
Del resto per Renata una conferma al dubbio non sarebbe venuta più: si rese conto di essere - contrariamente ai suoi fratelli - orfana, e da molti anni ormai.
Non poteva certo mettersi a progettare la riesumazione dei resti del povero zio Vittorio, per una di quelle cose tipo la prova del DNA come nei film americani, e tantomeno sconvolgere la vita della sua famiglia e di suo padre, sì, insomma, di quello che lei aveva sempre considerato e amato come suo padre.
Si trattava di un vero uragano cui lei stava facendo fronte immobile, con una tazza di caffe' in una mano e l'altra appoggiata su una fotografia che assurgeva ad intensità epifanica.
Non seppe spiegarselo ma si rese conto che il giorno dopo avrebbe probabilmente cercato di rintracciare Del Poz, contrariamente a quanto si era ripromessa, e che sicuramente avrebbe estromesso dalla sua vita Corrado, e che senza ombra di dubbio sarebbe stata per Riccardo la moglie esemplare di sempre e per sempre.
Avrebbe sottoposto Del Poz ad un'indagine che le permettesse di capire se avrebbe potuto provare per lui qualcosa che mettesse d'accordo il sentimento che doveva aver provato sua madre per lo zio Vittorio e quello ecumenico di Benedetta.
Se Del Poz non si fosse rivelato all'altezza avrebbe cercato altrove, sapendo esattamente, ora, chi stava cercando.
Perché anche a lei sarebbe piaciuto avere un figlio - un maschio questa volta - e da qualche parte nel mondo ci doveva essere il padre, ignaro ancora di entrare in quel momento in un progetto così singolare.
Dubitava, ma non si sentiva di escludere, che potesse trattarsi di Del Poz.
Corrado aveva fatto il suo tempo; fiacco e passivo aveva ricoperto con ammirevole discrezione il ruolo di una specie di vibratore, null'altro.
Renata si osservò con affetto nell'immagine che la ritraeva bambina sulle spalle di suo padre: considerò le mani di lui strette con delicatezza intorno alle sue caviglie esili; con un fremito d'imbarazzo pensò a lui e sua madre in un letto, intenti ad inventarsi lei.
Riccardo non avrebbe assolutamente potuto entrare in questo disegno: era l'uomo che aveva sposato quando non era che una ragazzina e cui riservava l'affetto incondizionato che si nutre per un fratello. Era il marito accanto al quale si sentiva con grande serenità d'invecchiare, padre affettuosissimo di due figlie invidiabili. Ma ora Renata doveva fare i conti con due giovani, dietro quella finestra di destra proprio sopra l'ingresso d'un edificio che pareva avere solo facciata.
Due che si erano ritrovati vecchi a finire quel lavoro che non avevano avuto il coraggio di ultimare - o che avevano avuto il buon senso di non ultimare, chissà - quando era il momento.
E doveva misurarsi con sua madre che al contrario si era tuffata in un'avventura dalle conseguenze definitive.
Con comportamenti diversi si erano concessi qualcosa per sé soltanto, ambedue però con l'accortezza che quella concessione non divenisse ragione di sofferenza per i familiari.
Renata non ricordava un litigio tra i suoi genitori: a pensarli uno accanto all'altra non aveva che il ritratto di un affiatamento che aveva sempre cercato di replicare con Riccardo.
Eppure.
Chiuse l'album pensando che sarebbero partiti la settimana successiva per la loro vacanza "da sposini", come diceva lui facendole montare il nervoso.
Là, o altrove, dopo, avrebbe dovuto mettersi a disposizione, annusare l'aria, aprire il cuore, essere pronta.
- Pronta per cosa ? - rimuginava tra sé in attesa che l'acqua raggiungesse nella vasca il livello sufficiente per azionare l'idromassaggio.
- A innamorarsi, suppongo - rispose dopo un po', rivolta a sé stessa nello specchio che si andava appannando. E fece in tempo a sorridersi soddisfatta.
dicembre 1995
Decise con fulminea risolutezza di liberarsene, troncare, dissuadere. La figura di Corrado veleggiò opaca sul suo burrascoso orizzonte immaginario, ma a lui riservò una possibilità. In fondo aveva da perdere quanto lei, e più di lei era terrorizzato dall'idea che qualcosa della loro relazione dovesse minimamente trapelare, senza contare l'incommensurabile vantaggio dell'assoluta assenza di coinvolgimento affettivo da parte di ambedue.
- Sono una troia - pensò di sé con coraggiosa allegria e decise che all'indomani sarebbe passata in agenzia all'ora di colazione, e se fosse stata un'altra giornata di pioggia avrebbe indossato l'impermeabile senza nulla sotto, come gli esibizionisti delle barzellette illustrate in quei vecchi numeri di Playboy che Riccardo collezionava fanaticamente.
Lo avrebbe spalancato davanti alla scrivania di Corrado; da fargli venire un colpo.
Mentre Renata si trastullava con questa fantasia spingendosi pigramente verso ipotesi impraticabili, fino a scopare in vetrina, suo padre si era assopito.
Anche nel sonno il suo viso mostrava i lineamenti di un sereno distacco aristocratico, lo stesso di sua sorella Marina, che del padre era una fedele replica al femminile, così come del resto Carlo era la copia della madre e Giulio, indeciso, precario, altalenante, non era che l'ibrido meno riuscito. La composizione dei caratteri dei genitori nel suo caso si era squilibrata, seguendo un disegno balzano.
Renata prese a riflettere su quest'aspetto: sull'incontrollabilità dell'indirizzarsi dei patrimoni genetici, sul caotico e microscopico andirivieni del loro coniugarsi. E come per assecondare un richiamo si sporse un poco di lato a guardarsi nello specchietto.
Ciò che era sempre stato noto, e considerato blandamente da tutti come una piacevole stravaganza, si rifletté ora nel rettangolo del retrovisore come una rivelazione.
Lei non assomigliava né a suo padre né a sua madre.
Dicevano che della madre avesse le famose invidiabili gambe. Per il resto nulla.
Quand'era bambina amici e parenti dicevano " Ma guarda come assomiglia allo zio Vittorio " che poi non era davvero uno zio ma un amico di famiglia, morto in un incidente quando lei era ancora adolescente.
Dalla sua morte, probabilmente nel timore di incorrere in accostamenti macabri, tutti avevano smesso di sottolineare quella somiglianza.
Renata si riosservò con l'attenzione che si riserva ad uno sconosciuto attraente: il taglio un po' obliquo degli occhi che garantiva quella sua perenne espressione di vulnerabile stupore, l'accenno di efelidi su una carnagione lattea, un nasetto all'insù che non si rintracciava neppure risalendo ai bisnonni, i capelli biondi in una famiglia di castani irriducibili. E rivide su quel terrazzo a Santa Margherita lo zio Vittorio seduto sul muretto che sorridendo diceva:
- Non é nulla, non dar retta. Stasera ti porto io a una festa - a lei decenne, in lacrime per una delle rarissime occasioni di contrasto con padre e madre.
Non ricordava le ragioni del pianto, ma quella serata sì.
Lo zio Vittorio si era imposto con facilità sui genitori: la mamma aveva tentato un po' di disorientata resistenza, suo padre si era rapidamente disinteressato della cosa.
Renata rivide all'improvviso, o comunque ebbe la pretesa assoluta di ricordare, lo sguardo che era intercorso tra lo zio Vittorio e sua madre. Mentre in uno stato vagamente ipnotico seguiva il flusso di auto che si irreggimentava in direzione del centro, vide che tra loro due era passato qualcosa che conosceva: uno sguardo che lei e Corrado si erano scambiati nei momenti in cui, in mezzo agli altri, non potevano permettersi che quel frammento clandestino per comunicarsi il reciproco desiderio.
- Porca puttana... - pensò, osservandosi ancora con un'occhiata fuggevole nello specchietto e rivolgendola poi al padre, che con un sussulto si svegliava.
- Sarebbe pazzesco... - pensò Renata.
- Mi sono addormentato - disse il padre.
- Ah si ? - rispose lei fingendosi sorpresa - Non me ne ero accorta. Senti, qui mi sa che é in arrivo un altro temporale. Forse é meglio se rimandiamo la nostra passeggiata.
- Certo, certo - disse lui come rincuorato.
Arrivarono sotto casa e lei lo accompagnò al portone.
- Domani ti chiamo - disse. Lui la guardò tenendole una mano, senza rispondere.
- E' stata una bella giornata - disse lei - istruttiva - e rise.
Rise anche il padre e soggiunse " Mi raccomando ".
- Sta tranquillo. E' un segreto.
- Brava.
- Salutami Deianìra - disse ancora Renata con una smorfietta d'ironica complicità. Lui fece cenno di sì con una risatina e scomparve oltre il battente che si richiuse pesantemente.
Renata osservò perplessa il cielo e tornò alla macchina con un vago senso di languore.
L'intero pomeriggio era in attesa di essere affrontato con un impegno qualsiasi e lei non aveva voglia - in realtà le pareva di non avere soprattutto la forza - di prendere non una decisione, ma almeno una direzione.
Si sentiva svuotata, tranquilla: avrebbe potuto dormire, ma non certo lì, in macchina, sotto casa di suo padre.
Girò la chiavetta d'accensione e con un sospiro di volonterosa rassegnazione si avviò.
Raggiunse il centro e parcheggiò nel cortile interno dell'agenzia di viaggi di Corrado. Era l'ultimo posto dove avrebbe voluto andare ma era anche l'unico verso il quale si era sentita sospinta, dopo aver tentato svogliatamente la strada di casa.
Mirella sedeva sul bordo della scrivania, con la cornetta del telefono ancorata alla spalla e lo sguardo fluttuante sul monitor di un computer sul quale digitava complessi spostamenti di tabelle e diagrammi.
Rivolse a Renata un cenno ed un sorriso ammiccante e le fece un gesto per invitarla a sedere. Rimase ancora in ascolto poi concluse la telefonata con un'incomprensibile frase di commiato in tedesco e riagganciò.
- Racconti prima tu o racconto prima io ? - attaccò, rivolgendo a Renata uno sguardo da lupa.
- Che cosa ? - chiese Renata con stupore fiacco.
- Be' l'altra sera no ? Daniele ! Da Agostino, e dai !
- Daniele ? Chi é Daniele ?
- Ma come chi é! Quel tipo che lavora da voi ! Cos'é che é...un ingegnere mi pare no ?
- Del Poz ?
- E che ne so ! Sì... mi sa di sì, mica gli ho chiesto la carta d'identità.
Renata ricapitolò gli avvenimenti della serata e dubitò per un attimo della discrezione di Del Poz, ma il dubbio sfumò sulle parole roche di Mirella.
- Era rimasto in terrazzo con te no ? Ma non ti ricordi ? Vabbe' che eri un po' bevutella, ma insomma...
- No, no, ho capito. Del Poz. E allora ?
- Be', non so se avevi colto la situazione...-
- Sì, c'ero arrivata.
- Ecco. Poi lui é rimasto lì basito. E quando é rientrato sembrava uno zombie. Ho faticato per convincerlo a salire a bere una cosina quando mi ha accompagnata a casa. Deve essere uno di quelli non scopare dove mangi e quando s'é visto la moglie del capo che lo beccava in flagrante é andato in confusione. Cosa t'ha detto ?
- A me ? E quando ?
- Ma mentre eravate là fuori no ! Dopo che io sono rientrata. Siete stati lì almeno mezz'ora !
- Mah...nulla. Si é scusato.
Mirella se ne uscì con una delle sue risate profonde.
- Buona prestazione comunque - disse accendendosi uno di quei sigaretti lunghi e striminziti che fumava in continuazione.
- Ma cos'é, ebreo ? - chiese sbuffando il fumo di lato.
- Boh... - a Renata la domanda parve incongrua.
- No...siccome é circonciso, e ha sto cognome.
- E' valdostano - disse Renata - credo sia un cognome valdostano.
- Ah... - concluse la Tazzòli.
- Che fosse circonciso invece non lo sapevo - disse Renata ridendo.
- Notevole... - ammiccò Mirella con un distaccato assenso d'apprezzamento - ...veramente notevole. E tra l'altro deve essere un sentimentalone. Cos'é ? Sposato ?
- Non mi risulta - rispose Renata, distratta dal pensiero di zio Vittorio che si riaffacciava alla memoria.
- Perché io li riconosco subito quelli che schiattano dalla voglia ma si reprimono perché i sensi di colpa poi se li mangiano vivi. E lui é uno. Se non é sposato avrà una fidanzata da qualche parte. Tu non ne sai nulla ?
- Mirella io proprio non lo conosco. So che lavora da poco in azienda da Riccardo, ma l'avrò visto due volte nella vita. Cosa vuoi che ne sappia ! - mentì Renata.
La Tazzòli alzò le spalle sfumacchiando.
- Perché é un tipo che mi piace. Uno che quando si decide a mollare gli ormeggi é sfrenato, non so se mi spiego...
- Mah...a me pare una specie di culturista timido. Non capisco cosa ci trovi - mentì ancora Renata.
- E no cara! La prossima volta guardalo bene. Ha un culo splendido, due spalle così, ma é un fondant. Tenerissimo. Quando ce l'hai sopra abbracci un... non so...e ti tira su con due dita, ti mette dove vuole, ti infila con una delicatezza che non sai nemmeno tu...
Renata la interruppe con uno sbuffo.
- Sì, si, ti seguo, ma i dettagli un'altra volta eh ? Oggi proprio non é giornata...
La Tazzòli tacque, leggermente stupita, abituata com'era all'ascolto incondizionato che Renata offriva ai racconti minuziosi delle sue avventure.
- Scusami ma ho avuto una giornataccia. Prima o poi te la racconto, ma adesso vado...Corrado non c'é ?
- No, é fuori - disse Mirella.
- Salutamelo - concluse Renata. Si sporse a baciare la Tazzòli su una guancia ed uscì.
Seduta in macchina decise di tornare a casa, ingoiare un Tavor - cosa che non aveva mai fatto - e sistemare così la giornata. La prospettiva la incoraggiò e si mosse addirittura con un accenno d'allegria.
C'erano state le emozioni notturne di cinque giorni prima e quella cosa con Del Poz, che lei aveva provocato come un'indemoniata, e poi oggi, con suo padre: una giornata che avrebbe dovuto essere come scovare in fondo a un baule gli orsetti di pelouche dell'infanzia e che si era tramutata invece in un ginepraio, con la storia della Chiamberlando e quel tarlo che lei ora ricacciava in continuazione, dello zio Vittorio. Insomma, era esausta.
- Figlia dello zio Vittorio...- mormorò a bassa voce, guardandosi per l'ennesima volta, fuggevolmente, nel retrovisore.
All'improvviso vide nitidamente sua madre tuffarsi dagli scogli con quel bel volo pulito, ad angelo, che aveva imparato bambina, diceva lei, guardando i film di Esther Williams.
Sua madre era stata un'eccellente tuffatrice ed una nuotatrice da traversata della Manica.
Renata ricordò che se li trascinava appresso, lei e i fratelli, in nuotate interminabili, anche temerarie, e che loro seguivano come anatroccoli, fiduciosi e fierissimi.
Dopo quel tuffo sua madre era riemersa come una sirena e lo zio Vittorio l'aveva raggiunta. Renata rivide la loro risata muta, che scintillava d'acqua sotto il sole accecante che inonda il ricordo di tutte le giornate dell'infanzia.
Quei brandelli di memoria di loro due ora li ricuciva in un insieme che sembrava legittimare il suo sospetto.
Li ricordò uno accanto all'altra a bordo di un motoscafo, in un vecchio filmetto a 8 millimetri, che rivolgevano smorfie all'obbiettivo e si muovevano con gesti accelerati.
Il seno generoso di mamma, evidenziato dalle coppette a balconcino guarnite di pizzo dei bikini d'allora, premeva contro il braccio abbronzato dello zio Vittorio, e lei nascondeva il viso tra le mani, ridendo.
E ancora quella foto/cartolina in bianco e nero, con il rilievo, sul margine inferiore, della scritta che indicava nome e indirizzo del laboratorio fotografico.
Una foto notturna, scattata sulla terrazza di un locale affacciato sul mare.
In altre fotografie della stessa serata i suoi genitori, schierati con un gruppo d'amici, ridevano troppo con lo sguardo all'obbiettivo, ma in quella c'erano soltanto loro due. Ballavano uno slow
Di sua madre non si vedeva che la schiena, lasciata nuda dall'abito da sera, e un frammento di profilo, ma lo sguardo dello zio Vittorio - quello che chiaramente le rivolgeva e lei accoglieva - quello era uno sguardo d'amore.
E Renata scoprì con meraviglia non solo d'averlo sempre saputo, ma di aver saputo forse, per un impulso del sangue, anche qualcosa di più.
Di quella fotografia infatti, di cui esisteva un'unica copia, abbandonata in fondo a un cassetto della casa di Santa, lei si era appropriata alla fine dell’estate successiva, conservandola e scrutandola ogni tanto senza sapere perché.
Campeggiava ora al centro della pagina di un album che lei aveva realizzato con scrupolo compositivo, con tanto di indicazioni di date e luoghi.
Quella famosa sera poi lo zio Vittorio l'aveva davvero portata ad una festa.
Qualcosa come il compleanno di un amico, in un affollamento mondano dal quale Renata s'era lasciata al'inizio un poco intimidire, ma che poi le aveva offerto lo spunto d'inorgoglirsi per quegli sguardi e quei sorrisi che tutti riservavano a loro due: a quell'uomo biondo e abbronzato, con il fisico asciutto di un'adolescenza superata da poco, e a quella bambina con gli stessi capelli scandinavi di lui, gli stessi occhi dallo sguardo vulnerabile e misterioso.
Renata allora aveva sperato che molti di quelli che erano lì e non li conoscevano li scambiassero per fratello e sorella.
Lui l'aveva persino fatta ballare, su una pista che pareva di smalto, sotto lampade cinesi e luna, tra profumi di Guerlain e di macchia mediterranea.
- E' incredibile... - rimuginava Renata; ma se fosse stato vero, cosa di cui ormai si dava per certa, che cosa pensare di sua madre ?
Vada per l'amante, anche se lo zio Vittorio era molto più giovane di lei, ma farci addirittura un figlio. Che cosa voleva dire ?
Un giorno Benedetta Rimoldi, che era una moglie irreprensibile, madre di ben cinque marmocchi e, per quel che ne sapeva Renata, senza grilli per il capo, chiacchierando con lei a proposito di quella sua un po' anacronistica fertilità le aveva confessato che ne avrebbe desiderati almeno altri due.
" Ma mi piacerebbe farli con altri uomini. Che avessero padri diversi insomma".
Renata le aveva rivolto uno sguardo sbigottito e Benedetta aveva riso fino alle lacrime.
Proprio lei, innamorata di Guido da quando aveva quindici anni, e che probabilmente non era stata a letto con nessun altro uomo in vita sua.
Aveva detto che non sapeva perché ma che le sarebbe piaciuto. Renata si era insospettita, aveva indagato con buona dissimulazione per scoprire se ci fosse qualcuno in particolare con il quale intendesse generare, ma Benedetta si limitava a ridere, indifferente agli uomini tranne che a Guido che restava la luce dei suoi occhi, eppure tentata virtualmente di farsi possedere da un altro non per amore o per piacere ma, apparentemente, per mero istinto riproduttivo.
Arrivò a casa a pezzi, si scalzò nell'ingresso proiettando le scarpe con calci a parabola verso l'office e si lasciò cadere all'indietro su un divano del salone.
Gianna venne a sentire se ci fosse bisogno di qualcosa e Renata chiese di prepararle un caffe' all'americana.
Restò immobile per un po', le gambe allungate sui cuscini, le braccia intrecciate dietro il capo, a contemplare il soffitto, invitandosi ad alzarsi ed intraprendere qualcosa e rifiutando immediatamente l'invito, abbandonandosi sempre di più alla soddisfazione del sentirsi inutile.
Con il caffe' vinse l'abulìa che la inchiodava e si costrinse a cercare negli album che teneva impilati nei cassetti di un secretaire.
Trovò la fotografia che cercava e stette lì ad osservarla con occhi nuovi, incerta tra la commozione e l'incredulità.
- Altro che Sissy Spacek ... - pensò tra sé guardandosi sorridente a cavalcioni sulle spalle dello zio Vittorio, che rivolgeva l'identico sorriso alla macchina fotografica.
Era difficile escludere che quei due volti fossero la combinazione di elementi di uno stesso patrimonio genetico.
Del resto per Renata una conferma al dubbio non sarebbe venuta più: si rese conto di essere - contrariamente ai suoi fratelli - orfana, e da molti anni ormai.
Non poteva certo mettersi a progettare la riesumazione dei resti del povero zio Vittorio, per una di quelle cose tipo la prova del DNA come nei film americani, e tantomeno sconvolgere la vita della sua famiglia e di suo padre, sì, insomma, di quello che lei aveva sempre considerato e amato come suo padre.
Si trattava di un vero uragano cui lei stava facendo fronte immobile, con una tazza di caffe' in una mano e l'altra appoggiata su una fotografia che assurgeva ad intensità epifanica.
Non seppe spiegarselo ma si rese conto che il giorno dopo avrebbe probabilmente cercato di rintracciare Del Poz, contrariamente a quanto si era ripromessa, e che sicuramente avrebbe estromesso dalla sua vita Corrado, e che senza ombra di dubbio sarebbe stata per Riccardo la moglie esemplare di sempre e per sempre.
Avrebbe sottoposto Del Poz ad un'indagine che le permettesse di capire se avrebbe potuto provare per lui qualcosa che mettesse d'accordo il sentimento che doveva aver provato sua madre per lo zio Vittorio e quello ecumenico di Benedetta.
Se Del Poz non si fosse rivelato all'altezza avrebbe cercato altrove, sapendo esattamente, ora, chi stava cercando.
Perché anche a lei sarebbe piaciuto avere un figlio - un maschio questa volta - e da qualche parte nel mondo ci doveva essere il padre, ignaro ancora di entrare in quel momento in un progetto così singolare.
Dubitava, ma non si sentiva di escludere, che potesse trattarsi di Del Poz.
Corrado aveva fatto il suo tempo; fiacco e passivo aveva ricoperto con ammirevole discrezione il ruolo di una specie di vibratore, null'altro.
Renata si osservò con affetto nell'immagine che la ritraeva bambina sulle spalle di suo padre: considerò le mani di lui strette con delicatezza intorno alle sue caviglie esili; con un fremito d'imbarazzo pensò a lui e sua madre in un letto, intenti ad inventarsi lei.
Riccardo non avrebbe assolutamente potuto entrare in questo disegno: era l'uomo che aveva sposato quando non era che una ragazzina e cui riservava l'affetto incondizionato che si nutre per un fratello. Era il marito accanto al quale si sentiva con grande serenità d'invecchiare, padre affettuosissimo di due figlie invidiabili. Ma ora Renata doveva fare i conti con due giovani, dietro quella finestra di destra proprio sopra l'ingresso d'un edificio che pareva avere solo facciata.
Due che si erano ritrovati vecchi a finire quel lavoro che non avevano avuto il coraggio di ultimare - o che avevano avuto il buon senso di non ultimare, chissà - quando era il momento.
E doveva misurarsi con sua madre che al contrario si era tuffata in un'avventura dalle conseguenze definitive.
Con comportamenti diversi si erano concessi qualcosa per sé soltanto, ambedue però con l'accortezza che quella concessione non divenisse ragione di sofferenza per i familiari.
Renata non ricordava un litigio tra i suoi genitori: a pensarli uno accanto all'altra non aveva che il ritratto di un affiatamento che aveva sempre cercato di replicare con Riccardo.
Eppure.
Chiuse l'album pensando che sarebbero partiti la settimana successiva per la loro vacanza "da sposini", come diceva lui facendole montare il nervoso.
Là, o altrove, dopo, avrebbe dovuto mettersi a disposizione, annusare l'aria, aprire il cuore, essere pronta.
- Pronta per cosa ? - rimuginava tra sé in attesa che l'acqua raggiungesse nella vasca il livello sufficiente per azionare l'idromassaggio.
- A innamorarsi, suppongo - rispose dopo un po', rivolta a sé stessa nello specchio che si andava appannando. E fece in tempo a sorridersi soddisfatta.
dicembre 1995
mercoledì 25 aprile 2012
LE FINESTRE DI DESTRA, PROPRIO SOPRA L'INGRESSO (terza parte)
Alle undici del mattino di quel giovedì il padre comparve socchiudendo con un accenno di fatica il pesante battente d'ingresso del vecchio palazzo del centro, dove era andato ad abitare dopo la morte della moglie.
Indossava il vecchio Burberry's color tortora elegantemente gualcito ed una coppola irlandese di tweed irsuto: perfetto per quella giornata di pioggetta nebbiosa, pensò con compiacimento Renata, che aveva sempre ammirato nel padre la discrezione naturale dell'eleganza.
Lui sedette, lei richiuse la portiera sulla sua incertezza di anziano.
- Tempo di merda ... - considerò lei senza animosità. Lui concesse un assenso annuito, guardandosi attorno.
- Giapponese - mormorò, tamburellando sul cruscotto. Renata conosceva il principio d'autarchia quasi ossessiva cui il padre era vincolato riguardo alle automobili.
- Riccardo dice che sono più affidabili - si affrettò a replicare con il tono di chi cerca una giustificazione. Il padre annuì ancora, con un sorrisetto di sufficienza.
- E costano anche meno - aggiunse lei. Lui tacque, saggiando l'escursione della cintura di sicurezza.
- Le piccole come stanno ? - chiese.
- Bene - rispose lei.
- E il ciula ?
Il padre di Renata aveva sempre nutrito nei confronti del genero un bonario disprezzo, irridendo con sarcasmi flemmatici quel suo affannarsi in ruoli manageriali recitati con l'enfasi di un filodrammatico e con equivalente competenza; fortunatamente il timone dell'azienda era saldamente nelle mani d'una sorella nubile e del fratellastro Gherardo, due scorbutici appassionati soltanto al lavoro e, si vociferava, a certe loro pratiche incestuose. Sta di fatto che non frequentavano nessuno, trottavano ombrosi da una parte all'altra del globo a metter su cantieri e cedevano volentieri a Riccardo, alla sua testa "piena di piume" come diceva il padre di Renata, il ruolo cangiante ed approssimativo di responsabile del settore "Aree turistiche".
- Ha un consiglio di amministrazione - rispose Renata, glissando sull'epiteto inoffensivo che il padre gli aveva affibbiato.
- Bene - concluse lui.
Imboccarono la tangenziale e viaggiarono per un po' in silenzio, circondati da un flusso di automobili ininterrotto e rallentato dalla pioggerella, che non cessava di ovattare d'umidità il paesaggio mesto della periferia.
- Ho sentito Giulio la settimana scorsa - disse Renata, cercando di farlo con entusiasmo. Il padre rispose con un silenzio distratto. Giulio aveva rappresentato per la madre, e quindi di riflesso per lui, una sconfitta cocente, un tradimento: era stato l'unico dei figli a non essersi assestato in un'area di censo e livello sociale adeguati.
Non aveva terminato gli studi, non aveva accettato prima i suggerimenti e poi le occasioni professionali che la famiglia avevano messo a sua disposizione, inseguendo invece fole infantili d'artista, arrabattandosi prima attorno a chitarre e tastiere, poi a tele e pennelli, per approdare alla fine alla ribalta mortificante d'un cabaret troppo vicino all'avanspettacolo, esibendosi come animatore in villaggi-vacanze e su reti televisive regionali.
Come ciliegina sul gelato aveva collocato una moglie della Guadalupa, una mulatta di bellezza ferina che oltre a tenere una sconclusionata rubrica di negromanzia e divinazione per la stessa emittente per la quale lui faceva lo sciocco, si offriva in spogliarello per la sigla conclusiva delle trasmissioni.
Due marmocchietti, uno nero come il carbone ed uno quasi bianco, erano venuti ad allietare il menage.
Per la madre di Renata tutto ciò aveva rappresentato, fino alle fine devastata dei suoi giorni, una ferita mai rimarginata che il padre, in memoria sua, leniva con l'uso di un'accurata distrazione, accettandone l'esistenza solo durante le canoniche riunioni in prossimità delle feste pasquali e natalizie. Si trattava di pranzi di famiglia organizzati della figlia Marina, trionfalmente accasata con uno dei più accreditati penalisti della città, cui partecipavano con sommesso entusiasmo il primogenito Carlo, primario a Ferrara, con la moglie Doretta, opulenta matrona sterile che riversava sui nipoti attenzioni soffocanti, Renata con Riccardo Ottavia e Federica e, naturalmente, Giulio con la sua squadra meticcia.
- Cosa fa ? - chiese finalmente il padre quando il traffico si fece più scorrevole, mano a mano che si allontanavano dalla città.
- In che senso ?
- Cosa fa, cosa combina ?
- Mah...credo il solito. Non abbiamo parlato di quello...
- E di cosa ?
Renata non voleva confermare al padre il sospetto che Giulio si facesse vivo solo in caso di necessità, anche se non allarmanti. Questa volta l'aveva chiamata per avere in prestito la casa al mare per una settimana.
" I ragazzini hanno la bronchite che gli diventa cronica in questo posto di merda !" aveva detto con il perenne tono di ribrezzo che adottava nei colloqui familiari.
Renata aveva naturalmente risposto di sì, pur sapendo che quella settimana sarebbe diventata un mese, che in capo a quel mese una squadra di vigorose donne delle pulizie avrebbe avuto un gran daffare per vincere le incrostazioni in cucina, le macchie sui divani, le ditate sugli stipiti, gli odori impregnanti di zuppa creola; ma non era mai stata capace di dirgli di no, come sapevano fare Carlo e Marina, che si limitavano a passargli un assegno due volte l'anno rifiutando ogni suo tentativo di ottenere colloqui od incontri, in ossequio all'ostracismo imposto dalla madre, quando ancora era in vita.
- Mah... abbiamo parlato dei figli, cose così... - rispose al padre, che per parte sua tacque.
- Sai cosa si fa ? - aggiunse lei simulando un'intuizione improvvisa - Facciamo il giro dalla parte del lago ! - concluse con un eccesso di entusiasmo.
- Perché ? - chiese il padre con la consueta indifferenza.
- Come perché ? Così, un'idea... facciamo il giro del traforo e passiamo dalla strada di sopra. Sarà un'eternità che non la faccio.
Il padre abbozzò un gesto d'assenso perplesso.
- E' più lunga... - si limitò a mormorare.
- Vabé chissenefrega no, papà ? Mica nessuno ci corre dietro. Pensavo che ti facesse piacere ripassare dal quelle parti...
- Perché ?
- Ma come perché ! Ci sei stato tanto di quel tempo laggiù !
Renata attenuò l'irritazione che era affiorata di fronte all'irriducibile indifferenza del padre.
Si voltò a studiarne i lineamenti, sperando di scoprirvi un segno d'emozione dissimulata all'idea di ripercorrere l'itinerario che aveva contraddistinto la quotidianità della sua vita di lavoro, ma lui manteneva uno sguardo neutro sul parabrezza crivellato di goccioloni.
- Preferisci che non ci passiamo ? Se preferisci dimmelo, non voglio mica metterti a disagio...
- A disagio ?
Questa volta fu il padre a voltarsi verso di lei per scrutarla.
Renata aveva avuto per un momento il sospetto che quel percorso per suo padre potesse essere legato a ricordi dolorosi, alla memoria della scomparsa della moglie, ai fantasmi di un mondo di lavoro che, a quel che le risultava dai sentito dire, era gremito di invidie, sgambetti, crudeltà e meschinità frustranti, e si diede della sciocca per non esserci arrivata prima. Per un'egoistica idea di nostalgia stava per coinvolgerlo in un percorso a ritroso che forse lo avrebbe addolorato, o anche peggio, tenendo conto dell'età.
- Perché disagio ? - insistette lui - Mi fa piacere, solo pensavo che con la pioggia tutto questo giro... per te che devi guidare, intendo. Per me é lo stesso.
Renata si sentiva disorientata.
- Ma figurati ! E' che pensavo di passare davanti allo stabilimento, a casa nostra... saranno vent'anni che non li rivedo. E tu ?
- Più o meno ...
- E non é che poi ti emozioni ?
Il padre sorrise scuotendo la testa.
- Se mi portassi a pranzo alla Tour d'Argent e ci ritrovassi tua madre e gli amici d'allora sì, ma qui...
E fece un gesto modesto con la mano, ad indicare genericamente quella periferia che rimaneva tale pur essendo già campagna, appiattita sotto la pioggia come un animale esausto.
- Già... non é un granché - ammise Renata, vagamente delusa dall'emotività controllata di lui.
Seguirono per un tratto il lungolago deserto osservando distrattamente le barche capovolte sulla riva, gli hotels chiusi per il fuori stagione, la linea della sponda opposta confusa tra i canneti.
Renata sfrecciò lungo il rettilineo della provinciale senza neppure un accenno a rallentare in prossimità del bivio che introduceva al viale dove c'era la loro vecchia casa.
Non sapeva dirsi se quell'opaca reattività del padre la irritasse o la tranquillizzasse, poi si rese conto che ambedue gli stati d'animo convivevano, alternandosi.
Lo avrebbe scosso volentieri dicendogli - Ma come ? Io ti porto in punta di piedi, piena di riguardi e di cautele, sulle tracce del tuo passato, unica tra i tuoi figli ad avere questa sensibilità, dopo essermi tormentata nell'indecisione se farlo o no, terrorizzata all'idea che l'emozione ti potesse ferire e nello stesso tempo eccitata come una bambina che fa il primo regalo con i soldi del salvadanaio, e tu mi ricompensi con un menefreghismo totale, con i tuoi sorrisetti di compiacenza e le battutine brillanti, come se di qui ci fossi passato ieri, come se qui non ci fosse sepolta metà della tua vita. Ma come ? -
E nello stesso tempo il fatto che lui non fosse scoppiato in un pianto imbarazzante, non si fosse fatto venire le palpitazioni, non si fosse neppure chiuso in un bozzolo di tristezza malinconica l'aveva risollevata.
Al bivio il padre si era sporto un poco in avanti dicendo "Era lì ?" e Renata aveva fatto cenno di sì, chiedendo con una risatina forzata se volesse andare in pellegrinaggio.
- No, no - aveva risposto lui; e a lei era parso che lo avesse detto con un accenno di delusione infantile. Alla fine si risolse a considerare che gli ottant'anni fossero l'anestetico che lo salvaguardava dagli affanni della nostalgia; non arrivò a credere che si trattasse di un'avvisaglia di rimbambimento ma si preparò all'idea.
Passarono di fronte allo stabilimento e lui disse che sapeva che c'era stato un cambio di gestione; disse che lo aveva letto sull'Informatore Industriale. Renata rispose che l'insegna era orribile e lui alzò le spalle. Lei aggiunse che illuminata era ancora peggio e lui chiese " E tu che ne sai ?"
- Lo immagino - aveva risposto lei dopo un istante di smarrimento. Rallentando di fronte all'ingresso si chinò un poco in avanti gettando uno sguardo attraverso il parabrezza.
- Il tuo ufficio era quello no ?
- Sì.
Il padre aveva alzato un dito con un impercettibile tremito senile.
- Quelle due finestre a destra, proprio sopra l'ingresso.
- Me lo ricordo benissimo. Vuoi fermarti ?
- No, no, non é il caso. Grazie comunque...
Il padre rispondeva con un tono di scusa che commosse Renata, costringendola al silenzio. Poi gli anni trascorsi e i pensieri di ambedue su di essi restarono indietro, più o meno al limite del muro in cemento che delimitava l'area dello stabilimento.
Renata per un attimo ebbe la tentazione di chiedere al padre di parlarne, di ripercorrere un poco insieme quel tempo che per lei era confuso dalle dimenticanze dell'infanzia ma che per lui doveva essere limpido nel ricordo.
Per una di quelle infinitesimali frazioni di tempo di cui approfittano le intuizioni per manifestarsi pensò che era l'ultima occasione per sapere qualcosa di più di sé e della sua famiglia. E la chiarezza inesorabile dell'eventualità la fece soccombere, costringendola a ricacciare tutto frettolosamente sotto un affanno di pensieri banali chiamati in soccorso, come quello di ricordarsi di telefonare al dentista per un appuntamento per Federica, di invitare a cena la cugina Ale con il nuovo fidanzato, combinare di vedere Corrado, e Del Poz; farsi scopare da Del Poz pensò con chiarezza, senza vergogna anche se accanto a quell'idea restava il pensiero vago, ora spogliato della pena, che quell'occasione di sapere di suo padre, di sua madre, dei suoi fratelli, di dialogare e scoprire piccole basilari verità, sfumava definitivamente.
-Ma guarda che stronzo ! - imprecò rivolta al conducente di un motocarro che svoltò a sinistra davanti a loro senza segnalare.
Il padre si era leggermente irrigidito nel gesto della frenata ma lei era sgusciata via con manovra agile, senza neppure sollevare il piede dall'acceleratore.
Arrivarono alla “Aquila Reale” mentre uno squarcio di cielo limpido si incuneava tra la nuvolaglia gravida d'acqua. Erano i primi, vuoi per l'orario - era da poco passato mezzogiorno - vuoi per via del giorno feriale e piovoso.
Ebbero il tavolo migliore, accanto ad una vetrata affacciata verso le montagne che erano completamente occultate dal grigio nebbioso, e attesero pazienti l'avvicendarsi delle portate chiacchierando indifferentemente delle loro lineari quotidianità; il padre seppe farla ridere descrivendo con pacata ironia le piccole manie della signora Chiamberlando. Renata si chiese come avrebbe reagito se all'improvviso lei gli avesse confessato " Ho un amante, anzi da ieri sera due. E mi servono solo per il sesso. Sono una specie di ninfomane, non so controllarmi."
Lui assaporava i cibi con calma, osservando in modo saltuario i rappresentanti di commercio che erano entrati rumorosamente in sala quando loro due erano già a metà del pasto, e che ora manifestavano a tratti la loro presenza con esplosioni di risa.
Renata cercò d'immaginare se lui, o addirittura sua madre, avessero potuto avere un amante.
Per quel che ne sapeva dovevano aver vissuto una fase fiammeggiante nei primi anni di matrimonio - lo testimoniavano i primi tre figli nati in poco più di due anni e mezzo e le foto d'allora che li ritraevano sempre accanto, sempre illuminati da sorrisi di beatitudine: lui un bell'uomo con un'allure anglosassone e lei una bella donna, carnosa e lattea come richiedeva l'estetica dell'epoca.
Il seguito era stato contraddistinto da una pacificata comunione di radicali differenze caratteriali.
Forse più lei di lui poteva aver cercato in altri uomini uno sfogo, la soddisfazione di sentirsi corteggiata, lei sempre così ansiosa di piacere, di ricevere consensi.
Se qualcosa era accaduto era comunque ormai impossibile venirne a conoscenza: quasi certamente neppure lui avrebbe potuto rispondere.
- Da quant'é che la Chiamberlando si occupa della casa ? - chiese soprapensiero.
- Da quando é mancata la mamma - rispose lui.
- Accidenti ! Così tanto ? Non mi ricordavo che ci fosse fin dall'inizio - disse Renata cercando di ricapitolare quegli anni senza riuscirci.
- Anche da prima - aggiunse il padre - Era stata mia segretaria per un certo periodo, più o meno quando abitavamo in corso Cavour, non so se ricordi...Io allora durante la settimana stavo alla Betulla.
Renata annuì. La Betulla era il nome de loro cottage. Lei non l'aveva mai chiamata così; non le era mai piaciuta l'idea di dare dei nomi alle case.
- Allora era molto giovane, molto diversa da come la vedi adesso.
- Chi ? la Chiamberlando ?
Il padre annuì sorridendo.
- Che tipo era ? - chiese Renata.
- Mah... un po' confuso direi... si vestiva in modo appariscente, sempre molto truccata, con abiti aderenti, tacchi alti, sai, cose così.
- La Chiamberlando ? - Renata era sbalordita.
- Già. Mi rendo conto che oggi può sembrare impossibile, ma ostentava proprio. Gli impiegati le ronzavano tutti intorno, anche se va detto che lei era assolutamente irreprensibile... Le piaceva esibire...
- E tu ?
- Io cosa ?
- Bé, era la tua segretaria...
Il padre tacque, e questo Renata non se l'aspettava; aveva immaginato una risposta ironica, un cenno di sufficienza, avrebbe accettato con liberatorio entusiasmo un "Io me la scopavo", ma quel silenzio, che avrebbe potuto dirsi d'imbarazzo, imbarazzava lei.
Venne il cameriere con il carrello dei dolci ma il padre optò per una macedonia. Renata ordinò un caffé.
- La sua passione era cantare - disse il padre.
- La Chiamberlando ?
- E lo faceva anche bene. Si é licenziata per cantare.
- Ma no ? E come ?
- Ha avuto una lunga carriera - disse lui sorridendo.
- Mi prendi in giro.
- No, no. Cantava sulle navi. Sai le orchestrine delle crociere. Lo ha fatto per più di vent'anni. E ha anche inciso dei dischi, uno in Venezuela un altro a Lisbona mi pare... Li ho a casa.
Renata pensava alla signorina Chiamberlando: a quella sua facciona sempre un po' imbronciata, e cercava di immaginarla truccata, sorridente, ammiccante nell'interpretazione di un cha cha cha.
- Non me lo avevi mai detto...
Il padre alzò le spalle.
- Mi ha telefonato per farmi le condoglianze quando é mancata la mamma. Era sbarcata da poco... - Renata indagò con affetto il sorriso del padre.
- E' stata gentile, é venuta a trovarmi, ci siamo rivisti, il resto lo sai.
Renata annuì.
- Ma pensa un pò...la Chiamberlando che canta sulle navi, magari tutta in paillettes, cotonata, truccata da maliarda, e poi con quelle tettone che ha. Da giovane doveva essere notevole.
Il padre fece cenno di sì due o tre volte, con un mezzo sorriso distratto. Renata rise.
- Andavate a letto insieme ? - chiese a bruciapelo.
- Sì - disse il padre guardandola, e lei abbassò gli occhi sulla tazzina del caffé.
- Ah però...e adesso ?
- Adesso ? - rispose il padre, ridendo sommessamente.
- La Chiamberlando... - mormorò perplessa Renata.
- E' una bravissima donna. Molto triste, proprio di carattere. Non c'é nulla da fare - disse ancora il padre.
- Si vede... - Renata cercava di immaginare come doveva esser stato tra loro due all'inizio.
- Ma quando é successo ?
Fu la volta del padre d'avere un istante d'imbarazzo.
- Prima - disse però con fermezza.
- Prima che andasse a cantare ?
Lui annuì.
- E com'é allora che se n'é andata ? Amante del direttore generale non era mica male no ?
- E' una donna complessa. E' sempre stata difficile da capire.
- Mhm... - Renata si ostinava sul pensiero della Chiamberlando senza riuscire a sgusciarla da quell'immagine austera che aveva di lei, a metà tra l'infermiera e la dama di compagnia, silenziosamente assidua, pallida ed energica, con quei seni esorbitanti che ora scopriva essere non solo l'ingombro pesante di oggi ma, nei loro tempi migliori, esser stati certamente un notevole trastullo erotico per gli occhi, le mani, la bocca di suo padre.
- E la mamma ? - chiese sperando che il padre non credesse che stava cercando di manifestargli ostilità.
- La mamma non ha mai saputo nulla. Neppure sospettato. E del resto é stata una cosa di pochissimi mesi. Una primavera. Poi lei con l'arrivo dell'estate si é licenziata e ha iniziato il suo nuovo lavoro.
- Così di colpo ? Come mai ? Eravate innamorati o cosa ?
Il padre accennò un diniego.
- Una cosa di sesso allora ?
Il padre scosse ancora la testa con lo sguardo che sembrava cercare immagini precise di quel tempo.
- Eravamo soli. Parlavamo di cose che ci piacevano e ci pareva di capirci, di capire con facilità delle cose complesse l'uno dell'altra...
Lei, ad esempio, aveva questa passione per il canto: aveva un repertorio notevole ed erano quasi tutte le mie canzoni preferite nonostante la differenza d'età. Forse ci é sembrato un segno ulteriore...
- Ma cosa faceva, te le cantava in ufficio ?
Il padre rise.
- No, no... C'era stata una piccola festicciola di commiato per un collega che andava in pensione. In quelle occasioni io ho sempre partecipato, fatto atto di presenza... una consuetudine. Gli hanno offerto una pergamena e qualcuno ad un certo punto ha cominciato a dire " Dai Chiamberlando, canta !" e lei a dir di no, quasi risentita. Io ero stupito, non capivo, poi i nostri sguardi si sono incrociati ed io ho fatto un cenno del capo: era una specie di saluto, nient'altro, ma lei, probabilmente confusa, deve averlo inteso come un invito, non so... Insomma ha cantato "J'ai deux amours" e l'ha cantata benissimo. Il resto...
Il padre fece un gesto vago.
- Ma perché é finita ? - chiese Renata con accanimento, come se la cosa la riguardasse personalmente.
- Non poteva durare, lo sapevamo - rispose il padre - Io avevo voi, lei nessuno. Un giorno mi ha detto che essere un amante non le bastava, che non riusciva neppure ad apprezzare il sesso alla giusta maniera. Non che mi abbia mai chiesto altro, anzi. Non ha mai fatto scene del tipo: lascia la famiglia, scegli me o loro e cose del genere. E' sempre stata molto dignitosa, ma determinata. E così ha deciso che non potevamo più stare nello stesso posto e ha chiesto un trasferimento all'interno dell'azienda che però in quel momento non era possibile. Allora si é licenziata, su due piedi. Senza nulla in prospettiva. Io mi sono deciso a parlarne con zio Stefano e lui le ha trovato quel primo ingaggio sulle navi da crociera: doveva essere una soluzione transitoria e invece... Quando ci siamo ritrovati lei mi ha detto che era stata un'esperienza molto bella: che grazie a me aveva potuto fare nella vita quello che le piaceva di più e visitando un sacco di posti. Per me, che in tutti quegli anni mi ero sentito colpevole come se per causa mia lei fosse stata messa al bando, é stata una notizia molto confortante -.
Renata seguiva il padre con un'attenzione vagamente assopita, come una bambina che ascolti una fiaba prima di addormentarsi.
La figura della Chiamberlando si andava trasformando rapidamente nei suoi pensieri: recedendo dalla dimensione dimessa e domestica che le aveva sempre attribuito si conquistava una statura d'avventuriera, permeandosi di mistero. Si rese conto di non conoscere neppure il suo nome di battesimo.
- Com'é che fa di nome la Chiamberlando ? - chiese.
Il padre sorrise.
- Deianìra - disse. Renata rise e lui con lei.
- Accidenti ! Deianìra ?
- Sì - rispose lui.
- Ma che razza di nome...
- Mitologico - disse il padre - ma si é sempre fatta chiamare Nira. Anzi, sui cartelloni d'annuncio nei saloni delle navi il nome d'arte era scritto all'inglese, con due e: Neera. Neera e Los Rumberos e poi ci sono stati i Samurai e poi i Bubbles e non so quanti altri, ma lei é sempre stata Neera... Splendida voce, se fosse stata spregiudicata e ambiziosa oggi potrebbe essere chissà dove...
- E tu come fai a sapere tutte queste cose ?
- Trascorriamo tutte le nostre giornate insieme, da dodici anni. Non ho mai passato tanto tempo accanto ad una persona con questa continuità, e lei, anche se mi rendo conto che a vederla non sembrerebbe, sa raccontare in maniera molto suggestiva.
- Ah si ?
- Davvero.
- E la mamma, in tutto questo ?
- In che senso ?
- Sì, voglio dire, non ci pensi mai ?
- Tutti i giorni. Molte volte al giorno.
- Ma in che modo ? Voglio dire visto che c'é stata la Chiamberlando e magari anche qualcun'altra...
Renata lo suggerì cercando di sottolineare il tono di mondana complicità che avrebbe dovuto toglierlo dall'imbarazzo, se mai avessero dovuto fronteggiare nuove confessioni, ma lui scosse il capo con una veemenza infantile, turbata e cocciuta, che la stupì e intenerì, mostrandoglielo vecchio, disarmato, orgoglioso e tremulo.
- Mai - disse. La voce gli si incrinò leggermente, un po' chioccia per l'agitazione.
- Mai - ripeté - Tua madre é stata la cosa più grande... la cosa più bella che io ho avuto in tutta la mia vita. E non credere che io non ne conoscessi i difetti…certa superficialità, quel po' di esibizionismo sociale. Si poneva sempre al centro del suo universo e si stupiva e rammaricava quando si accorgeva che tutto il resto non le ruotava attorno. Eppure sapeva essere di una generosità assoluta, persino allarmante, e comunque...Sai io credo che la vita, la mia, la tua, ha un suo tracciato e su quel tracciato, se hai fortuna, ad un certo punto quando meno te l'aspetti trovi qualcuno che é lì fermo, diciamo a lato del cammino. E basta uno sguardo per capire che é lì per te anche se non succede mai che lo capisci subito, occorrono magari anni, e poi un giorno all'improvviso ti rendi conto che quel tuo sguardo d'allora sapeva già quello che tu non sapevi ancora...
- Accidenti, persino la rima... - ironizzò Renata, sorpresa però dalla poetica speculativa del padre.
Cercò con un po' d'affanno di individuare nella memoria sguardi così definitivi che fossero intercorsi tra lei e Riccardo, o Corrado, o addirittura Del Poz. Niente.
- Ma é una fortuna enorme, che non capita a tutti - stava concludendo il padre - anzi a pochissimi credo...
Renata sospese la ricerca e lo osservò come se lo vedesse per la prima volta.
- Sì, sì, ma intanto con la Deianìra...
Lui alzò le spalle con un cenno di fastidio.
- L'uomo é schiavo della propria natura...in varia misura. Il maschio intendo. Deve combattere contro le pulsioni animali che gli si agitano dentro. Io ho ceduto loro una volta, moltissimi anni fa. In Maggio - concluse pensoso.
Renata annuì.
- ...E sono contento d'averlo fatto, perché pur non avendo sottratto assolutamente nulla a tua madre ho offerto mio malgrado, malgrado le ragioni assolutamente egoistiche di quel momento, un'opportunità imprevedibile ad una donna che rischiava di invecchiare in un ufficio, dietro una macchina da scrivere, magari in balìa di qualche altro dirigente con meno scrupoli di me. E comunque tua madre é stata l'unico vero amore della mia vita, questo é indiscutibile.
I suoi occhi erano umidi, la sua commozione senile imbarazzante. Renata ebbe per un istante il sospetto che lui avesse atteso per anni il momento di quella confessione.
- E Carlo e Marina sapevano ?
Lui fece cenno di no.
- E nemmeno voglio che sappiano.
- Va bene, sta tranquillo - disse Renata.
Fuori il cielo offrì una schiarita improvvisa, tersa, con la limpidezza di un'alba.
Lasciarono il ristorante e raggiunsero la macchina aggirando le pozzanghere che costellavano il parcheggio.
- Cosa ti va di fare ? - chiese Renata. Il padre alzò le spalle.
- Sei stanco ? - chiese ancora lei.
- No, no...
- Sono appena le due. Ti va di tornare in centro e fare due passi visto che ha smesso di piovere ?
- E' un'idea - disse lui con distrazione.
- Proprio solo due passi, senza stancarci. Poi ti riporto a casa.
- Va bene.
Sfilarono davanti alla palazzina degli uffici e lui alzò gli occhi ad osservare quelle sue finestre proprio sopra l'ingresso senza dir nulla. Renata se ne accorse ma non proferì parola, non volle cercare di sapere nulla e non volle offrire spunti che potessero ancora riguardare quel passato.
Aveva immaginato quella giornata nei momenti che l'avevano preceduta figurandosene i dettagli fino ad avere la certezza che non potesse che andare così come l'aveva prevista, ed invece questa si era imbizzarrita, prendendole la mano e diventando incontrollabile, rivelatrice, pericolosa nell'esubero della sua portata emozionale.
La presunta tranquillità, pacatamente commossa delle tappe del pellegrinaggio, era stata travolta da una rincorsa senza pause ed ora lei si sentiva in debito d'energia, ma soprattutto privata dalla compiaciuta mollezza della malinconia.
Se suo padre, con quell'occhiata alla finestra del suo ex ufficio, avesse provato un brivido di commozione, un batticuore di rimpianto o la semplice curiosità di immaginare che faccia potesse avere quello che ora sedeva al suo posto, non voleva sapere. E del resto lui ora sedeva tranquillo accanto a lei, e non pareva tormentato da emozioni affannose.
La tangenziale era semideserta e la percorsero senza dover affrontare i rallentamenti dell'andata. Lontano, verso est, il cielo era di un nero bluastro, cupo d'uragano, mentre sopra di loro si striava di sole con raggi obliqui, che foravano nubi in rapido scorrimento.
Per tutto il tragitto restarono in silenzio e Renata rifletté sulle parole del padre a proposito delle pulsioni animali, chiedendosi se la sua non fosse un'anomalia, addirittura una perversione. Si ripromise di costringersi a rivedere la sua condizione, si immaginò anziana e confessante di fronte ad Ottavia e Federica esterrefatte e abbandonò frettolosamente l'idea con imbarazzo, poi ipotizzò che per una qualche eventualità Riccardo venisse a conoscenza di quelli che lei, in tutta onestà, non riusciva a considerare dei tradimenti ma che lui certamente avrebbe ritenuti tali, e ancora una volta dovette ricacciare l'idea con un briciolo di panico.
Indossava il vecchio Burberry's color tortora elegantemente gualcito ed una coppola irlandese di tweed irsuto: perfetto per quella giornata di pioggetta nebbiosa, pensò con compiacimento Renata, che aveva sempre ammirato nel padre la discrezione naturale dell'eleganza.
Lui sedette, lei richiuse la portiera sulla sua incertezza di anziano.
- Tempo di merda ... - considerò lei senza animosità. Lui concesse un assenso annuito, guardandosi attorno.
- Giapponese - mormorò, tamburellando sul cruscotto. Renata conosceva il principio d'autarchia quasi ossessiva cui il padre era vincolato riguardo alle automobili.
- Riccardo dice che sono più affidabili - si affrettò a replicare con il tono di chi cerca una giustificazione. Il padre annuì ancora, con un sorrisetto di sufficienza.
- E costano anche meno - aggiunse lei. Lui tacque, saggiando l'escursione della cintura di sicurezza.
- Le piccole come stanno ? - chiese.
- Bene - rispose lei.
- E il ciula ?
Il padre di Renata aveva sempre nutrito nei confronti del genero un bonario disprezzo, irridendo con sarcasmi flemmatici quel suo affannarsi in ruoli manageriali recitati con l'enfasi di un filodrammatico e con equivalente competenza; fortunatamente il timone dell'azienda era saldamente nelle mani d'una sorella nubile e del fratellastro Gherardo, due scorbutici appassionati soltanto al lavoro e, si vociferava, a certe loro pratiche incestuose. Sta di fatto che non frequentavano nessuno, trottavano ombrosi da una parte all'altra del globo a metter su cantieri e cedevano volentieri a Riccardo, alla sua testa "piena di piume" come diceva il padre di Renata, il ruolo cangiante ed approssimativo di responsabile del settore "Aree turistiche".
- Ha un consiglio di amministrazione - rispose Renata, glissando sull'epiteto inoffensivo che il padre gli aveva affibbiato.
- Bene - concluse lui.
Imboccarono la tangenziale e viaggiarono per un po' in silenzio, circondati da un flusso di automobili ininterrotto e rallentato dalla pioggerella, che non cessava di ovattare d'umidità il paesaggio mesto della periferia.
- Ho sentito Giulio la settimana scorsa - disse Renata, cercando di farlo con entusiasmo. Il padre rispose con un silenzio distratto. Giulio aveva rappresentato per la madre, e quindi di riflesso per lui, una sconfitta cocente, un tradimento: era stato l'unico dei figli a non essersi assestato in un'area di censo e livello sociale adeguati.
Non aveva terminato gli studi, non aveva accettato prima i suggerimenti e poi le occasioni professionali che la famiglia avevano messo a sua disposizione, inseguendo invece fole infantili d'artista, arrabattandosi prima attorno a chitarre e tastiere, poi a tele e pennelli, per approdare alla fine alla ribalta mortificante d'un cabaret troppo vicino all'avanspettacolo, esibendosi come animatore in villaggi-vacanze e su reti televisive regionali.
Come ciliegina sul gelato aveva collocato una moglie della Guadalupa, una mulatta di bellezza ferina che oltre a tenere una sconclusionata rubrica di negromanzia e divinazione per la stessa emittente per la quale lui faceva lo sciocco, si offriva in spogliarello per la sigla conclusiva delle trasmissioni.
Due marmocchietti, uno nero come il carbone ed uno quasi bianco, erano venuti ad allietare il menage.
Per la madre di Renata tutto ciò aveva rappresentato, fino alle fine devastata dei suoi giorni, una ferita mai rimarginata che il padre, in memoria sua, leniva con l'uso di un'accurata distrazione, accettandone l'esistenza solo durante le canoniche riunioni in prossimità delle feste pasquali e natalizie. Si trattava di pranzi di famiglia organizzati della figlia Marina, trionfalmente accasata con uno dei più accreditati penalisti della città, cui partecipavano con sommesso entusiasmo il primogenito Carlo, primario a Ferrara, con la moglie Doretta, opulenta matrona sterile che riversava sui nipoti attenzioni soffocanti, Renata con Riccardo Ottavia e Federica e, naturalmente, Giulio con la sua squadra meticcia.
- Cosa fa ? - chiese finalmente il padre quando il traffico si fece più scorrevole, mano a mano che si allontanavano dalla città.
- In che senso ?
- Cosa fa, cosa combina ?
- Mah...credo il solito. Non abbiamo parlato di quello...
- E di cosa ?
Renata non voleva confermare al padre il sospetto che Giulio si facesse vivo solo in caso di necessità, anche se non allarmanti. Questa volta l'aveva chiamata per avere in prestito la casa al mare per una settimana.
" I ragazzini hanno la bronchite che gli diventa cronica in questo posto di merda !" aveva detto con il perenne tono di ribrezzo che adottava nei colloqui familiari.
Renata aveva naturalmente risposto di sì, pur sapendo che quella settimana sarebbe diventata un mese, che in capo a quel mese una squadra di vigorose donne delle pulizie avrebbe avuto un gran daffare per vincere le incrostazioni in cucina, le macchie sui divani, le ditate sugli stipiti, gli odori impregnanti di zuppa creola; ma non era mai stata capace di dirgli di no, come sapevano fare Carlo e Marina, che si limitavano a passargli un assegno due volte l'anno rifiutando ogni suo tentativo di ottenere colloqui od incontri, in ossequio all'ostracismo imposto dalla madre, quando ancora era in vita.
- Mah... abbiamo parlato dei figli, cose così... - rispose al padre, che per parte sua tacque.
- Sai cosa si fa ? - aggiunse lei simulando un'intuizione improvvisa - Facciamo il giro dalla parte del lago ! - concluse con un eccesso di entusiasmo.
- Perché ? - chiese il padre con la consueta indifferenza.
- Come perché ? Così, un'idea... facciamo il giro del traforo e passiamo dalla strada di sopra. Sarà un'eternità che non la faccio.
Il padre abbozzò un gesto d'assenso perplesso.
- E' più lunga... - si limitò a mormorare.
- Vabé chissenefrega no, papà ? Mica nessuno ci corre dietro. Pensavo che ti facesse piacere ripassare dal quelle parti...
- Perché ?
- Ma come perché ! Ci sei stato tanto di quel tempo laggiù !
Renata attenuò l'irritazione che era affiorata di fronte all'irriducibile indifferenza del padre.
Si voltò a studiarne i lineamenti, sperando di scoprirvi un segno d'emozione dissimulata all'idea di ripercorrere l'itinerario che aveva contraddistinto la quotidianità della sua vita di lavoro, ma lui manteneva uno sguardo neutro sul parabrezza crivellato di goccioloni.
- Preferisci che non ci passiamo ? Se preferisci dimmelo, non voglio mica metterti a disagio...
- A disagio ?
Questa volta fu il padre a voltarsi verso di lei per scrutarla.
Renata aveva avuto per un momento il sospetto che quel percorso per suo padre potesse essere legato a ricordi dolorosi, alla memoria della scomparsa della moglie, ai fantasmi di un mondo di lavoro che, a quel che le risultava dai sentito dire, era gremito di invidie, sgambetti, crudeltà e meschinità frustranti, e si diede della sciocca per non esserci arrivata prima. Per un'egoistica idea di nostalgia stava per coinvolgerlo in un percorso a ritroso che forse lo avrebbe addolorato, o anche peggio, tenendo conto dell'età.
- Perché disagio ? - insistette lui - Mi fa piacere, solo pensavo che con la pioggia tutto questo giro... per te che devi guidare, intendo. Per me é lo stesso.
Renata si sentiva disorientata.
- Ma figurati ! E' che pensavo di passare davanti allo stabilimento, a casa nostra... saranno vent'anni che non li rivedo. E tu ?
- Più o meno ...
- E non é che poi ti emozioni ?
Il padre sorrise scuotendo la testa.
- Se mi portassi a pranzo alla Tour d'Argent e ci ritrovassi tua madre e gli amici d'allora sì, ma qui...
E fece un gesto modesto con la mano, ad indicare genericamente quella periferia che rimaneva tale pur essendo già campagna, appiattita sotto la pioggia come un animale esausto.
- Già... non é un granché - ammise Renata, vagamente delusa dall'emotività controllata di lui.
Seguirono per un tratto il lungolago deserto osservando distrattamente le barche capovolte sulla riva, gli hotels chiusi per il fuori stagione, la linea della sponda opposta confusa tra i canneti.
Renata sfrecciò lungo il rettilineo della provinciale senza neppure un accenno a rallentare in prossimità del bivio che introduceva al viale dove c'era la loro vecchia casa.
Non sapeva dirsi se quell'opaca reattività del padre la irritasse o la tranquillizzasse, poi si rese conto che ambedue gli stati d'animo convivevano, alternandosi.
Lo avrebbe scosso volentieri dicendogli - Ma come ? Io ti porto in punta di piedi, piena di riguardi e di cautele, sulle tracce del tuo passato, unica tra i tuoi figli ad avere questa sensibilità, dopo essermi tormentata nell'indecisione se farlo o no, terrorizzata all'idea che l'emozione ti potesse ferire e nello stesso tempo eccitata come una bambina che fa il primo regalo con i soldi del salvadanaio, e tu mi ricompensi con un menefreghismo totale, con i tuoi sorrisetti di compiacenza e le battutine brillanti, come se di qui ci fossi passato ieri, come se qui non ci fosse sepolta metà della tua vita. Ma come ? -
E nello stesso tempo il fatto che lui non fosse scoppiato in un pianto imbarazzante, non si fosse fatto venire le palpitazioni, non si fosse neppure chiuso in un bozzolo di tristezza malinconica l'aveva risollevata.
Al bivio il padre si era sporto un poco in avanti dicendo "Era lì ?" e Renata aveva fatto cenno di sì, chiedendo con una risatina forzata se volesse andare in pellegrinaggio.
- No, no - aveva risposto lui; e a lei era parso che lo avesse detto con un accenno di delusione infantile. Alla fine si risolse a considerare che gli ottant'anni fossero l'anestetico che lo salvaguardava dagli affanni della nostalgia; non arrivò a credere che si trattasse di un'avvisaglia di rimbambimento ma si preparò all'idea.
Passarono di fronte allo stabilimento e lui disse che sapeva che c'era stato un cambio di gestione; disse che lo aveva letto sull'Informatore Industriale. Renata rispose che l'insegna era orribile e lui alzò le spalle. Lei aggiunse che illuminata era ancora peggio e lui chiese " E tu che ne sai ?"
- Lo immagino - aveva risposto lei dopo un istante di smarrimento. Rallentando di fronte all'ingresso si chinò un poco in avanti gettando uno sguardo attraverso il parabrezza.
- Il tuo ufficio era quello no ?
- Sì.
Il padre aveva alzato un dito con un impercettibile tremito senile.
- Quelle due finestre a destra, proprio sopra l'ingresso.
- Me lo ricordo benissimo. Vuoi fermarti ?
- No, no, non é il caso. Grazie comunque...
Il padre rispondeva con un tono di scusa che commosse Renata, costringendola al silenzio. Poi gli anni trascorsi e i pensieri di ambedue su di essi restarono indietro, più o meno al limite del muro in cemento che delimitava l'area dello stabilimento.
Renata per un attimo ebbe la tentazione di chiedere al padre di parlarne, di ripercorrere un poco insieme quel tempo che per lei era confuso dalle dimenticanze dell'infanzia ma che per lui doveva essere limpido nel ricordo.
Per una di quelle infinitesimali frazioni di tempo di cui approfittano le intuizioni per manifestarsi pensò che era l'ultima occasione per sapere qualcosa di più di sé e della sua famiglia. E la chiarezza inesorabile dell'eventualità la fece soccombere, costringendola a ricacciare tutto frettolosamente sotto un affanno di pensieri banali chiamati in soccorso, come quello di ricordarsi di telefonare al dentista per un appuntamento per Federica, di invitare a cena la cugina Ale con il nuovo fidanzato, combinare di vedere Corrado, e Del Poz; farsi scopare da Del Poz pensò con chiarezza, senza vergogna anche se accanto a quell'idea restava il pensiero vago, ora spogliato della pena, che quell'occasione di sapere di suo padre, di sua madre, dei suoi fratelli, di dialogare e scoprire piccole basilari verità, sfumava definitivamente.
-Ma guarda che stronzo ! - imprecò rivolta al conducente di un motocarro che svoltò a sinistra davanti a loro senza segnalare.
Il padre si era leggermente irrigidito nel gesto della frenata ma lei era sgusciata via con manovra agile, senza neppure sollevare il piede dall'acceleratore.
Arrivarono alla “Aquila Reale” mentre uno squarcio di cielo limpido si incuneava tra la nuvolaglia gravida d'acqua. Erano i primi, vuoi per l'orario - era da poco passato mezzogiorno - vuoi per via del giorno feriale e piovoso.
Ebbero il tavolo migliore, accanto ad una vetrata affacciata verso le montagne che erano completamente occultate dal grigio nebbioso, e attesero pazienti l'avvicendarsi delle portate chiacchierando indifferentemente delle loro lineari quotidianità; il padre seppe farla ridere descrivendo con pacata ironia le piccole manie della signora Chiamberlando. Renata si chiese come avrebbe reagito se all'improvviso lei gli avesse confessato " Ho un amante, anzi da ieri sera due. E mi servono solo per il sesso. Sono una specie di ninfomane, non so controllarmi."
Lui assaporava i cibi con calma, osservando in modo saltuario i rappresentanti di commercio che erano entrati rumorosamente in sala quando loro due erano già a metà del pasto, e che ora manifestavano a tratti la loro presenza con esplosioni di risa.
Renata cercò d'immaginare se lui, o addirittura sua madre, avessero potuto avere un amante.
Per quel che ne sapeva dovevano aver vissuto una fase fiammeggiante nei primi anni di matrimonio - lo testimoniavano i primi tre figli nati in poco più di due anni e mezzo e le foto d'allora che li ritraevano sempre accanto, sempre illuminati da sorrisi di beatitudine: lui un bell'uomo con un'allure anglosassone e lei una bella donna, carnosa e lattea come richiedeva l'estetica dell'epoca.
Il seguito era stato contraddistinto da una pacificata comunione di radicali differenze caratteriali.
Forse più lei di lui poteva aver cercato in altri uomini uno sfogo, la soddisfazione di sentirsi corteggiata, lei sempre così ansiosa di piacere, di ricevere consensi.
Se qualcosa era accaduto era comunque ormai impossibile venirne a conoscenza: quasi certamente neppure lui avrebbe potuto rispondere.
- Da quant'é che la Chiamberlando si occupa della casa ? - chiese soprapensiero.
- Da quando é mancata la mamma - rispose lui.
- Accidenti ! Così tanto ? Non mi ricordavo che ci fosse fin dall'inizio - disse Renata cercando di ricapitolare quegli anni senza riuscirci.
- Anche da prima - aggiunse il padre - Era stata mia segretaria per un certo periodo, più o meno quando abitavamo in corso Cavour, non so se ricordi...Io allora durante la settimana stavo alla Betulla.
Renata annuì. La Betulla era il nome de loro cottage. Lei non l'aveva mai chiamata così; non le era mai piaciuta l'idea di dare dei nomi alle case.
- Allora era molto giovane, molto diversa da come la vedi adesso.
- Chi ? la Chiamberlando ?
Il padre annuì sorridendo.
- Che tipo era ? - chiese Renata.
- Mah... un po' confuso direi... si vestiva in modo appariscente, sempre molto truccata, con abiti aderenti, tacchi alti, sai, cose così.
- La Chiamberlando ? - Renata era sbalordita.
- Già. Mi rendo conto che oggi può sembrare impossibile, ma ostentava proprio. Gli impiegati le ronzavano tutti intorno, anche se va detto che lei era assolutamente irreprensibile... Le piaceva esibire...
- E tu ?
- Io cosa ?
- Bé, era la tua segretaria...
Il padre tacque, e questo Renata non se l'aspettava; aveva immaginato una risposta ironica, un cenno di sufficienza, avrebbe accettato con liberatorio entusiasmo un "Io me la scopavo", ma quel silenzio, che avrebbe potuto dirsi d'imbarazzo, imbarazzava lei.
Venne il cameriere con il carrello dei dolci ma il padre optò per una macedonia. Renata ordinò un caffé.
- La sua passione era cantare - disse il padre.
- La Chiamberlando ?
- E lo faceva anche bene. Si é licenziata per cantare.
- Ma no ? E come ?
- Ha avuto una lunga carriera - disse lui sorridendo.
- Mi prendi in giro.
- No, no. Cantava sulle navi. Sai le orchestrine delle crociere. Lo ha fatto per più di vent'anni. E ha anche inciso dei dischi, uno in Venezuela un altro a Lisbona mi pare... Li ho a casa.
Renata pensava alla signorina Chiamberlando: a quella sua facciona sempre un po' imbronciata, e cercava di immaginarla truccata, sorridente, ammiccante nell'interpretazione di un cha cha cha.
- Non me lo avevi mai detto...
Il padre alzò le spalle.
- Mi ha telefonato per farmi le condoglianze quando é mancata la mamma. Era sbarcata da poco... - Renata indagò con affetto il sorriso del padre.
- E' stata gentile, é venuta a trovarmi, ci siamo rivisti, il resto lo sai.
Renata annuì.
- Ma pensa un pò...la Chiamberlando che canta sulle navi, magari tutta in paillettes, cotonata, truccata da maliarda, e poi con quelle tettone che ha. Da giovane doveva essere notevole.
Il padre fece cenno di sì due o tre volte, con un mezzo sorriso distratto. Renata rise.
- Andavate a letto insieme ? - chiese a bruciapelo.
- Sì - disse il padre guardandola, e lei abbassò gli occhi sulla tazzina del caffé.
- Ah però...e adesso ?
- Adesso ? - rispose il padre, ridendo sommessamente.
- La Chiamberlando... - mormorò perplessa Renata.
- E' una bravissima donna. Molto triste, proprio di carattere. Non c'é nulla da fare - disse ancora il padre.
- Si vede... - Renata cercava di immaginare come doveva esser stato tra loro due all'inizio.
- Ma quando é successo ?
Fu la volta del padre d'avere un istante d'imbarazzo.
- Prima - disse però con fermezza.
- Prima che andasse a cantare ?
Lui annuì.
- E com'é allora che se n'é andata ? Amante del direttore generale non era mica male no ?
- E' una donna complessa. E' sempre stata difficile da capire.
- Mhm... - Renata si ostinava sul pensiero della Chiamberlando senza riuscire a sgusciarla da quell'immagine austera che aveva di lei, a metà tra l'infermiera e la dama di compagnia, silenziosamente assidua, pallida ed energica, con quei seni esorbitanti che ora scopriva essere non solo l'ingombro pesante di oggi ma, nei loro tempi migliori, esser stati certamente un notevole trastullo erotico per gli occhi, le mani, la bocca di suo padre.
- E la mamma ? - chiese sperando che il padre non credesse che stava cercando di manifestargli ostilità.
- La mamma non ha mai saputo nulla. Neppure sospettato. E del resto é stata una cosa di pochissimi mesi. Una primavera. Poi lei con l'arrivo dell'estate si é licenziata e ha iniziato il suo nuovo lavoro.
- Così di colpo ? Come mai ? Eravate innamorati o cosa ?
Il padre accennò un diniego.
- Una cosa di sesso allora ?
Il padre scosse ancora la testa con lo sguardo che sembrava cercare immagini precise di quel tempo.
- Eravamo soli. Parlavamo di cose che ci piacevano e ci pareva di capirci, di capire con facilità delle cose complesse l'uno dell'altra...
Lei, ad esempio, aveva questa passione per il canto: aveva un repertorio notevole ed erano quasi tutte le mie canzoni preferite nonostante la differenza d'età. Forse ci é sembrato un segno ulteriore...
- Ma cosa faceva, te le cantava in ufficio ?
Il padre rise.
- No, no... C'era stata una piccola festicciola di commiato per un collega che andava in pensione. In quelle occasioni io ho sempre partecipato, fatto atto di presenza... una consuetudine. Gli hanno offerto una pergamena e qualcuno ad un certo punto ha cominciato a dire " Dai Chiamberlando, canta !" e lei a dir di no, quasi risentita. Io ero stupito, non capivo, poi i nostri sguardi si sono incrociati ed io ho fatto un cenno del capo: era una specie di saluto, nient'altro, ma lei, probabilmente confusa, deve averlo inteso come un invito, non so... Insomma ha cantato "J'ai deux amours" e l'ha cantata benissimo. Il resto...
Il padre fece un gesto vago.
- Ma perché é finita ? - chiese Renata con accanimento, come se la cosa la riguardasse personalmente.
- Non poteva durare, lo sapevamo - rispose il padre - Io avevo voi, lei nessuno. Un giorno mi ha detto che essere un amante non le bastava, che non riusciva neppure ad apprezzare il sesso alla giusta maniera. Non che mi abbia mai chiesto altro, anzi. Non ha mai fatto scene del tipo: lascia la famiglia, scegli me o loro e cose del genere. E' sempre stata molto dignitosa, ma determinata. E così ha deciso che non potevamo più stare nello stesso posto e ha chiesto un trasferimento all'interno dell'azienda che però in quel momento non era possibile. Allora si é licenziata, su due piedi. Senza nulla in prospettiva. Io mi sono deciso a parlarne con zio Stefano e lui le ha trovato quel primo ingaggio sulle navi da crociera: doveva essere una soluzione transitoria e invece... Quando ci siamo ritrovati lei mi ha detto che era stata un'esperienza molto bella: che grazie a me aveva potuto fare nella vita quello che le piaceva di più e visitando un sacco di posti. Per me, che in tutti quegli anni mi ero sentito colpevole come se per causa mia lei fosse stata messa al bando, é stata una notizia molto confortante -.
Renata seguiva il padre con un'attenzione vagamente assopita, come una bambina che ascolti una fiaba prima di addormentarsi.
La figura della Chiamberlando si andava trasformando rapidamente nei suoi pensieri: recedendo dalla dimensione dimessa e domestica che le aveva sempre attribuito si conquistava una statura d'avventuriera, permeandosi di mistero. Si rese conto di non conoscere neppure il suo nome di battesimo.
- Com'é che fa di nome la Chiamberlando ? - chiese.
Il padre sorrise.
- Deianìra - disse. Renata rise e lui con lei.
- Accidenti ! Deianìra ?
- Sì - rispose lui.
- Ma che razza di nome...
- Mitologico - disse il padre - ma si é sempre fatta chiamare Nira. Anzi, sui cartelloni d'annuncio nei saloni delle navi il nome d'arte era scritto all'inglese, con due e: Neera. Neera e Los Rumberos e poi ci sono stati i Samurai e poi i Bubbles e non so quanti altri, ma lei é sempre stata Neera... Splendida voce, se fosse stata spregiudicata e ambiziosa oggi potrebbe essere chissà dove...
- E tu come fai a sapere tutte queste cose ?
- Trascorriamo tutte le nostre giornate insieme, da dodici anni. Non ho mai passato tanto tempo accanto ad una persona con questa continuità, e lei, anche se mi rendo conto che a vederla non sembrerebbe, sa raccontare in maniera molto suggestiva.
- Ah si ?
- Davvero.
- E la mamma, in tutto questo ?
- In che senso ?
- Sì, voglio dire, non ci pensi mai ?
- Tutti i giorni. Molte volte al giorno.
- Ma in che modo ? Voglio dire visto che c'é stata la Chiamberlando e magari anche qualcun'altra...
Renata lo suggerì cercando di sottolineare il tono di mondana complicità che avrebbe dovuto toglierlo dall'imbarazzo, se mai avessero dovuto fronteggiare nuove confessioni, ma lui scosse il capo con una veemenza infantile, turbata e cocciuta, che la stupì e intenerì, mostrandoglielo vecchio, disarmato, orgoglioso e tremulo.
- Mai - disse. La voce gli si incrinò leggermente, un po' chioccia per l'agitazione.
- Mai - ripeté - Tua madre é stata la cosa più grande... la cosa più bella che io ho avuto in tutta la mia vita. E non credere che io non ne conoscessi i difetti…certa superficialità, quel po' di esibizionismo sociale. Si poneva sempre al centro del suo universo e si stupiva e rammaricava quando si accorgeva che tutto il resto non le ruotava attorno. Eppure sapeva essere di una generosità assoluta, persino allarmante, e comunque...Sai io credo che la vita, la mia, la tua, ha un suo tracciato e su quel tracciato, se hai fortuna, ad un certo punto quando meno te l'aspetti trovi qualcuno che é lì fermo, diciamo a lato del cammino. E basta uno sguardo per capire che é lì per te anche se non succede mai che lo capisci subito, occorrono magari anni, e poi un giorno all'improvviso ti rendi conto che quel tuo sguardo d'allora sapeva già quello che tu non sapevi ancora...
- Accidenti, persino la rima... - ironizzò Renata, sorpresa però dalla poetica speculativa del padre.
Cercò con un po' d'affanno di individuare nella memoria sguardi così definitivi che fossero intercorsi tra lei e Riccardo, o Corrado, o addirittura Del Poz. Niente.
- Ma é una fortuna enorme, che non capita a tutti - stava concludendo il padre - anzi a pochissimi credo...
Renata sospese la ricerca e lo osservò come se lo vedesse per la prima volta.
- Sì, sì, ma intanto con la Deianìra...
Lui alzò le spalle con un cenno di fastidio.
- L'uomo é schiavo della propria natura...in varia misura. Il maschio intendo. Deve combattere contro le pulsioni animali che gli si agitano dentro. Io ho ceduto loro una volta, moltissimi anni fa. In Maggio - concluse pensoso.
Renata annuì.
- ...E sono contento d'averlo fatto, perché pur non avendo sottratto assolutamente nulla a tua madre ho offerto mio malgrado, malgrado le ragioni assolutamente egoistiche di quel momento, un'opportunità imprevedibile ad una donna che rischiava di invecchiare in un ufficio, dietro una macchina da scrivere, magari in balìa di qualche altro dirigente con meno scrupoli di me. E comunque tua madre é stata l'unico vero amore della mia vita, questo é indiscutibile.
I suoi occhi erano umidi, la sua commozione senile imbarazzante. Renata ebbe per un istante il sospetto che lui avesse atteso per anni il momento di quella confessione.
- E Carlo e Marina sapevano ?
Lui fece cenno di no.
- E nemmeno voglio che sappiano.
- Va bene, sta tranquillo - disse Renata.
Fuori il cielo offrì una schiarita improvvisa, tersa, con la limpidezza di un'alba.
Lasciarono il ristorante e raggiunsero la macchina aggirando le pozzanghere che costellavano il parcheggio.
- Cosa ti va di fare ? - chiese Renata. Il padre alzò le spalle.
- Sei stanco ? - chiese ancora lei.
- No, no...
- Sono appena le due. Ti va di tornare in centro e fare due passi visto che ha smesso di piovere ?
- E' un'idea - disse lui con distrazione.
- Proprio solo due passi, senza stancarci. Poi ti riporto a casa.
- Va bene.
Sfilarono davanti alla palazzina degli uffici e lui alzò gli occhi ad osservare quelle sue finestre proprio sopra l'ingresso senza dir nulla. Renata se ne accorse ma non proferì parola, non volle cercare di sapere nulla e non volle offrire spunti che potessero ancora riguardare quel passato.
Aveva immaginato quella giornata nei momenti che l'avevano preceduta figurandosene i dettagli fino ad avere la certezza che non potesse che andare così come l'aveva prevista, ed invece questa si era imbizzarrita, prendendole la mano e diventando incontrollabile, rivelatrice, pericolosa nell'esubero della sua portata emozionale.
La presunta tranquillità, pacatamente commossa delle tappe del pellegrinaggio, era stata travolta da una rincorsa senza pause ed ora lei si sentiva in debito d'energia, ma soprattutto privata dalla compiaciuta mollezza della malinconia.
Se suo padre, con quell'occhiata alla finestra del suo ex ufficio, avesse provato un brivido di commozione, un batticuore di rimpianto o la semplice curiosità di immaginare che faccia potesse avere quello che ora sedeva al suo posto, non voleva sapere. E del resto lui ora sedeva tranquillo accanto a lei, e non pareva tormentato da emozioni affannose.
La tangenziale era semideserta e la percorsero senza dover affrontare i rallentamenti dell'andata. Lontano, verso est, il cielo era di un nero bluastro, cupo d'uragano, mentre sopra di loro si striava di sole con raggi obliqui, che foravano nubi in rapido scorrimento.
Per tutto il tragitto restarono in silenzio e Renata rifletté sulle parole del padre a proposito delle pulsioni animali, chiedendosi se la sua non fosse un'anomalia, addirittura una perversione. Si ripromise di costringersi a rivedere la sua condizione, si immaginò anziana e confessante di fronte ad Ottavia e Federica esterrefatte e abbandonò frettolosamente l'idea con imbarazzo, poi ipotizzò che per una qualche eventualità Riccardo venisse a conoscenza di quelli che lei, in tutta onestà, non riusciva a considerare dei tradimenti ma che lui certamente avrebbe ritenuti tali, e ancora una volta dovette ricacciare l'idea con un briciolo di panico.
martedì 24 aprile 2012
LE FINESTRE DI DESTRA, PROPRIO SOPRA L'INGRESSO (seconda parte)
Si riscosse dalla languida autocontemplazione e con gesto istintivo aprì le antine di un pensile dove era certa di trovare qualcosa che facesse al caso suo.
In quella casa erano passate una mezza dozzina di signorine che del trucco avrebbero potuto fare un mestiere, quindi era più che probabile che qualcosa avessero lasciato; non c’erano però che schiume da barba, gel, colonie maschili, aspirine e ansiolitici.
Renata si piegò sulle ginocchia ed ispezionò il mobiletto che era sotto il pensile ed effettivamente, in un cestino di paglia relegato in un angolo, si accumulavano alla rinfusa le matite per gli occhi, i rossetti, i tubetti di fard e il rimmel che si aspettava di trovare.
Senza sapere perché, allungò la mano oltre il cestino, sul fondo dell'armadietto, tastando una borsa gommata per il ghiaccio che pareva avvolgere qualcosa. Ne ruzzolò fuori un vibratore di proporzioni cospicue che riproduceva in dettaglio estremamente realistico un fallo maschile in erezione, con tanto di turgore di vene in rilievo.
Renata si affrettò a coprire l'oggetto con la borsa del ghiaccio in preda ad un panico improvviso: riaffiorò allo specchio scoprendosi uno sguardo stralunato e approssimò il ritocco degli occhi.
Le voci degli amici stavano assumendo volume d'allegria; qualcuno mise in funzione l'impianto stereo e le note di una vecchia canzone dei Mamas & Papas fluttuarono fino a Renata che stava pensando - Ma guarda un po' Agostino... chissà come lo usano... -
Per un attimo ebbe la tentazione di indagare l'oggetto con maggior attenzione, ma resistette e si precipitò fuori del bagno.
Il salone aveva una propaggine palafitticola e terrazzata che si protendeva verso il lago appoggiandosi su rassicuranti colonne di cemento armato.
Ora in quel salone gli amici si stavano assiepando.
Alcuni si erano adagiati con esausta soddisfazione sui divani color panna che l'arredatore adolescente - figlio di una ex di Agostino - aveva disposto secondo una geometria invasiva e un po' incongrua; altri stavano affacciati, e temporaneamente meditativi, alla grande vetrata che guardava il lago e le luci che vi si riflettevano tremule.
Agostino, che dirigeva queste occasioni d'incontro con l'accuratezza e l'irriducibilità di un regista hollywoodiano, aveva predisposto su un tavolino vassoi con fette di limone, ciotolette di sale e bottiglie d'una tequila a suo dire speciale, e costringendo tutti al rito complesso del leccare bere succhiare come inevitabile e coerente continuità con la cena messicana.
- ... strano che non abbia sombreri per tutti... - udì Renata, e riconobbe il sussurro arrochito che pareva sempre un invito erotico persino se forniva informazioni sugli orari dei voli per Londra.
Mirella Tazzòli in punta di piedi, afferrata all'avambraccio di Del Poz, gli si premeva addosso in studiata mancanza d'equilibrio.
Con le labbra praticamente appoggiate ad un suo orecchio stava probabilmente sussurrando battutine asprigne come quella che aveva afferrato Renata. Stando accanto allo stipite che immetteva al corridoio lei era arrivata alle loro spalle protetta dalla penombra.
Del Poz ridacchiò compito, ritraendo impercettibilmente il capo con gesto infantile sotto lo stimolo solleticante delle parole che Mirella aveva usato più per titillarlo che per farlo sorridere.
Renata osservò il dorso vigoroso di lui, abbassò gli occhi e pensò che aveva un bel sedere, poi spostò lo sguardo a quello di Mirella e dovette ammettere che anche il suo era di qualità. Del resto era universalmente apprezzato anche perché Mirella Tazzòli conosceva tutti gli espedienti per sfoggiarlo, trasformandolo in un ipnotico centro d'attenzione che distraesse dal suo viso, delicatamente vaiolizzato dall'acne giovanile che aveva disperato la sua adolescenza. Il brutto anatroccolo non si era poi trasformato in cigno ma si era agguerrito di tattiche spregiudicate che sdraiavano nel suo letto tutti gli uomini che decideva di scoparsi, compresi fidanzati e mariti delle sue migliori amiche.
Ora l'avercelo davanti, il generoso culo della Tazzòli, e vederlo affiancato a quello di Del Poz - che pur manifestando per Renata sintomi da innamoramento alla Peynet quella notte si sarebbe inevitabilmente occupato dell'altra - le procurò un imprevisto soprassalto di ingiustificata gelosia, che le si assestò a mezza strada tra la gola e la bocca dello stomaco.
Desiderò, per la prima volta in vita sua competere, sedurre, esporsi, e lo stupore di quel sentimento aggressivo, guerresco e sconosciuto, sommato a quell'altro, malinconico, soffocante e altrettanto sconosciuto che aveva provato sfrecciando in auto davanti agli anonimi edifici di una fabbrica di cui non le importava nulla, la paralizzarono.
Riaffiorò la voglia di piangere, di rabbia e nostalgia insieme, ma questa volta, forse perché la rabbia prevaleva, riuscì a trattenersi.
Fece il suo ingresso nel salone con spavalderia, si sottopose di buon grado al rituale tequila che Agostino officiava implacabile e sedette sul bracciolo della poltrona occupata da Grete.
Accavallò le gambe avviticchiandole come aveva visto fare ad una soubrette televisiva che le aveva meno belle delle sue, e lasciò che la gonna risalisse a scoprirle nude, delicatamente abbronzate e levigate come alabastro: il suo orgoglio anatomico.
Gianfilippo apprezzò con una fischiatina bolsa e Agostino si precipitò ad ammannirle un'altra tequila.
Corrado lanciava brevi occhiatine interrogative che salivano oblique dalla placidità assonnata della fidanzata all'inopinato protagonismo dell'amante. Riccardo parlava di golf con i Genéro e intanto Del Poz, laggiù, la fissava incupito.
A quel punto Renata si rese conto che il suo repertorio di donna fatale era esaurito, inoltre la tequila iniziava a sortire effetti sbilancianti e quella posizione precaria sul bracciolo della poltrona la stava mettendo in difficoltà.
Districò le gambe ed andò a cercarsi un posto tranquillo sul sofà d'angolo, che ancora portava un'impercettibile traccia di verde sulla tinta panna dello schienale là dove lei, un anno prima, aveva appoggiato la testa tinta d'uno spray colorante durante una festa di carnevale.
L'idea le era venuta un giorno che Ottavia l'aveva costretta ad accompagnarla in uno di quei negozi punk: musica ossessiva a tutto volume e ragazze e ragazzi dall'aspetto volonterosamente funereo.
Ottavia ambiva incomprensibilmente ad essere come loro e solo le categoriche proibizioni dei genitori avevano impedito che si martoriasse di fori in cui infilare ogni sorta di aggeggi metallici. Riccardo aveva assicurato " Passerà " e Renata se ne era detta certa.
Ottavia infatti somigliava a loro due: possedeva caratterialmente una pratica vocazione alla riducibilità che permetteva di imputare quel confuso desiderio di ribellione più che altro al turbinìo ormonale dei quattordici anni, transitorio ed inoffensivo.
Renata aveva allora accettato di accontentarla nel suo desiderio di addobbarsi di cuoio, borchie, anfibi e altri ammennicoli, ricorrendo ad una condiscendenza strategica. Così quel giorno si era aggirata tra gli scaffali a forma di bara nel negozietto stretto e lungo come un mezzo pubblico, un po' a disagio nel suo tailleur di Saint Laurent, e all'improvviso aveva risolto il dilemma del costume per l'irrinunciabile festa di Carnevale a tema, che Agostino organizzava ogni anno.
Sotto lo sguardo esterrefatto di Ottavia aveva acquistato per sé pantaloni scozzesi fitti di cerniere, scarponi da commando ed un chiodo cicatrizzato da un numero inverosimile di borchie.
Quando alla fine stavano già per andarsene, cariche di buste di plastica viola sulle quali campeggiava un teschio con cresta moichana, una ragazzina le aveva incrociate entrando. Una ragazzina bassotta che masticava chewing-gum e marciava a passo di combattimento su gambe tozze, inguainate in calze a rete artisticamente sforacchiate sotto una minigonna in latex aderente come un unguento.
Renata era tornata sui suoi passi ed aveva comprato per sé calze e minigonna identiche pensando a Corrado, che non incontrava da un mese, ed al fatto che Riccardo fosse a Vancouver.
L'effetto complessivo si era rivelato pirotecnico: i gel e gli spray di Ottavia, il trucco che le aveva distribuito sul viso con una competenza che l'aveva sorpresa, avevano trasformato Renata fino all'irriconoscibilità. I capelli verdi irti in enfasi multidirezionale si sposavano ad occhi affondati nel bistro ed alla bocca disegnata con crudeltà d'un color petrolio.
Ottavia le aveva prestato una sua canottiera a disegni leopardati dalla quale il seno tendeva a sgusciar fuori ad ogni movimento e la minigonna, sulle sue gambe eccellenti, era decisamente spudorata.
Le Roasènda, che erano passate a prenderla, avevano uggiolato d'entusiasmo vedendola apparire con il chiodo sulle spalle, le ginocchia che spuntavano dai buchi nelle calze, e quella faccia " proprio da puttana", come aveva detto con ammirazione Clara, mentre Adele annuiva incredula.
Il tema della serata era "Rock'n'roll forever" e riguardava una delle ossessioni ricorrenti di Agostino, che aveva trasformato un breve e marginale episodio della sua vita nell'icona inconfutabile del suo essere - come diceva citando Bob Dylan - forever young.
In realtà, come tutti quelli che continuava a frequentare fin dall'adolescenza, era stato perennemente aggrappato al suo milieu. Era geneticamente reazionario, nemico acerrimo di ogni intervento esterno che congiurasse contro l'equilibrio piccino delle sue complicità opportunistiche, che lui travisava in maniera più o meno consapevole spacciandole per amicizie consolidate.
Ma aveva trascorso, a vent'anni, una vacanza studio a Londra. Durante quel soggiorno si era scatenata in lui un curiosa pulsione centrifuga: un giorno aveva inaspettatamente abbandonato gli spezzati in tweed acquistati in Bond Street a favore di sgargianti addobbi hippie.
Si era lasciato crescere i capelli, che aveva crespi e caduchi, ottenendo un risultato inoppugnabile dal punto di vista geometrico ma debole dal punto di vista estetico: in pratica una testa a triangolo rettangolo, una capannuccia che sfoggiava sotto un cappellaccio moscio.
Si era accompagnato per un certo tempo a nuovi amici, ebbri come lui d'una libertà confusamente interpretata, aggirandosi per concerti e discoteche, fumando erba ed impasticcandosi, ma soprattutto scoprendo il rock acido e visionario dell'epoca. Questo aveva sommato a quello melodico di cui era già cultore, allargando smisuratamente la propria discoteca con impegnativi e febbricitanti acquisti da Virgin, che allora non era che un negozietto ad un primo piano dalle parti di Oxford Street. Poi, saturo, era rientrato in Italia come reduce vittorioso di un conflitto eroico. Naturalmente senza aver imparato l'inglese.
Si era poi, dopo poco tempo - da un giorno all'altro - riaddomesticato ai moduli di sempre: tagliati i capelli, riposto in naftalina il montone afgano, archiviato l'uso di sostanze illegali. Ma al rock, a quel brandello d'intuizione che gli era baluginato di fronte durante un'estate lontana ormai quasi trent'anni, s'era aggrappato con la pervicacia d'una piovra agonizzante.
E il rock tornava sempre, condito di quei settarismi che di Agostino erano la caratteristica più vistosa: quasi nulla che andasse oltre la metà dei settanta meritava d'esser preso in considerazione, allora si ballava così, e Eric Clapton senza i Cream non vale un cazzo, e Steve Winwood quello sì e così via, con una competenza esangue e ripetitiva cui gli amici - alcuni troppo giovani altri da sempre ignari di tutto - riservavano il rispetto appassito che si nutre per le erudizioni professorali.
Naturalmente odiava il punk e Renata - che senza averlo mai confessato pubblicamente, proprio per non incorrere nelle requisitorie di Agostino, ascoltava con una certa simpatia la musica che Ottavia lasciava filtrare da dietro la porta barricata di camera sua - con il suo travestimento contava di togliersi la soddisfazione di rifilargli un vaffanculo ben dissimulato.
Nel bailamme rievocativo fitto di pantaloni scampanati, stivaletti, stivaloni, mini pull, hot pants, bandane su parrucche dello Studio Teatrale Chiamparetto, in quell'affollamento che pareva la sequenza di un ipotetico "Woodstock secondo il mio commercialista", Renata era comparsa fendendo la folla d'amici che l'aveva accolta con un brusio ammirato per il suo coraggio sacrilego, ma incerta se intonare immediatamente il peana del consenso.
Le Roasènda, infagottate in gonnelloni multicolori come due esauste reduci di qualche comune californiana, le fungevano da damigelle con una certa malcelata fierezza.
Agostino aveva alzato il sopracciglio destro con quella sua smorfia di disapprovazione altezzosa, ma aveva abbozzato; si era limitato a qualche battuta scontata e poi, quando Renata verso le quattro del mattino, esausta e un po' brilla, si era assopita sul divano macchiandolo con il verde della tintura dei capelli, aveva detto che non era nulla, togliendola elegantemente dall'imbarazzo.
Ora, appoggiando il capo su quell'impercettibile alone residuo di un anno prima, Renata si concesse un lungo momento di tregua.
La serata procedeva secondo clichés sperimentati: ognuno si era assestato nel proprio territorio di conversazione abituale.
Quando decise di fare un giretto in terrazzo per prendere una boccata d'aria Renata si rese conto che la tequila aveva seguito un percorso imprevedibile, condizionandole un poco la libertà di movimento.
Si sollevò dal divano al secondo tentativo, controllando che nessuno s'accorgesse dei suoi tentennamenti, e scivolò guardinga, simulando una leggera noia, fino alla vetrata.
Uscì e si appoggiò alla ringhiera, fissando lo sguardo sulla gibigiana dei fari delle auto che scorrevano laggiù, sulla provinciale, apparendo e scomparendo dietro le quinte nere del fogliame dei platani.
In fondo al terrazzo, dove questo si allargava in una specie di piattaforma angolare, erano disposte nel buio alcune chaises longues, residui di ponte di prima classe di un transatlantico disarmato che Agostino era riuscito a saccheggiare grazie ai buoni uffici di un suo cliente.
Renata si diresse verso quell'angolo dopo essersi sfilata i mocassini. Prima di accomodarsi lanciò uno sguardo d'insieme alle sdraio disposte in cerchio e vide che una era occupata da un grumo affannato, che si districò non appena lei, lasciandosi cadere seduta, provocò uno scricchiolìo da pontile.
Mirella e Del Poz si sganciarono dall'abbraccio come due estranei che su un autobus siano stati sbattuti l'uno contro l'altra da una frenata. Mirella ricacciò indietro i capelli con gesto volubile senza riabbottonarsi la camicetta e disse con voce neutra " Ah... sei tu..." mentre Del Poz taceva, seduto con una compostezza da collegiale.
Nell'oscurità Renata non riusciva ad accertarsene ma aveva la sensazione che non avesse fatto in tempo a ritirare nei pantaloni ciò che la Tazzòli ne aveva estratto.
Disse " Scusate ma la tequila...avevo proprio bisogno di un po' d'aria".
Mirella emise una risatina, scoprendo nelle parole di Renata il tono della complicità. Si alzò, abbottonandosi finalmente la camicetta.
Del Poz non accennò a muoversi, sconcertato. Renata allungò le gambe sul materassino, appoggiò le mani sui braccioli e si illanguidì serafica.
- Noi andiamo ? - disse la Tazzòli a Del Poz che annuì senza alzarsi.
- Allora ti precedo - concluse lei con un velo d'irritazione per quell'indecisione bambinesca di lui, che sedeva con le mani giunte tra le cosce serrate, immobile nel buio. Si avviò verso la luce lontana della vetrata e Renata le riservò un'occhiatella sorniona, mentre dentro di sé sentiva crescere l'animosa visceralità d'una baccante.
Erano protetti dal buio, con un controllo completo e frontale su qualsiasi possibilità d'avvicinamento estraneo, notò Renata.
Lei con il vantaggio d'una studiata indifferenza, lui con l'handicap della confusione dettata dall'esser stato sorpreso in indaffaramento sessuale con un'altra da quella cui riservava attenzioni angelicanti, e probabilmente ancora con gli attributi en plein air.
Renata improvvisò uno sbadiglio con gemito sommesso, come a volersi accomiatare e Del Poz accennò un "...Sono mortificato...non immaginavo... voglio dire, lei non deve pensare che..."
Renata lo interruppe sorprendendosi di sé.
- Senta Del Poz io non penso proprio niente, però se dovessi pensare qualcosa in proposito difficilmente lo potrei fare senza tener conto di quello - e allungò mollemente un braccio in direzione delle cosce contratte di lui.
Del Poz emise un suono sordo, una specie di singulto ingoiato. Renata non poteva vederlo nell'oscurità ma era certa che doveva essere paonazzo. Lo sentì completamente in balia sua e la sensazione la imbaldanzì.
- Se non si decide a ritirarlo finirà col fargli prendere freddo - aggiunse con un sorriso sarcastico, meravigliata del suono delle sue parole.
Del Poz, che nel frattempo era riuscito a ricomporsi, mormorò un
" Non...io, voglia scusarmi, non vorrei lei equivocasse..." e intanto si alzava tenendosi di profilo.
- Se ne va ? - lo interruppe di nuovo Renata sempre più stupita di sé. Lui restò interdetto.
- Venga qui un momento Del Poz - disse con una certa autorità, e lui non poté fare altro che quei due passi per fermarsi di fronte a lei che allungò una mano a saggiare la patta aperta.
- Mi pareva ... - disse, e alzò lo sguardo su di lui che era una sagoma nera contro il cielo, immobile.
- Non vorrei che lei equivocasse Del Poz... - mormorò Renata senza trattenere una risatina allegra e affondando la mano a frugarlo tra le gambe.
- Ha un preservativo ? - chiese mentre si assestavano al riparo delle sdraio come dietro una barricata.
- No... - rispose incerto lui.
- Allora non se ne fa niente, mi dispiace ma sa com'é, io non la conosco e con i tempi che corrono, certi rischi...
Renata, nonostante impugnasse ancora saldamente l'attributo rilevante di Del Poz, aveva riesumato un comportamento che ricordava quello che assumeva sua madre di fronte alle referenze claudicanti di certe donne di servizio. Lui annuì impacciato.
Disse " Hai ragione, ma dobbiamo rivederci, ti desidero da morire tu non sai da quanto !" e così dicendo si chinò come implorante a baciarle i piedi, le ginocchia e poi su, lungo le cosce.
Renata si appoggiò alla ringhiera lasciando che Del Poz le sfilasse le mutandine e lappasse con ritmo da crampo mandibolare.
Corrado era in fondo al terrazzo, con un braccio intorno alle spalle di Grete.
Renata lo fissava dal buio come a volerne attirare lo sguardo e lui finalmente si voltò.
Scrutò incerto, percependo qualcosa: una figura eretta e qualcosa di raggomitolato ai suoi piedi. Fu tentato di muovere qualche passo verso di loro ma la presenza di Grete, che non si era accorta di nulla, lo trattenne. Guardava verso il loro buio con una curiosità sfacciata, leggermente ansiosa. Renata ad un certo punto ebbe la certezza d'esser stata riconosciuta e la cosa le procurò una scossa d'eccitazione convulsiva.
Disse " Vengo " con l'impeto di chi sta impartendo un ordine. Del Poz mise ancor più energia impugnandole con fermezza i glutei e Corrado, che sicuramente aveva sentito, si ritirò, trascinando una Grete recalcitrante e inconsapevole, scomparendo nel bordo di luce della porta finestra.
Il giorno successivo Renata telefonò a suo padre e lo convinse a lasciarsi accompagnare in una gita estemporanea.
- Ti invito a pranzo all “Aquila Reale” - disse, ricordando all'improvviso la simpatia che lui nutriva per quell'antica locanda isolata nella forcella d'un bivio, non molto lontana dallo stabilimento.
- Mi pare che abbiano cambiato gestione... - rispose lui, ancora incerto se abbandonare la tranquillità del salotto in penombra e le cure assidue della signora Chiamberlando, ma Renata non si arrese.
Si accordarono per il giovedì, giornata in cui Ottavia e Federica erano occupate autonomamente e Riccardo alle prese con un consiglio di amministrazione che lo avrebbe impastoiato fino a notte.
In quella casa erano passate una mezza dozzina di signorine che del trucco avrebbero potuto fare un mestiere, quindi era più che probabile che qualcosa avessero lasciato; non c’erano però che schiume da barba, gel, colonie maschili, aspirine e ansiolitici.
Renata si piegò sulle ginocchia ed ispezionò il mobiletto che era sotto il pensile ed effettivamente, in un cestino di paglia relegato in un angolo, si accumulavano alla rinfusa le matite per gli occhi, i rossetti, i tubetti di fard e il rimmel che si aspettava di trovare.
Senza sapere perché, allungò la mano oltre il cestino, sul fondo dell'armadietto, tastando una borsa gommata per il ghiaccio che pareva avvolgere qualcosa. Ne ruzzolò fuori un vibratore di proporzioni cospicue che riproduceva in dettaglio estremamente realistico un fallo maschile in erezione, con tanto di turgore di vene in rilievo.
Renata si affrettò a coprire l'oggetto con la borsa del ghiaccio in preda ad un panico improvviso: riaffiorò allo specchio scoprendosi uno sguardo stralunato e approssimò il ritocco degli occhi.
Le voci degli amici stavano assumendo volume d'allegria; qualcuno mise in funzione l'impianto stereo e le note di una vecchia canzone dei Mamas & Papas fluttuarono fino a Renata che stava pensando - Ma guarda un po' Agostino... chissà come lo usano... -
Per un attimo ebbe la tentazione di indagare l'oggetto con maggior attenzione, ma resistette e si precipitò fuori del bagno.
Il salone aveva una propaggine palafitticola e terrazzata che si protendeva verso il lago appoggiandosi su rassicuranti colonne di cemento armato.
Ora in quel salone gli amici si stavano assiepando.
Alcuni si erano adagiati con esausta soddisfazione sui divani color panna che l'arredatore adolescente - figlio di una ex di Agostino - aveva disposto secondo una geometria invasiva e un po' incongrua; altri stavano affacciati, e temporaneamente meditativi, alla grande vetrata che guardava il lago e le luci che vi si riflettevano tremule.
Agostino, che dirigeva queste occasioni d'incontro con l'accuratezza e l'irriducibilità di un regista hollywoodiano, aveva predisposto su un tavolino vassoi con fette di limone, ciotolette di sale e bottiglie d'una tequila a suo dire speciale, e costringendo tutti al rito complesso del leccare bere succhiare come inevitabile e coerente continuità con la cena messicana.
- ... strano che non abbia sombreri per tutti... - udì Renata, e riconobbe il sussurro arrochito che pareva sempre un invito erotico persino se forniva informazioni sugli orari dei voli per Londra.
Mirella Tazzòli in punta di piedi, afferrata all'avambraccio di Del Poz, gli si premeva addosso in studiata mancanza d'equilibrio.
Con le labbra praticamente appoggiate ad un suo orecchio stava probabilmente sussurrando battutine asprigne come quella che aveva afferrato Renata. Stando accanto allo stipite che immetteva al corridoio lei era arrivata alle loro spalle protetta dalla penombra.
Del Poz ridacchiò compito, ritraendo impercettibilmente il capo con gesto infantile sotto lo stimolo solleticante delle parole che Mirella aveva usato più per titillarlo che per farlo sorridere.
Renata osservò il dorso vigoroso di lui, abbassò gli occhi e pensò che aveva un bel sedere, poi spostò lo sguardo a quello di Mirella e dovette ammettere che anche il suo era di qualità. Del resto era universalmente apprezzato anche perché Mirella Tazzòli conosceva tutti gli espedienti per sfoggiarlo, trasformandolo in un ipnotico centro d'attenzione che distraesse dal suo viso, delicatamente vaiolizzato dall'acne giovanile che aveva disperato la sua adolescenza. Il brutto anatroccolo non si era poi trasformato in cigno ma si era agguerrito di tattiche spregiudicate che sdraiavano nel suo letto tutti gli uomini che decideva di scoparsi, compresi fidanzati e mariti delle sue migliori amiche.
Ora l'avercelo davanti, il generoso culo della Tazzòli, e vederlo affiancato a quello di Del Poz - che pur manifestando per Renata sintomi da innamoramento alla Peynet quella notte si sarebbe inevitabilmente occupato dell'altra - le procurò un imprevisto soprassalto di ingiustificata gelosia, che le si assestò a mezza strada tra la gola e la bocca dello stomaco.
Desiderò, per la prima volta in vita sua competere, sedurre, esporsi, e lo stupore di quel sentimento aggressivo, guerresco e sconosciuto, sommato a quell'altro, malinconico, soffocante e altrettanto sconosciuto che aveva provato sfrecciando in auto davanti agli anonimi edifici di una fabbrica di cui non le importava nulla, la paralizzarono.
Riaffiorò la voglia di piangere, di rabbia e nostalgia insieme, ma questa volta, forse perché la rabbia prevaleva, riuscì a trattenersi.
Fece il suo ingresso nel salone con spavalderia, si sottopose di buon grado al rituale tequila che Agostino officiava implacabile e sedette sul bracciolo della poltrona occupata da Grete.
Accavallò le gambe avviticchiandole come aveva visto fare ad una soubrette televisiva che le aveva meno belle delle sue, e lasciò che la gonna risalisse a scoprirle nude, delicatamente abbronzate e levigate come alabastro: il suo orgoglio anatomico.
Gianfilippo apprezzò con una fischiatina bolsa e Agostino si precipitò ad ammannirle un'altra tequila.
Corrado lanciava brevi occhiatine interrogative che salivano oblique dalla placidità assonnata della fidanzata all'inopinato protagonismo dell'amante. Riccardo parlava di golf con i Genéro e intanto Del Poz, laggiù, la fissava incupito.
A quel punto Renata si rese conto che il suo repertorio di donna fatale era esaurito, inoltre la tequila iniziava a sortire effetti sbilancianti e quella posizione precaria sul bracciolo della poltrona la stava mettendo in difficoltà.
Districò le gambe ed andò a cercarsi un posto tranquillo sul sofà d'angolo, che ancora portava un'impercettibile traccia di verde sulla tinta panna dello schienale là dove lei, un anno prima, aveva appoggiato la testa tinta d'uno spray colorante durante una festa di carnevale.
L'idea le era venuta un giorno che Ottavia l'aveva costretta ad accompagnarla in uno di quei negozi punk: musica ossessiva a tutto volume e ragazze e ragazzi dall'aspetto volonterosamente funereo.
Ottavia ambiva incomprensibilmente ad essere come loro e solo le categoriche proibizioni dei genitori avevano impedito che si martoriasse di fori in cui infilare ogni sorta di aggeggi metallici. Riccardo aveva assicurato " Passerà " e Renata se ne era detta certa.
Ottavia infatti somigliava a loro due: possedeva caratterialmente una pratica vocazione alla riducibilità che permetteva di imputare quel confuso desiderio di ribellione più che altro al turbinìo ormonale dei quattordici anni, transitorio ed inoffensivo.
Renata aveva allora accettato di accontentarla nel suo desiderio di addobbarsi di cuoio, borchie, anfibi e altri ammennicoli, ricorrendo ad una condiscendenza strategica. Così quel giorno si era aggirata tra gli scaffali a forma di bara nel negozietto stretto e lungo come un mezzo pubblico, un po' a disagio nel suo tailleur di Saint Laurent, e all'improvviso aveva risolto il dilemma del costume per l'irrinunciabile festa di Carnevale a tema, che Agostino organizzava ogni anno.
Sotto lo sguardo esterrefatto di Ottavia aveva acquistato per sé pantaloni scozzesi fitti di cerniere, scarponi da commando ed un chiodo cicatrizzato da un numero inverosimile di borchie.
Quando alla fine stavano già per andarsene, cariche di buste di plastica viola sulle quali campeggiava un teschio con cresta moichana, una ragazzina le aveva incrociate entrando. Una ragazzina bassotta che masticava chewing-gum e marciava a passo di combattimento su gambe tozze, inguainate in calze a rete artisticamente sforacchiate sotto una minigonna in latex aderente come un unguento.
Renata era tornata sui suoi passi ed aveva comprato per sé calze e minigonna identiche pensando a Corrado, che non incontrava da un mese, ed al fatto che Riccardo fosse a Vancouver.
L'effetto complessivo si era rivelato pirotecnico: i gel e gli spray di Ottavia, il trucco che le aveva distribuito sul viso con una competenza che l'aveva sorpresa, avevano trasformato Renata fino all'irriconoscibilità. I capelli verdi irti in enfasi multidirezionale si sposavano ad occhi affondati nel bistro ed alla bocca disegnata con crudeltà d'un color petrolio.
Ottavia le aveva prestato una sua canottiera a disegni leopardati dalla quale il seno tendeva a sgusciar fuori ad ogni movimento e la minigonna, sulle sue gambe eccellenti, era decisamente spudorata.
Le Roasènda, che erano passate a prenderla, avevano uggiolato d'entusiasmo vedendola apparire con il chiodo sulle spalle, le ginocchia che spuntavano dai buchi nelle calze, e quella faccia " proprio da puttana", come aveva detto con ammirazione Clara, mentre Adele annuiva incredula.
Il tema della serata era "Rock'n'roll forever" e riguardava una delle ossessioni ricorrenti di Agostino, che aveva trasformato un breve e marginale episodio della sua vita nell'icona inconfutabile del suo essere - come diceva citando Bob Dylan - forever young.
In realtà, come tutti quelli che continuava a frequentare fin dall'adolescenza, era stato perennemente aggrappato al suo milieu. Era geneticamente reazionario, nemico acerrimo di ogni intervento esterno che congiurasse contro l'equilibrio piccino delle sue complicità opportunistiche, che lui travisava in maniera più o meno consapevole spacciandole per amicizie consolidate.
Ma aveva trascorso, a vent'anni, una vacanza studio a Londra. Durante quel soggiorno si era scatenata in lui un curiosa pulsione centrifuga: un giorno aveva inaspettatamente abbandonato gli spezzati in tweed acquistati in Bond Street a favore di sgargianti addobbi hippie.
Si era lasciato crescere i capelli, che aveva crespi e caduchi, ottenendo un risultato inoppugnabile dal punto di vista geometrico ma debole dal punto di vista estetico: in pratica una testa a triangolo rettangolo, una capannuccia che sfoggiava sotto un cappellaccio moscio.
Si era accompagnato per un certo tempo a nuovi amici, ebbri come lui d'una libertà confusamente interpretata, aggirandosi per concerti e discoteche, fumando erba ed impasticcandosi, ma soprattutto scoprendo il rock acido e visionario dell'epoca. Questo aveva sommato a quello melodico di cui era già cultore, allargando smisuratamente la propria discoteca con impegnativi e febbricitanti acquisti da Virgin, che allora non era che un negozietto ad un primo piano dalle parti di Oxford Street. Poi, saturo, era rientrato in Italia come reduce vittorioso di un conflitto eroico. Naturalmente senza aver imparato l'inglese.
Si era poi, dopo poco tempo - da un giorno all'altro - riaddomesticato ai moduli di sempre: tagliati i capelli, riposto in naftalina il montone afgano, archiviato l'uso di sostanze illegali. Ma al rock, a quel brandello d'intuizione che gli era baluginato di fronte durante un'estate lontana ormai quasi trent'anni, s'era aggrappato con la pervicacia d'una piovra agonizzante.
E il rock tornava sempre, condito di quei settarismi che di Agostino erano la caratteristica più vistosa: quasi nulla che andasse oltre la metà dei settanta meritava d'esser preso in considerazione, allora si ballava così, e Eric Clapton senza i Cream non vale un cazzo, e Steve Winwood quello sì e così via, con una competenza esangue e ripetitiva cui gli amici - alcuni troppo giovani altri da sempre ignari di tutto - riservavano il rispetto appassito che si nutre per le erudizioni professorali.
Naturalmente odiava il punk e Renata - che senza averlo mai confessato pubblicamente, proprio per non incorrere nelle requisitorie di Agostino, ascoltava con una certa simpatia la musica che Ottavia lasciava filtrare da dietro la porta barricata di camera sua - con il suo travestimento contava di togliersi la soddisfazione di rifilargli un vaffanculo ben dissimulato.
Nel bailamme rievocativo fitto di pantaloni scampanati, stivaletti, stivaloni, mini pull, hot pants, bandane su parrucche dello Studio Teatrale Chiamparetto, in quell'affollamento che pareva la sequenza di un ipotetico "Woodstock secondo il mio commercialista", Renata era comparsa fendendo la folla d'amici che l'aveva accolta con un brusio ammirato per il suo coraggio sacrilego, ma incerta se intonare immediatamente il peana del consenso.
Le Roasènda, infagottate in gonnelloni multicolori come due esauste reduci di qualche comune californiana, le fungevano da damigelle con una certa malcelata fierezza.
Agostino aveva alzato il sopracciglio destro con quella sua smorfia di disapprovazione altezzosa, ma aveva abbozzato; si era limitato a qualche battuta scontata e poi, quando Renata verso le quattro del mattino, esausta e un po' brilla, si era assopita sul divano macchiandolo con il verde della tintura dei capelli, aveva detto che non era nulla, togliendola elegantemente dall'imbarazzo.
Ora, appoggiando il capo su quell'impercettibile alone residuo di un anno prima, Renata si concesse un lungo momento di tregua.
La serata procedeva secondo clichés sperimentati: ognuno si era assestato nel proprio territorio di conversazione abituale.
Quando decise di fare un giretto in terrazzo per prendere una boccata d'aria Renata si rese conto che la tequila aveva seguito un percorso imprevedibile, condizionandole un poco la libertà di movimento.
Si sollevò dal divano al secondo tentativo, controllando che nessuno s'accorgesse dei suoi tentennamenti, e scivolò guardinga, simulando una leggera noia, fino alla vetrata.
Uscì e si appoggiò alla ringhiera, fissando lo sguardo sulla gibigiana dei fari delle auto che scorrevano laggiù, sulla provinciale, apparendo e scomparendo dietro le quinte nere del fogliame dei platani.
In fondo al terrazzo, dove questo si allargava in una specie di piattaforma angolare, erano disposte nel buio alcune chaises longues, residui di ponte di prima classe di un transatlantico disarmato che Agostino era riuscito a saccheggiare grazie ai buoni uffici di un suo cliente.
Renata si diresse verso quell'angolo dopo essersi sfilata i mocassini. Prima di accomodarsi lanciò uno sguardo d'insieme alle sdraio disposte in cerchio e vide che una era occupata da un grumo affannato, che si districò non appena lei, lasciandosi cadere seduta, provocò uno scricchiolìo da pontile.
Mirella e Del Poz si sganciarono dall'abbraccio come due estranei che su un autobus siano stati sbattuti l'uno contro l'altra da una frenata. Mirella ricacciò indietro i capelli con gesto volubile senza riabbottonarsi la camicetta e disse con voce neutra " Ah... sei tu..." mentre Del Poz taceva, seduto con una compostezza da collegiale.
Nell'oscurità Renata non riusciva ad accertarsene ma aveva la sensazione che non avesse fatto in tempo a ritirare nei pantaloni ciò che la Tazzòli ne aveva estratto.
Disse " Scusate ma la tequila...avevo proprio bisogno di un po' d'aria".
Mirella emise una risatina, scoprendo nelle parole di Renata il tono della complicità. Si alzò, abbottonandosi finalmente la camicetta.
Del Poz non accennò a muoversi, sconcertato. Renata allungò le gambe sul materassino, appoggiò le mani sui braccioli e si illanguidì serafica.
- Noi andiamo ? - disse la Tazzòli a Del Poz che annuì senza alzarsi.
- Allora ti precedo - concluse lei con un velo d'irritazione per quell'indecisione bambinesca di lui, che sedeva con le mani giunte tra le cosce serrate, immobile nel buio. Si avviò verso la luce lontana della vetrata e Renata le riservò un'occhiatella sorniona, mentre dentro di sé sentiva crescere l'animosa visceralità d'una baccante.
Erano protetti dal buio, con un controllo completo e frontale su qualsiasi possibilità d'avvicinamento estraneo, notò Renata.
Lei con il vantaggio d'una studiata indifferenza, lui con l'handicap della confusione dettata dall'esser stato sorpreso in indaffaramento sessuale con un'altra da quella cui riservava attenzioni angelicanti, e probabilmente ancora con gli attributi en plein air.
Renata improvvisò uno sbadiglio con gemito sommesso, come a volersi accomiatare e Del Poz accennò un "...Sono mortificato...non immaginavo... voglio dire, lei non deve pensare che..."
Renata lo interruppe sorprendendosi di sé.
- Senta Del Poz io non penso proprio niente, però se dovessi pensare qualcosa in proposito difficilmente lo potrei fare senza tener conto di quello - e allungò mollemente un braccio in direzione delle cosce contratte di lui.
Del Poz emise un suono sordo, una specie di singulto ingoiato. Renata non poteva vederlo nell'oscurità ma era certa che doveva essere paonazzo. Lo sentì completamente in balia sua e la sensazione la imbaldanzì.
- Se non si decide a ritirarlo finirà col fargli prendere freddo - aggiunse con un sorriso sarcastico, meravigliata del suono delle sue parole.
Del Poz, che nel frattempo era riuscito a ricomporsi, mormorò un
" Non...io, voglia scusarmi, non vorrei lei equivocasse..." e intanto si alzava tenendosi di profilo.
- Se ne va ? - lo interruppe di nuovo Renata sempre più stupita di sé. Lui restò interdetto.
- Venga qui un momento Del Poz - disse con una certa autorità, e lui non poté fare altro che quei due passi per fermarsi di fronte a lei che allungò una mano a saggiare la patta aperta.
- Mi pareva ... - disse, e alzò lo sguardo su di lui che era una sagoma nera contro il cielo, immobile.
- Non vorrei che lei equivocasse Del Poz... - mormorò Renata senza trattenere una risatina allegra e affondando la mano a frugarlo tra le gambe.
- Ha un preservativo ? - chiese mentre si assestavano al riparo delle sdraio come dietro una barricata.
- No... - rispose incerto lui.
- Allora non se ne fa niente, mi dispiace ma sa com'é, io non la conosco e con i tempi che corrono, certi rischi...
Renata, nonostante impugnasse ancora saldamente l'attributo rilevante di Del Poz, aveva riesumato un comportamento che ricordava quello che assumeva sua madre di fronte alle referenze claudicanti di certe donne di servizio. Lui annuì impacciato.
Disse " Hai ragione, ma dobbiamo rivederci, ti desidero da morire tu non sai da quanto !" e così dicendo si chinò come implorante a baciarle i piedi, le ginocchia e poi su, lungo le cosce.
Renata si appoggiò alla ringhiera lasciando che Del Poz le sfilasse le mutandine e lappasse con ritmo da crampo mandibolare.
Corrado era in fondo al terrazzo, con un braccio intorno alle spalle di Grete.
Renata lo fissava dal buio come a volerne attirare lo sguardo e lui finalmente si voltò.
Scrutò incerto, percependo qualcosa: una figura eretta e qualcosa di raggomitolato ai suoi piedi. Fu tentato di muovere qualche passo verso di loro ma la presenza di Grete, che non si era accorta di nulla, lo trattenne. Guardava verso il loro buio con una curiosità sfacciata, leggermente ansiosa. Renata ad un certo punto ebbe la certezza d'esser stata riconosciuta e la cosa le procurò una scossa d'eccitazione convulsiva.
Disse " Vengo " con l'impeto di chi sta impartendo un ordine. Del Poz mise ancor più energia impugnandole con fermezza i glutei e Corrado, che sicuramente aveva sentito, si ritirò, trascinando una Grete recalcitrante e inconsapevole, scomparendo nel bordo di luce della porta finestra.
Il giorno successivo Renata telefonò a suo padre e lo convinse a lasciarsi accompagnare in una gita estemporanea.
- Ti invito a pranzo all “Aquila Reale” - disse, ricordando all'improvviso la simpatia che lui nutriva per quell'antica locanda isolata nella forcella d'un bivio, non molto lontana dallo stabilimento.
- Mi pare che abbiano cambiato gestione... - rispose lui, ancora incerto se abbandonare la tranquillità del salotto in penombra e le cure assidue della signora Chiamberlando, ma Renata non si arrese.
Si accordarono per il giovedì, giornata in cui Ottavia e Federica erano occupate autonomamente e Riccardo alle prese con un consiglio di amministrazione che lo avrebbe impastoiato fino a notte.
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